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Firenze: Assemblea di genere – seconda puntata: mercoledì 5 giugno alla facoltà di Lettere

Da CortoCircuito:

Riceviamo e pubblichiamo:
(Per ogni info scrivere un’email a genere@anche.no)

Secondo appuntamento di discussione sul documento “Il vaso di Pandora”.

Facoltà di Lettere
(p.zza Brunelleschi)

dalle ore 21.00

Il vaso di Pandora

ovvero ciò che non è più possibile tornare a celare

Perché un’assemblea di genere? Perché non ci sia più bisogno di un’assemblea di genere

Abbiamo iniziato a riunirci tra donne per cospirare per l’eliminazione del genere maschile. Siamo stufe di millenni di oppressione patriarcale, di dominio, di fallocrazia. E’ giunto il momento per le donne di prendere il potere. Ogni uomo che incontreremo sulla nostra strada lo asfalteremo, tanto ci dite che non sappiamo guidare. E quelle donne che non sono d’accordo con noi le considereremo complici dell’oppressione maschile, succubi volontarie, e non degne di definirsi donne. Quando finalmente avremo il potere, nelle città non ci saranno più grattacieli a forma di fallo. Uccideremo ogni figlio maschio, ne terremo uno ogni dieci solo per procreare altre donne. E finalmente vivremo in un mondo di pace, dolcezza, comprensione, sensibilità, fragilità, mansuetudine, fino ad arrivare all’apice della Civilizzazione.

…se vi siete resi conto che ciò che desideriamo è tutto meno che questo, state iniziando a capire il perché dell’esigenza di un’assemblea di genere.

I generi maschile e femminile sono qualcosa di molto diverso dalla differenza biologica tra uomo e donna: sono una costruzione sociale che inizia dalla scelta del fiocco blu o rosa quando nasci, e che continua nell’indirizzamento verso giochi “da maschio” che hanno a che fare con la guerra, la manifestazione della forza e la virilità, oppure giochi “da femmina” che sono legati alla maternità, all’economia domestica, alla cura di sé. Al di là della famiglia e delle scelte dei genitori, che a oggi possono essere le più disparate, il condizionamento più significativo è quello dato dall’impatto con la società. A scuola, ai giardini, tramite la TV, nell’ambiente sportivo… i bambini vengono costantemente sottoposti a stimoli che li spingono a costruire la propria persona in base a dei modelli stereotipati di “maschio” e di “femmina”.

L’adesione, anche inconscia, a questi stereotipi, è un limite che è necessario riconoscere per potersene liberare. Questi stereotipi non sono neutri, ma costruiti in modo che vi sia un dominio del virile sul femminile. Abbiamo iniziato a riunirci tra donne per indagare l’origine della subalternità che tali stereotipi ci impongono, e per iniziare a decostruirla. Ma pensiamo anche che, in prospettiva, sia parziale e inefficace un discorso al femminile; da un lato perché crediamo che gli stereotipi costruiti sul genere maschile siano comunque una gabbia per chi si trova ad agirli, dall’altro perché un superamento di questo rapporto di dominio va necessariamente costruito insieme. Questo è il perché di un’assemblea di genere.

Problematizzare la questione di genere ha di per sé un valore rivoluzionario, è parte della lotta quotidiana per il cambiamento dello stato di cose presenti che un movimento che si dia prospettive di superamento dell’esistente dovrebbe assumersi. La nostra esigenza di riunirci in un’assemblea di genere dimostra che questo non sta accadendo abbastanza. Ci auguriamo di poter dare un contributo in questo senso, perché l’assemblea non sia più necessaria.

