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#Rosaria sull’uomo che l’ha picchiata: “Non l’ho denunciato io!”

Da Abbatto i Muri:

Le cose non sono mai bianche o nere, anche se alla narrazione dominante che discute di violenza sulle donne piacerebbe tanto. Di fatto voler ignorare come funziona nei casi di violenza significa esercitarsi a produrre catarsi collettive, vendette e legittimazioni tutoriali ma non di certo a risolvere e prevenire la violenza che riguarda vittime, carnefici, chiunque resti nella rete di contatto di ciascuno.

Le cose non sono mai bianche o nere e Rosaria dice di non aver denunciato il suo convivente, quello che le avrebbe dato “solo” un calcio e che l’ha mandata all’ospedale. La sua intervista resta confinata tra le pagine locali perché quello che lei ha da dire ora non conta e non interessa. Non soddisfa il copione imposto che impone il panico morale e che esige una divisione netta tra vittime e carnefici e dunque punizioni esemplari ed eventuali legittimazioni a linciaggi reali o semplicemente virtuali per chi le ha fatto male.

La narrazione delle donne vittime di violenza sopravvissute alle botte non serve, infatti, perché osano riappropriarsi del diritto di parola e vanno in contrasto con tutto l’abc retorico dell’antiviolenza intriso di integralismi illogici e irragionevoli.

Rosaria, di cui avevo parlato esprimendo un tot di dubbi QUI, s’è svegliata e rilascia una intervista. Monica mi segnala che nella rassegna stampa di oggi, Corriere del Mezzogiorno, immagino cartaceo, è scritto che: “L’ex miss picchiata: farò il dna a mio figlio per togliere i dubbi. Ritira la denuncia al fidanzato.”

Se il titolo corrisponde a verità (l’accusa d’ufficio per lesioni o altro partita dall’ospedale non so se può ritirarla), lei ci tiene a fugare ogni dubbio circa la paternità del figlio. Dopodiché comunque si sottrae al percorso tutelare e delegittima chi ha affidato l’uomo alle “grinfie” istituzionali.

Nell’articolo online del Corriere, ben nascosto tra le pagine locali, perché se non c’è vendetta o non c’è una vittima dichiaratasi tale che si presta a legittimare tutta la cornice sovradeterminante e mediatica di Tutori e progetti di salvamento governativi per il bene delle donne non starà mai in prima pagina, così lei dichiara:

“«Però, mi raccomando, hanno scritto tante cose non vere».
«Sono confusa, ma non perché non so che cosa fare, sono confusa per tutto questo, per le cose che dicono, per quello che sta succedendo»

Le dicono che c’è una tv nazionale che la cerca, (…) non vuole essere ripresa così, «non mi va, poi chissà cosa mi chiedono, uffa». «Sono triste», le esce quasi di botto. Sta pensando a lui «mi dispiace per quello che sta passando». (…) «Io glielo dicevo che doveva cambiare, avevo anche pensato di andare assieme da uno psicologo, ma lui è testardo». Poi, aggiunge subito: «Ma Antonio è un bravo ragazzo, soprattutto con le altre persone. Chiunque lo conosce lo può dire: è un pezzo di pane. E’ che è geloso». (…) «No, non ci torno assieme. Non lo odio, no, provo rabbia. Però lo so che adesso è finita».

