Femminile Plurale inaugura questa nuova pagina, Archeologia del patriarcato, con l’intento di fornire contributi e ricerche relativi alle donne nella storia. Ciò è motivato da due presupposti che si sono rivelati imprescindibili per noi e per il nostro impegno/agire politico: in primo luogo la consapevolezza/intuizione che nella maggior parte dei casi il consolidamento stesso delle strutture patriarcali le ha rese tanto nascoste da aver reso difficile e tortuosa la loro individuazione, se non a fronte di un’attenta analisi storiografica e di un puntuale approfondimento filosofico.
Da qui deriva anche la scelta dei titolo della pagina.
Il secondo presupposto deriva dagli avvenimenti e dagli eventi a cui abbiamo partecipato nell’ultimo periodo, che ci hanno convinte della necessità che il femminismo tragga la sua forza anche dalla storia e dalla memoria di pratiche e linguaggi condivisi e storia di avvenimenti, eventi e donne dimenticati. Il desiderio è di costituire in primis una storia/memoria di donne attraverso la riscoperta delle donne nella storia, al fine colmare il vuoto, non solo storiografico, che la storia degli uomini ci ha lasciato. Il lavoro di scavo e approfondimento lungo queste tracce ci restituisce il senso del nostro agire e del nostro essere ed è una parte che riteniamo indispensabile per la costruzione e per il raggiungimento della nostra libertà, nella misura in cui essa è fondata non solo su una presa di coscienza personale e individuale ma anche sulla conoscenza complessiva di storie, persone, momenti.
Siamo consapevoli che la nostra forza intellettuale e politica non possa che venire arricchita dalla riconsiderazione del nostro passato “femminista”. Non vogliamo cominciare da capo, non cerchiamo nuovi inizi, ma vogliamo procedere a partire anche da una memoria condivisa che ci dia strumenti, idee ed esperienze per costruire il futuro.
Archeologia del patriarcato – Capitolo 2
Per una critica femminista alla legge sul divorzio
E così, sempre a Paestum, ci hanno detto che, come l’aborto, neppure il divorzio è ascrivibile alle vittorie del femminismo. «Furono i socialisti a volere la legge! Queste cose non potete non saperle!» ci ammoniscono, giustamente, le stesse donne .
E infatti, se invece di googlare“divorzio/vittoria femminismo”, cerchiamo “divorzio/socialisti”, incappiamo subito nel nome del deputato socialista Loris Fortuna, che ha sostenuto e vinto la battaglia conclusasi con la cosiddetta legge Fortuna-Basili sulla “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”, che verrà approvata nel dicembre del 1970 (n.898 del 1970).
Per chi volesse approfondire la Figura di Fortuna alleghiamo degli appunti [1] scaricabili dal sito dei Radicali sulla battaglia dei socialisti italiani in favore del divorzio, combattuta per l’appunto a fianco dei radicali della Lid (Lega italiana per il divorzio).
Di femminismo negli anni della legge sul divorzio prima e sull’aborto poi, ne abbiamo parlato per ore con Maria Luisa Gizzio della Casa internazionale delle donne di Roma, strette nella sua Micro che ci riportava verso la Capitale. Anche da lei abbiamo avuto solo conferme rispetto alle nostre lacune, scoperchiate dalla plenaria di Paestum. «La fa-mi-glia è un re-ato l’ha inven-ta-ta il pa-triar-ca-to» scandisce Luisa: «Ė questo, è questo che andavamo gridando in quegli anni, capite?». Chiedere una legge per poter divorziare insomma, sarebbe equivalso a riconoscere la famiglia come istituzione, invece che come reato.
Sempre su questo tema, dal sito “Femminismo: gli anni ruggenti” è scaricabile un documento molto interessante “Alcune note sul divorzio – Esposizione delle ragioni per dire SÌ al divorzio da parte delle donne”, che alleghiamo [2] per chi avesse voglia di leggerlo. Si tratta di un documento redatto dal gruppo di Lotta Femminista di Padova nel 1974 dove si elencano, punto per punto, le motivazioni per votare no al referendum abrogativo che quell’anno chiedeva ai cittadini e alle cittadine italiane se avessero voluto abrogare o meno la legge n. 898 del 1970.
Un piccolo inciso: il Centro Progetti Donna, nel saggio “I partiti e il movimento femminista”, collega la genesi di quel referendum alla logica del compromesso fra i partiti, sottesa all’approvazione della legge sul divorzio di quattro anni prima: nel 1970 infatti, solo dopo che la sinistra aveva votato per l’approvazione della legge sull’attuazione dei “referendum” costituzionali (n. 352/1970), la Dc aveva sostenuto l’approvazione della n.898: «…il referendum – si legge nel saggio – è stato la contropartita data alla Dc perché sul divorzio non si determinasse in Parlamento tra le forze politiche una rottura».