Sui rapporti di potere

Come pensiamo che la liberazione per quanto concerne i rapporti fra generi passi dall’annullamento del dominio di un genere su un altro, così crediamo che un reale processo di liberazione collettivo debba necessariamente tendere all’eliminazione dei rapporti di potere nelle relazioni umane, su qualsiasi livello esse siano. In ogni relazione umana è inevitabile che si produca un confronto, anche conflittuale, ma questo non implica necessariamente che si vengano a produrre anche forme di sopraffazione o di gerarchia. Nella creazione di processi collettivi deve essere possibile emanciparsi dalla riproduzione di ruoli fondati sugli standard che la società ci impone, senza doverli per forza riprodurre. Questo è ciò che ci auspichiamo e su cui tentiamo di lavorare, poiché l’ottica con cui affrontiamo la questione di genere è direttamente connessa a un discorso più generale sul dominio.

Nonostante nell’ambiente del movimento i ruoli di potere vengano costantemente messi in discussione sia dai compagni che dalle compagne, il che lo dovrebbe rendere un terreno ostile a certe dinamiche, in realtà più o meno involontariamente tali ruoli vengono comunque riprodotti.

Vi è mai capitato di uscire da un’assemblea e di sentire, a prescindere dai contenuti e dalle decisioni prese, che c’era qualcosa che non vi convinceva? A noi spesso è capitato, e abbiamo provato a chiederci perché.

Di solito ciò che non ci convince non sono tanto le conclusioni a cui si arriva, quanto il modo in cui ci si arriva. Tutto questo è strettamente connesso alle dinamiche che si vengono a creare nella situazione collettiva, e ai diversi ruoli che si producono di conseguenza.

E’ a partire dal sistema scolastico che ci viene insegnato a parlare pubblicamente solo seguendo un modello argomentativo razionale e a dover convincere delle proprie tesi chi ci ascolta (modello interrogazione scolastica). Ci viene insegnato che è più importante sembrare sicuri di ciò che si dice, dimostrando di conoscere più nozioni possibili, piuttosto che dire le cose in modo spontaneo, basandoci sulla nostra esperienza e le nostre impressioni. Questo modello viene interiorizzato a tal punto che lo riproponiamo in ogni contesto pubblico e in ogni discussione, come ad esempio nelle assemblee.

Ogni qualvolta tentiamo di convincerci a vicenda, polarizzando il dibattito su posizioni contrapposte, perdiamo il senso del discutere collettivamente. Uno degli effetti prodotti da questa dinamica è che una serie di persone finisce per essere di fatto esclusa dall’assemblea: non partecipa attivamente o appiattisce la propria idea schierandosi con un “partito” o con un altro. Quando si fa un assemblea la si dovrebbe fare per giungere a una conclusione che tenga conto e che valorizzi le opinioni di tutti, non per far passare l’idea della “maggioranza” o di chi ha le idee più chiare.

Con questo non vogliamo dire che portare in una discussione un’idea chiara o una tesi già formulata sia sbagliato. Il punto è essere capaci di problematizzarla nel contesto collettivo, lasciando spazio a chi pone dei dubbi, a chi non è convinto, a chi avrebbe qualcosa da dire ma “non è sicuro nell’esporre”, tenendo presente che qualsiasi voce in più aggiunge un nuovo punto di vista, arricchendo e ampliando la tesi iniziale e rendendola condivisa.  Si tratta di imparare a sviluppare le discussioni in modo da giungere a un sentire collettivo.

L’obiettivo del discutere non è convincere, ma arrivare a una sintesi collettiva al rialzo, che da una parte integri il contributo di ciascuno e dall’altra possa essere rivendicata come propria da ognuno.

Sui ruoli e la loro gerarchia

Non problematizzare il momento assembleare provoca una cristallizzazione dei ruoli, e fa sì che queste dinamiche si ripropongano in maniera meno esplicita anche al di fuori delle assemblee, andandosi a sommare agli stereotipi di genere proposti dalla società e da noi tutti introiettati.

Cosa significa tutto questo?