(…) Il pensiero va di nuovo a lui, che è il papà di suo figlio: «Si adorano lui e il padre, stanno sempre assieme», racconta, ed è quasi come se non si capacitasse di quello che è successo. (…) «Ma non l’ho denunciato io, però, furono dall’ospedale», chiarisce ricordando l’episodio di Pesaro, quando lei era lì per vincere il suo concorso di bellezza e lui la raggiunse geloso. Lo sguardo si fa di nuovo triste.
Perché non l’hai lasciato subito? Hai mai pensato di denunciarlo? Sono domande di fronte alle quali Rosaria sgrana gli occhi, come fossero pensieri inconcepibili: «Lui mi diceva che era colpa mia, io gli spiegavo che sbagliava. Ma comunque non immaginavo tutto questo, non lo so…». E tua mamma?
«Mamma mi diceva: se dovete stare così, è meglio che vi lasciate». E la famiglia di lui? «Stanno male, hanno telefonato a mia mamma, alcuni familiari sono anche venuti qua ma non li hanno fatti entrare. Pure a loro dispiace tanto quello che è successo». Ma adesso cosa consiglieresti ad una ragazza che subisce violenze dal proprio fidanzato? «Prima di tutto di lasciarlo. Poi, se proprio ci tiene tanto a lui, almeno di provare ad aiutarlo a cambiare, ma è difficile». (…) «Una volta ci siamo lasciati anche per sette mesi, ma poi mi mancava».
«Spero di tornare a casa per lunedì e festeggiare il suo compleanno (del figlio). Altrimenti festeggiamo appena torno. Poi – dice con un sorriso – vorrei andare a farmi un viaggio. E poi me ne voglio proprio andare da qua». In un paesino di provincia – (… ) è sempre difficile ricominciare, dimenticare. C’è sempre troppa gente che vuol dire la sua, che conosce un’altra verità, un’altra storia. «Ne ho sentite tante» (…) «Mi metto a lavorare»(…) «No, voglio lavorare, mi voglio solo prendere cura di mio figlio e basta».

Questa è la realtà con cui ci si deve misurare quando ci si occupa di violenza. Se si nega che questo possa avvenire allora bisogna dedicarsi ad altro. Qualunque religione può andare bene. Ma la violenza non è un dogma, è una faccenda di relazione, di umani, tra persone, ed è una questione complessissima che va trattata con consapevolezza e senza il timore di raccontare verità scomode.

Il percorso di questa ragazza non finisce qui. E’ appena all’inizio. Se questa ragazza tornerà con lui? Chi può impedirglielo? Chi può convincerla che lui non sia una persona che in qualche modo l’abbia amata? Chi può convincerla a odiarlo e descriverlo come un mostro? Chi? Ed è equilibrato descrivere una persona che ti ha fatto male come un mostro o non è più equilibrato andare avanti con la consapevolezza che così non va ma che non resta odio, né rancore, né livore, ché le ferite sono troppo complicate da risolversi dividendo tutto in bianco e nero?

Con questo abbiamo a che fare. Io ne so molto. Ho provato a raccontarlo. E non si può pretendere di fare il lavaggio del cervello a tutte le donne imponendo loro diversi livelli di percezione della violenza perché si entra in un terreno scivoloso in cui tu hai da sentirti in colpa se non ti senti violata allo stesso modo in cui si sente violata quell’altra. E se nel tentare di modificare i livelli di percezione della violenza si assume che le donne stesse, vittime, non siano veicoli della stessa cultura, volendo loro fare intendere a tutti i costi che il nemico sia quell’altro, si sta dicendo una enorme bugia che dalle stesse vittime di violenza viene percepita in quanto tale. Quel che raccontate, infatti, non corrisponde al suo sentire, questo è il punto.

Le vittime di violenza non le puoi addestrare con una narrazione sempre uguale, omogenea, che ti fa sentire idiota se pensi cose un po’ diverse. Non puoi irregimentare percorsi in cui ciascuna deve poter autodeterminare un percorso soggettivo per uscire dalla violenza senza che nessun@ mai imponga nulla. Tralasciando questo caso che mi pare esemplare a dimostrare come di una cultura di quel tipo siano veicoli tutti i protagonisti della vicenda, con tutta la solidarietà possibile per lei, per il suo dolore e la sua sofferenza, quando è successo che chi si occupa di violenza dall’essere gruppi di donne e persone disponibili sui territori per qualunque richiesta di aiuto, che deve venire da chi ne ha bisogno senza forzature, è diventat@ rieducatore del sentire delle donne? Quando è successo che si è passati ad imporre una morale per cui ogni donna, a prescindere da quello che le piace o no, viene costretta a percepire come violenza perfino quello che le piace? Quando è successo che l’antiviolenza ha deciso di patologizzare il porno, l’affettività e sessualità bdsm, ripetendo sempre il mantra “in fondo sono sempre schiave, non sono libere di decidere“? Quando è successo che ogni rivendicazione di autodeterminazione è diventata sinonimo di maschilismo? Quando, maledizione, quando? Quando è successo che l’antiviolenza sia stata consegnata a piene mani a paternalismi e patriarcati culturali?

