Da Parole Antifa, un disertore:
Al lavoro, quando non faccio in tempo a tornare a casa per pranzo, mangio un piatto di pasta in una trattoria della zona. Da un po’ di tempo mi fermo sempre nella stessa trattoria. Mi piace perchè è frequentata da vari lavoratori in pausa pranzo: muratori, cavatori, camionisti. Entrano in abiti da lavoro e la cosa dà quel tocco in più di popolare. Alcuni mi scambiano per uno sbirro, altri più informati mi considerano uno dei terribili “servizi sociali”, uno di quegli intoccabili che possono levare i figli alle madri. Come di consueto non faccio nulla per smentire le voci. Eccessivamente educato, sempre silenzioso, mi diverto ad ascoltare i discorsi degli altri tavoli. Mi sembra una fotografia di vite e culture che ho conosciuto troppo poco, uno sguardo a fondo da un altro punto di vista.
Qualche giorno fa, davanti a un piatto di penne all’arrabbiata, mi appassiono alle considerazioni del tavolo vicino. Ci sono tre uomini, probabilmente tre muratori. Sono abbastanza anziani, e trasmettono un senso di vita dedita al lavoro, di fatica, ma anche di orgoglio. Parlano ad alta voce ed ispirano un’allegria contagiosa, soprattutto il più loquace dei tre. Alla televisione, come al solito, Studio Aperto: vergognoso come sempre, con la sua innata capacità di lucrare politicamente sulle tragedie. I tre uomini commentano le notizie e la simpatia aumenta: sono uomini di sinistra, ma quella sinistra popolare. Attaccano Berlusconi, accompagnati dalle immancabili bestemmie, sempre più improbabili. Passa qualche minuto, mi sta arrivando il caffè. Il telegiornale è proseguito e le immagini si soffermano sulle bellissime di Cannes, direttamente fotografate sulla passerella, nei loro abiti eleganti. Dal tavolo vicino non possono mancare i commenti. Uno ammicca di gomito all’altro. E poi d’improvviso, la sentenza: “Quelle? Son tutte puttane!”. Il discorso è chiuso, gli ammiccamenti non servono più. E’ arrivato il marchio a fuoco dell’infamia, la scure dell’oscurantismo maschile…
Nel tornare a casa dal lavoro, quando riesco, ascolto volentieri il GR di Radio Popolare. Mi sembra uno dei pochi sguardi interessanti sul mondo che la nostra informazione ci fornisce. Apre con l’ennesimo caso di barbaro femminicidio e mi torna in mente la sentenza della trattoria.
Esiste, è ovvio, una scala di gravità nei comportamenti maschilisti. Ma, mi chiedo, è possibile tracciare una linea fra una visione patriarcale che ti porta ad apostrofare ogni esistenza femminile che esce dalla normalità, in maniera ferocemente dispregiativa e un comportamento violento che porta all’uccisione? Non fanno forse parte della medesima cultura per cui, la presa di parola femminile, sia essa pubblica o all’interno delle relazioni di coppia o familiari, porta a uno spaesamento e auna becera reazione nel maschio italiano? Esiste una complicità di chi, come noi, prova a rompere questi schemi e a fare dell’antisessismo un terreno di lotta politica e culturale?
Si, forse siamo tutti responsabili. Anche chi prova a comportarsi da disertore rispetto alla cultura patriarcale. Lo siamo nella misura in cui non troviamo la forza di essere sempre intransigenti. Lo siamo quando le discussioni come quelle della trattoria avvengono nei contesti che frequentiamo, sia pur meno feroci, e non interveniamo. Lo siamo nei momenti in cui non ci indignamo a sufficienza.
Si, questa scala di gravità esiste. Ma se non cominciamo ad incidere anche ai livelli più inferiori, se non proviamo a scardinare radicalmente i paradigmi culturali nei quali siamo melmosamente coinvolti, siamo tutti conniventi. Noi compagni prima di tutto.