Da La Bottega di Hamlin volevo segnalarvi una recensione/intervista all’autrice del libro “Lo schermo del potere”, Giovanna Zapperi, scritto con Alessandra Gribaldo, edito Ombre Corte, molto bello, che tra l’altro ho letto senza avere il tempo di parlarne. Leggete tutta l’intervista, bella, lunga e interessante QUI. Io traggo solo alcuni spunti che mi sembrano essenziali, ma senza voler dire che il resto non lo sia. Metto a fuoco cose che mi sono più affini, ecco.
“Che la parola femminismo sia stata espulsa dal dibattito pubblico mi pare un fatto. Questo salta particolarmente agli occhi se osserviamo come le iniziative che più ricevono attenzione mediatica (a partire da “Se non ora quando”, fino alle recenti campagne contro la violenza sulle donne) si pongano in modo ambivalente rispetto al femminismo, presentandosi come movimenti di donne più che come iniziative femministe. Portare avanti un discorso femminista significa inevitabilmente posizionarsi in modo conflittuale, e il conflitto fa paura. Come abbiamo scritto nel libro, il problema sta anche nel fatto che il femminismo viene spesso additato come qualcosa di fondamentalmente inattuale rispetto ad una visione spoliticizzata dei rapporti tra i sessi, visti come finalmente liberati da “innaturali” ideologie. Qui il nodo è quello di una vulgata che reinterpreta la libertà sessuale in chiave liberista, allineandola con quella grande narrazione contemporanea che identifica la libertà con il libero mercato. In questo senso il capitalismo ha captato alcune delle istanze centrali del femminismo degli anni settanta mettendole letteralmente al lavoro: questo aspetto è emerso in modo particolarmente evidente dagli scandali sessuali degli ultimi anni del governo Berlusconi. Di fronte a questa narrazione, ogni intervento della generazione protagonista delle lotte femministe viene percepito come un appello a regole desuete, moralistiche eccetera. Tutto ciò è paradossale perché sono stati proprio i movimenti femministi a mettere al centro le questioni della sessualità, del desiderio e dei rapporti di potere: è un’operazione questa che ha l’effetto di neutralizzare le istanze più radicali del femminismo riconducendole ad una cornice rassicurante, quella della libertà di disporre del proprio corpo all’interno di un mercato.”
“la questione dell’autorappresentazione, per le donne, (è) sempre una questione politica, nel senso che la necessità di porsi come soggetto attivo della propria immagine è, storicamente, un elemento nodale delle strategie femministe. Il problema che si pone è quello del rapporto tra l’autorappresentazione e quel complesso groviglio che possiamo riassumere con la formula “donna come immagine”: la femminilità non è un’essenza o un fatto naturale, ma piuttosto una condizione che si definisce proprio attraverso le sue rappresentazioni. Il punto, però, è che rappresentare se stesse è qualcosa di complesso, perché ci si deve inevitabilmente confrontare con un repertorio di immagini già esistente: l’autorappresentazione femminile non potrà mai essere estranea agli immaginari già esistenti, proprio perché ciò che chiamiamo “donna” non può darsi al di fuori dell’apparato di potere in cui le immagini giocano un ruolo così ingombrante. Come hanno scritto diverse teoriche femministe, soltanto una volta rigettata la nozione della donna come categoria indifferenziata, l’autorappresentazione può funzionare come uno straordinario processo di soggettivazione e di decostruzione dello stereotipo.”
“Mi sembra che ci sia una differenza fondamentale tra le manifestazioni indiane di dicembre e l’evento del “One Billion Rising”. Quello che è successo in India è stato una riposta straordinaria ad un evento (ahimé) del tutto ordinario. La folla che ha invaso New Delhi per protestare contro l’ennesimo stupro è stata accolta dall’indifferenza, se non dall’aperta ostilità da parte dei governanti, e le manifestazioni sono state represse dalla polizia. Questo dice molto su quanto quel tipo di richiesta sia percepito come una minaccia rispetto all’ordine sociale. Mi sembra che non sia ancora chiaro se quel movimento avrà un qualche impatto sulla società indiana: spero che questo non si esaurisca nell’ottenimento di pene più severe per gli stupratori, ma che faccia parte di un processo di trasformazione più strutturale. Al contrario di ciò che è successo in India, “One Billion Rising” è un evento preparato negli anni, orchestrato da una fondazione con sede negli Stati Uniti, il cui successo deve molto all’emozione suscitata delle manifestazioni indiane. Tuttavia questo tipo d’iniziative mi lasciano perplesse per molti motivi, a partire dai rapporti nord-sud che presuppongono, fino alle modalità specifiche di rappresentazione che fanno leva su un immaginario che addomestica l’agire collettivo all’interno di comportamenti standardizzati. Detto questo, certamente all’interno di questi eventi si possano giocare dei processi di apertura e presa di coscienza. Una discussione con alcune donne che hanno partecipato attivamente all’evento, e che contestavano il mio punto di vista, mi ha reso chiaro che le cose sono più ambivalenti di quanto sembrino da fuori e che è sempre possibile aprire una breccia dentro un dispositivo che appare così totalizzante. Più in generale, la mia posizione rispetto a molte delle campagne condotte contro la violenza sulle donne ricalca le critiche mosse da alcuni soggetti femministi come il Laboratorio Sguardi sui Generis o il collettivo di Femminismo a Sud, che hanno sottolineato come queste campagne si focalizzino sulla costituzione di un soggetto-donna vittima, mentre ciò che appare invisibile sono le modalità relazionali che sottendono la violenza e soprattutto l’identità dei violenti, chiamati in causa soltanto in termini di devianza o di sottrazione. Mi pare che ciò che manchi sia una decostruzione della maschilità e della violenza come elemento strutturante dei rapporti tra i sessi.”
“A me sembra in realtà che in Italia ci sia una nuova generazione di femministe che si pone all’interno di un dibattito internazionale e che sta portando avanti un rinnovamento molto importante dentro al femminismo italiano. Poi c’è un problema più generale, che è legato al precariato all’interno dell’università, che rende queste posizioni strutturalmente più deboli. Sicuramente ha giocato un ruolo importante in quella che tu descrivi come una carenza il rifiuto di una parte consistente del femminismo italiano di creare dei centri universitari in cui le tematiche femministe potessero trovare uno spazio istituzionale. Mi riferisco alle studiose vicine al “pensiero della differenza”, la corrente egemone nel femminismo italiano negli Ottanta e Novanta. Se consideriamo che molte di queste donne sono esse stesse docenti universitarie e hanno una produzione che si colloca nella cornice accademica, mi sembra che il loro rifiuto dell’istituzione contenga elementi di forte ambivalenza. Senz’altro l’istituzione di dipartimenti universitari di studi femministi o di “women’s studies” pone il problema del confinamento delle istanze femministe dentro un ambito disciplinare, mentre io ad esempio sono convinta che il femminismo sia qualcosa di fondamentalmente trasversale, una chiave di lettura che attraversa le varie discipline. D’altra parte, però, è innegabile che la produzione femminista più interessante e articolata degli ultimi decenni si è avuta nel mondo anglosassone, perché lì si è creato un dibattito più aperto e transnazionale. Ecco, mi sembra che il rifiuto di porsi all’interno di un dibattito internazionale abbia rappresentato un forte limite per il femminismo italiano, che si è chiuso dentro alla sua specificità con il rischio di risultare provinciale.”
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