Dopodiché spero che nessuno osi ammazzare questa donna in senso mediatico, che nessuno voglia crocifiggerla patologizzando le sue affermazioni, chiamandola matta o chissà cosa. Spero che si guardi a questa donna, con le sue incertezze e le sue fragilità, con la cultura di cui è intrisa e che veicola, con quella in mezzo alla quale è cresciuta, che spero stia bene e sopravviva. Che stia bene e sopravviva, scegliendo la sua strada, senza pressioni, senza forzature, senza che nessuno decida al posto suo ciò che è bene per lei. Perché nostro è il destino e nostra è la vita e il corpo e che vi piaccia o no nessuno può appropriarsene, neppure “per il nostro bene“. Neppure per “salvarci“.

E se questo non vi sta bene avete una concezione fascista, autoritaria, della difesa dei diritti delle donne, tutte le donne, a prescindere dal fatto che decidano ciò che voi vorreste oppure no.

Bisogna trovare il modo di prevenire, di agire la cultura, di offrire strumenti e opportunità. Opzioni e non istituzionalizzazione forzata, non Tso di riparo per violentate d’occasione. Non psichiatrizzazione concettuale o reale. Non Tutori che si permettono di violare la tua autonomia, ché nessun@ può impedirci di farci bene o male. Altrimenti prendete le donne, tutte, e rinchiudetele in galera, una bella prigione dorata, dopodiché non sorprendetevi se le donne vi manderanno a quel paese.

Rosaria, tutte voi, se avete titubanze, incertezze, io so come vi sentite, lo so per certo. Non siete sbagliate né malate. Con tutto l’affetto spero siate furbe e che impariate a salvarvi la vita. So che da una quasi morte arriva la forza di ricominciare, so anche che quello che vi serve è che qualcuna vi dica che non siete giudicate. Io non vi giudico. Se avete bisogno di qualcun@ ci sono riferimenti territoriali che spero non si saranno già presentati alla vostra porta come tanti antiviolenti simil movimenti pro-life lasciandovi intendere che se voi interpretate bene il ruolo delle martiri potrà venirvene qualche vantaggio sociale/mediatico. Però esistono, tenetelo in considerazione. Esigete che loro lavorino per la vostra sopravvivenza e non viceversa. Prendete i numeri utili, gli indirizzi, informatevi sulle leggi che vi riguardano, usate tutte le risorse disponibili se vi servono e poi vivete. Coraggio. Un abbraccio. Forte.

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Posted in AntiAutoritarismi, Comunicazione, Critica femminista.

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One Response

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  1. Silvia says

    Sicuramente il diritto di ognuna/o di fare le proprie scelte, per quanto estreme possano sembrare alla maggioranza, è un diritto sacrosanto. Quello che mi lascia un po’ perplessa di questo post, è parlare di scelta autodeterminata. Frasi (di lei) che dicono che lui non voleva farlo o che lo ha fatto perché era molto geloso non mi sembrano frutto di autodeterminazione ma, piuttosto, della stessa mentalità che colpevolizza la vittima e che fa sì che i giornalisti parlino di “raptus di follia” “era pazzo di lei e quindi l’ha uccisa”, eccetera eccetera. Io non vedo differenza tra la descrizione di lei e quella dei media. Però forse ho una concezione differente della parola autodeterminazione.