Significa che se sei una donna ti ritroverai tendenzialmente a tenere la cassa, cucinare, fare telefonate, mandare mail, occuparti degli spazi comuni, gestire le iniziative ricreative, comprare quello che serve, tenere in ordine i materiali, stampare e fare fotocopie… Se invece sei un uomo, probabilmente sarai tu a fare gli interventi pubblici,  discutere la linea politica e scrivere i testi, organizzare e coordinare i momenti di piazza, tenere i contatti con le altre situazioni, fare il referente, gestire tutti quei contesti che comportano uno scontro…

In generale le donne tendono a gestire l’ordinaria amministrazione e il “lavoro di backstage”, mentre agli uomini spetta la “luce dei riflettori”. Questo porta a una gerarchizzazione dei ruoli, e si tende a dare maggiore valore e rilevanza politica ai momenti pubblici rispetto al lavoro di gestione e organizzazione. E’ un circolo vizioso: da una parte stampare i volantini è un compito “secondario”, quindi sono le donne a farlo; dall’altra sono le donne a stampare i volantini, quindi è un compito “secondario”.

Anche quando la divisione di questi ruoli si slega dal genere, e sono le donne ad assumere un ruolo più pubblico e “da leader”, la sostanza non cambia, poiché riproducono lo stesso atteggiamento del “maschio dominante” senza metterlo in dubbio. Anzi, plasmando loro stesse su di esso. L’emancipazione non passa dall’inversione dei ruoli: una donna che si fa uomo (stereotipato) riproduce esattamente lo stesso sistema di potere. D’altra parte, l’uomo che non riproduce appieno lo stereotipo maschile diventa di fatto un personaggio secondario.

Sovvertire una gerarchia dei ruoli vuol dire in primis capire che le varie mansioni sono le une indispensabili alle altre. Dare maggior importanza a quelle più “classicamente politiche” compromette la costruzione del processo collettivo che comprende il lavoro di tutti, e che quindi dev’essere ugualmente valorizzato.

Non solo, ma anche pensare che ciascuno faccia solo “quello che sa fare” è limitante rispetto alla crescita del singolo e del gruppo. Se da un lato è bello valorizzare le competenze e la capacità di ognuno, dall’altro è importante mettersi in gioco per superare i propri limiti e quindi moltiplicare i momenti di condivisione e “auto-formazione”, in cui chi è più esperto condivide con gli altri ciò che sa, in maniera tale che le mansioni diventino il più possibile intercambiabili. Per esempio, nei gruppi di hacker, chi è meno capace di fare una cosa viene costantemente spinto a farla da chi la sa già fare, che gli dà una mano. Ciò crea gli anticorpi perché non si vengano a creare rapporti di forza  a partire da competenze differenti che potrebbero gerarchizzarsi, e perché non si cada in una “divisione del lavoro”. Infatti anch’essa, se sclerotizzata, porta a un’atomizzazione e tecnicizzazione identica a quella che si trova nella società in cui viviamo, che è funzionale al mantenimento di tali gerarchie.

Questo meccanismo è alimentato anche dalla tendenza alla delega: chi si trova ad assumere ruoli comunemente considerati “di secondo piano” tende ad adagiarvisi, e a non mettere in discussione il fatto che il ruolo “dominante” spetti a qualcun altro, che le cose che si trova a fare siano ad esso subordinate per importanza e che questo lo giustifichi nel non assumersi (o non assumersi allo stesso modo) le responsabilità.

Questo tipo di gerarchia si ripropone nel considerare le pratiche di piazza o di scontro diretto come più importanti  e conflittuali rispetto a quelle di radicalità quotidiana, che comprendono tutto quello che facciamo ogni giorno, e che danno sostanza anche ai momenti più eccezionali. Dal materiale che produciamo, agli spazi a cui diamo vita, dai momenti di socialità che creiamo e i legami che riusciamo a stringere, al nostro stile di vita in genere.

