Da Abbatto i Muri:
Femminicidio. E’ la #17esima vittima dall’inizio dell’anno. Avevano una relazione. E’ finita. Lui la amava “troppo”. La perseguitava. Lei lo ha denunciato per stalking. Lui l’ha uccisa e poi si è suicidato. Questo è ciò che la stampa racconta tra mille altri dettagli che fanno tanto pornografia sentimentale.
Ci sono le foto di lei, immancabili, perché era una ragazza giovane e carina, dal sorriso pulito, come Vanessa, come Stefania, come altre i cui volti ben si prestano ad una campagna che possa essere utile a chiedere aggravanti e ulteriori soluzioni autoritarie.
Il Femminicidio, giusto per dire, non è l’uccisione delle femmine. Per capire cosa significa bisogna indagare sui ruoli di genere, quelli cui sei chiamata ad aderire. Dato che sei donna puoi essere, fare, solo questo o quello. Nulla di più. Così impone la cultura patriarcale.
Tu appartieni. Non puoi dire di no. A rafforzare il mito del possesso ci sono tante canzoni che parlano di “bisogno”, tante parole che educano a ritenere che lo stalking sia solo corteggiamento. Eppure sarebbe semplice da capire. Un NO vuol dire semplicemente NO.
Per questioni “d’onore” e per vendetta di genere sono morti quest’anno, fino ad ora, anche #6 uomini e #1 bambina. Quest’ultima uccisa dalla madre che non accettava la separazione. E sono due le donne che hanno ucciso un convivente e una partner per ragioni che restano nella modalità di gestione del rapporto o della sua fine. #21 sono gli uomini che hanno ucciso nelle stesse circostanze.
Anche per quest’ultimo delitto la stampa non accetta di pronunciare le parole scelte, legittimamente, dalle donne, per rinominare un fatto, un accadimento, che riguarda i delitti che hanno a che fare con le questioni di genere. Parlano di tragedia, cose imprevedibili, il fato, quasi che la ragazza non avesse neppure denunciato lo stalking. Accompagnano la descrizione dell’evento con il racconto sul dramma di costui, innamoratissimo, quarantenne che stava con una ventenne che, forse, esprimeva l’amore con una immancabile dose di cuoricini. Lui aveva comprato una pagina intera di giornale per stamparci un grandissimo cuore e lei lo ha denunciato. Nel frattempo s’era preso il porto d’armi e un’arma ad un assassino dalle nostre parti non si fa mancare mai.
Tra le tante discussioni che si faranno su questo delitto, le tante foto della ragazza che ruberanno dal suo profilo facebook, c’è da considerare, ancora una volta, come se non bastasse, che a fronte di questi delitti, che seguono la stessa, identica, modalità, non servono aggravanti ché andrebbero a colpire una maggioranza di soggetti che dopo aver commesso il delitto si suicidano. L’aggravante destinato ai cadaveri non è perciò un deterrente in ogni caso.
D’altro canto, e se ne è già parlato molto, non serve neppure la legge sullo stalking perché se è servita a rovesciare culturalmente il senso dell’assillo, l’attenzione morbosa e ossessiva, che può esserti destinata mascherata da troppo amore, più in concreto, però, serve solo a fare arrabbiare di più i persecutori.
Il richiamo in caserma o, come è avvenuto altre volte, la galera per qualche mese, non servono a nulla perché la persona denunciata, quella che già è intenzionata ad ammazzare, non capisce, è straconvinta di fare la cosa giusta, esige una spiegazione, pretende egoisticamente che l’altra persona si pieghi ai suoi desideri, la prevarica nella sua volontà, possiede e dunque dispone della sua vita, perciò, anzi, la denuncia per stalking, tra l’altro spesso trascurata, finisce per istigare ulteriori delitti.
Se si trovasse un altro modo per disinnescare, se si puntasse sulla prevenzione, se si facesse cultura invece che parlare di repressione, dopo, quando c’è già un cadavere all’obitorio, si potrebbero salvare delle vite.
I deterrenti, a mio modo di vedere, sono semplici da usare. Lo so per esperienza.
La persona che fa stalking va consegnata ad una sua rete sociale. La sua famiglia, i suoi amici, ché vanno tutti responsabilizzati circa il futuro che lo attende. Servirebbe assistenza psicologica e non il richiamino del maresciallo, perché sono persone alle quali bisogna dare prospettive giacché ritengono che la loro vita non conti più niente. Non hanno più nulla da perdere. E la prospettiva del carcere non fa che alimentare questo senso di claustrofobia nel quale inevitabilmente sarà trascinat@ anche chi è ritenut@ responsabile di quel destino. Perché se nelle soluzioni tu non tieni conto del fatto che per quest’uomo è lei la responsabile di tutto, non capisci che più “punizioni” gli infliggi e più si convince che quello che gli capita è solo colpa sua, di lei, di quella che nella sua testa lo vuole rovinare e gli vuole togliere tutto, a partire da se stessa.
Uomini così vanno compensati dell’analfabetismo affettivo e bisogna inserirli in un ciclo di terapie sociali che possono essergli proposte, in cui la prospettiva smette di essere “o lei o morte”. Così come al posto del carcere, che non serve a niente, io penserei a strutture aperte in cui queste persone possano essere ascoltate, aiutate, si può dargli modo di guardare ad altre prospettive.
Dall’altro lato bisogna proteggere lei (o lui se è lei la stalker) e la “protezione” non è fatta di bodyguard e leggi repressive ma di reti sociali, appunto, di responsabilità collettiva, di attenzione culturale, prevenzione, di educazione sentimentale, di rispetto reciproco. Bisogna occuparsi anche di lei, aiutarla a non farsi affascinare da persone di quel genere, raccontarle un’altra vita, un’altra prospettiva, diseducarla all’amore dipendente, alle relazioni adolescenziali, al pornosentimentalismo da due soldi. Bisogna diseducarla alla repressione sistematica che su di lei, come su qualunque persona, viene esercitata quando si nega a lei il diritto all’autodeterminazione, all’autonomia, al diritto di scegliere che vita fare, chi amare, come gestire la propria sessualità, il proprio corpo, tutto di se’. Perché non puoi da un lato dirle che quello che gli fa il singolo uomo è sbagliato se poi quando rivendica diritti la malmeni in piazza. Perché non puoi pretendere che il suo ruolo sociale sia di “vittima” che ben si presta a legittimare ministre socialmente irresponsabili e tutori ma non le serve per difendersi da chiunque, inclusi i suoi stessi presunti difensori. Perché non puoi, anche tu, insistere sul concetto di natura Vs cultura, che è quello che stabilisce che l’uomo è forte e la donna al più è madre e fragile, senza considerare le fragilità di ciascun@, senza considerare che sono quei mille stereotipi che determinano differenze sociali e ruoli che vanno rimessi in discussione.
Restituire la vita a chi sta per perderla non è mai semplice. Non è neppure una scelta comoda, ma è l’unica che salva la vita a lei e la salva pure a lui.
Infine, un promemoria: La persona che tu ami non è un oggetto. Ha una sua volontà. Una relazione senza consensualità, che non rispetta l’autodeterminazione altrui, non è una relazione. E’ una violenza. E la verità, in effetti, sta proprio tutta qui.
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