Skip to content


#Antiviolenza e la retorica del dolore

Ci sono pezzi di questo articolo che argomenterei in modo tanto diverso ma trovo questa parte assolutamente condivisibile. Angela Azzaro, Gli Altri.

Le donne vittime di violenza – dice – diventano due volte vittime. Delle persone che hanno esercitato quella violenza e del discorso pubblico.

“E’ il punto decisivo. Perché da come se ne parla, da come si costruisce un altro immaginario dipende la possibilità di sconfiggere questo problema drammatico. Oggi prevale la retorica del dolore. La donna vittima, l’elenco delle sfighe.”

Poi dice, invece che parlare eternamente delle donne vittime sarebbe il caso di farne emergere la forza, di queste azioni, le azioni attive.

“Si poteva cioè ribaltare l’ordine del discorso, invece di mostrare la questione dal lato, se vogliamo, più scontato. Questo è infatti il punto. Perché alla forza si preferisce il dolore? (…) Le ragioni sono diverse. Una è il frutto della cultura del “dolorificio”: una classe politica attenta ma incapace di affrontare del tutto la crisi ha trovato l’escamotage di mettersi in questo modo in relazione sentimentale con il popolo. Solo nominando le sventure che attanagliano la vita delle persone alcuni politici ritengono di non essere indifferenti, di non stare solo a guardare. Così avviene per le donne vittime di violenza. Ma in questo caso c’è anche un altro sentimento che viene da lontano. Anche quando si crede nei diritti delle donne, quando si vuole affermare la loro libertà e soggettività, è molto più facile partire dal loro essere “deboli”. E’ una cultura che appunto radici antiche e che ci ritroviamo davanti ogni volta che si legifera, che si discute, che si scrive un romanzo o si fa un film. Pensate alla legge. Molto spesso le proposte che ci riguardano trattano le donne non come soggetti di diritto, ma come soggetti da tutelare. Non come persone a tutto tondo, ma come persone da proteggere. Anche quando le intenzioni sono buone, il risultato rischia di essere l’opposto. Il rischio è cioè quello che l’immagine pubblica delle donne venga indebolita. Il femminicidio, parola che secondo me racchiude questa doppia pericolosa valenza perché punta sulle “vittime” e non sulla denuncia del problema, è diventato terreno privilegiato su cui esercitare questa retorica del dolore. (…) Ma indulgendo nel dolore si ottiene come un allontanamento, come una messa tra parentesi della contraddizione uomo-donna: la sofferenza isola chi subisce la violenza, la rende unica, dimenticando come il cambiamento della essere fatto da tutti. Il dolore si confà alle donne. E’ l’immagine della Madonna, della madre, di colei che accudisce. Ma non avevamo detto che era un’icona da cambiare, un ruolo da criticare? Oggi le immagini e i ruoli sono tanti, e ancora di più ne dovremmo costruire per il futuro. Senza compiacerci di assurgere a dee del sacrificio, a sante che si immolano. Anche perché dietro il dolorificio che ci riguarda ci sono in gioco libertà e diritti.”

Lei poi prosegue e parla di retorica del dolore e di un sospetto, che serva in realtà a trattare il problema in altre forme o a non trattarlo e basta.

Io aggiungo che la violenza sulle donne è diventata un’arma di distrazione di massa. Non puoi più dire o fare nulla che già brandiscono un cadavere. Nessuna critica può essere fatta, e viene recepita con lo stesso integralismo con cui recepirebbero le critiche i soggetti che perseguono la pedofilia, ancora di più oggi che in certi casi le due battaglie coincidono e che donne di destra, estrema destra, e talune femministe, di sinistra, sono riunite in una crociata santa che realizza sempre e solo conclusioni e proposte autoritarie.

E’ la fine della ragione. E’ un ritorno nel passato enorme e chi denuncia questa cosa, tra noi, viene scomunicat@. Aggiungo che la violenza sulle donne è tema che identifica un sentire unico tra donne e massacra le differenze di identità politica e di classe, indi per cui dovrei compiacermi per il fatto che una Fornero firma una convenzione che parla di donne e violenza e poi dovrei tacere, in quanto lei è donna, se mi spedisce a casa da precaria e disoccupata rendendomi inevitabilmente dipendente da ogni genere di patriarca così legittimato a detenere il comando dal punto di vista economico.

La maniera in cui viene trattato questo tema produce tante di quelle storture sociali, giuridiche, culturali, che se non ci rendiamo conto subito di quello che stiamo facendo tante tra noi assisteranno a roghi e cacce alle streghe, noi impotenti, in nostro nome. In nome della lotta contro la violenza sulle donne. Perché dopo l’esibizione pornografica del dolore, dopo che hanno fatto di me vittima di violenza un brand, un fenomeno da baraccone utile ad intrattenere e distrarre le masse, poi serve la catarsi, un premio, io tutelata da un tutore spavaldo che moralizza la mia esistenza e detta a me le norme di comportamento, dice a me come io devo comportarmi ed essere da vittima, e poi mi offre la testa di un carnefice, uno qualunque, rendendomi incapace di provvedere con le mie soluzioni.

Non è soltanto un fatto di superficie quello di cui parla la Azzaro e di cui parlo io. E’ una priorità pensarci perché personalmente sento che mi stanno scippando le motivazioni di esistenza da sotto al culo. E questa cosa non va bene. Io sono forte, sono capace, non sono martire, non sono vittima vittimizzabile. E sono autodeterminata e dunque autodetermino le mie lotte e queste nelle quali vogliono incastrarmi sono orrende. Orrende e basta. Rendetevene conto.

Posted in AntiAutoritarismi, Comunicazione, Critica femminista, Pensatoio.

Tagged with , , , , , , , , , .