Questo accade fin dalle prime esperienze di lotta. Ad esempio l’occupazione di una scuola si può considerare riuscita non solo in funzione di quante barricate abbiamo fatto o quanti pochi professori abbiamo fatto entrare, ma anche, e con pari importanza, se siamo riusciti a creare un gruppo coeso e orizzontale, a instaurare rapporti e amicizie durante quei giorni, a favorire la crescita di una coscienza critica collettiva. Tutte cose che restano, al di là dell’esperienza specifica.

Ridimensionare il valore dello scontro fisico vuol dire anche, soprattutto per gli uomini, poter ammettere di non accollarsi o non sentirsi in grado di praticarlo, senza per questo essere giudicati negativamente.

Personale è politico

La questione di genere abbraccia sia un piano politico che un piano personale, e ci costringe a mettere in discussione questa scissione che è invece tipica del “discorso politico classico”.

Assumendo che la radicalità quotidiana è fondamentale per determinare un mutamento della realtà,  ci sembra chiaro che non possa esistere una scissione tra personale e politico. Ogni momento della nostra vita è una possibilità aperta per decostruire i rapporti di potere tra le persone, attraverso il modo in cui scegliamo di creare legami e di instaurare relazioni con gli altri.

Ciò che ci ha fatto entrare in contatto con una realtà di lotta contro lo stato di cose presenti  è che individuiamo nel sistema, in tutti i vari aspetti da cui lo affrontiamo, un impedimento alla nostra felicità.  Lottare contro lo Stato, il capitalismo e tutte le loro declinazioni è affrontare il problema da un punto di vista macroscopico, ma i condizionamenti che la società ci impone, le gerarchie che ci fa sembrare naturale riprodurre, gli stereotipi a cui dobbiamo rifarci, sono allo stesso modo limiti che ci sono imposti rispetto alla nostra realizzazione e al desiderio di essere felici.

E’ qui che ogni distinzione tra la nostra azione politica e la “vita privata” viene a cadere. L’unica differenza è che a un piano macroscopico possiamo far corrispondere strategie di opposizione organizzate, mentre per quanto riguarda la nostra vita quotidiana non c’è e non ci può essere una ricetta su come muoverci.

Ciascuno deve necessariamente porsi il problema di quali ruoli si trova a ricoprire, quali stereotipi riproduce, come e perché esercita o subisce potere. Ma un cambiamento in questo senso avviene solo quando questa riflessione viene collettivizzata e porta a scegliere di relazionarsi in modo diverso gli uni con gli altri, liberandosi da tutto questo.

La questione degli stereotipi femminile e maschile è quella che, al di là di tutto, tocca maggiormente la nostra “vita privata”; è proprio quest’ultima, dunque, a non poter più rimanere “privata” e a dover essere per forza messa in gioco. L’emancipazione non può che essere collettiva e mista, ma non può avere istruzioni per l’uso che vadano oltre la volontà di porre il problema, in quanto ciò equivarrebbe a fornire un modello sostitutivo, in contraddizione col nostro intento di liberazione dai limiti e dai modelli imposti.

In altre parole non c’è un giusto modo di essere donna o uomo, perché ciascuno ha da trovare il “giusto modo” di essere sé stesso. Non è facile, e gli ostacoli sono tantissimi. Se ad esempio guardiamo in faccia la realtà, ci rendiamo conto che nell’ambiente del movimento a Firenze non ci sono gay dichiarati (mentre lesbiche sì). Ci viene dunque da chiederci quanto possa essere difficile palesare un orientamento sessuale che di per sé mette in discussione il modello di virilità (e femminilità).

Il vaso di Pandora è stato aperto. Non è più possibile tornare indietro, nessuno può più essere disposto a soprassedere. D’ora in poi è tempo di metterci in gioco, di metterci in discussione. Tempo di non passare mai più sopra a nessun tipo di rapporto di potere, basato sul genere e non.

Posted in Fem/Activism, Iniziative, R-esistenze.