Interesni Kazki
Abbiamo voluto fare questo inciso perché nelle note delle femministe padovane l’imposizione del referendum viene definita esattamente una «prova di forza della Dc» sia sotto un profilo più generale (nel suo tentativo di porsi come «partito di stato» in grado di fare gli interessi del «patronato italiano e internazionale che conta»), sia sotto un profilo più particolare come partito votato alla restaurazione e al rafforzamento della struttura familiare (la lotta femminista in questo caso si scaglia contro la volontà di “murare” le donne nelle case, attraverso la negata autonomia economica, disincentivata dalla mancanza dei servizi, dall’offerta dell’occupazione part-time e dalla gratuità del lavoro casalingo come fatto comunemente accettato). Il NO all’abrogazione della legge sul divorzio assume quindi il significato di una ribellione a questo stato di cose.
Nella seconda parte inoltre – la più interessante nell’ottica del post che stiamo scrivendo -, il documento di Lotta femminista, dà spazio a una «critica femminista alla legge sul divorzio» per la quale «è necessario partire dalla condizioni materiali di sfruttamento della donna, per capire se e fino a che punto il divorzio incida su di essa». Per le donne, si denuncia, una volta ottenuto il divorzio, l’unica prospettiva economica è dipendere dagli alimenti (incerti) dell’ex marito. Per la donna rimasta sola con i figli e che spesso fa i conti con una minor disponibilità di denaro rispetto al passato, la vita diventa molto più faticosa, in una casa che la “inghiotte” sempre più, giorno dopo giorno, togliendole quei pochi svaghi che almeno prima aveva. Il tutto in un contesto sociale di emarginazione e isolamento. Anche nel caso in cui gli alimenti dovessero arrivare puntuali – affermano però le femministe -, altro non sarebbero che il perpetuarsi della dipendenza della donna dall’uomo, dipendenza ancor più grave nella misura in cui continua anche fuori dal matrimonio e si realizza nei confronti di un uomo col quale si è deciso di recidere i legami.
Abbiamo citato queste parole scritte quasi cinque anni dopo l’approvazione della legge sull’aborto perché, nonostante siano contenute in un documento che sostiene l’importanza di un tale provvedimento di fronte al rischio di una sua abrogazione, ci restituiscono degli importanti spunti di riflessione circa le critiche femministe alla legge sul divorzio, delle quali non eravamo consapevoli a sufficienza, come giustamente ci è stato fatto notare a Paestum.
Archeologia del patriarcato – Capitolo 1
La 194 vittoria del femminismo: un falso storico
Espresso 3 (XXI) 19 gennaio 1975
Vogliamo inaugurare questa nuova pagina con un post ispirato da una scena che ci ha colpito molto durante la plenaria conclusiva di Paestum, domenica mattina. A dire il vero, è successo tutto in maniera per noi inaspettata e quindi senza che fossimo perfettamente presenti alle dinamiche in atto. Ma anche al prezzo di sacrificare la puntualità nel riportare citazioni, nomi e fatti, abbiamo comunque scelto di scriverne per cogliere e riferire un esplicito invito che ci è stato rivolto nella concitazione di quei momenti da alcune “femministe della vecchia guardia”: quello di approfondire maggiormente la storia del femminismo e di conoscerne in maniera precisa le tappe giuridiche fondamentali.
Allora, la scena è stata la seguente. È più o meno metà mattinata e la donna che in quel momento ha in mano il microfono sta sottolineando l’urgenza con la quale una parte di giovani femministe (a partire da noi di Femminile Plurale) ha chiesto all’intero movimento di farsi carico della situazione del precariato, come fattore determinante e vincolante nella vita di molte di noi. A un certo punto, la donna si rivolge “alle storiche” chiedendo che abbraccino l’istanza delle precarie, nel nome delle rivoluzioni portate avanti: «Voi che avete combattuto e vinto le battaglie in favore della 194 e del divorzio, portate avanti anche la battaglia contro il precariato come vi chiedono queste giovani donne».
È a questo punto che una delle donne seduta a metà platea dà letteralmente in escandescenza, gridando che è ora di finirla di dire sciocchezza e che non sono certo state le femministe a volere né la legge sull’aborto né quella sul divorzio. La donna si alza dal suo posto letteralmente furibonda raccogliendo le sue cose, con la chiara intenzione di abbandonare l’assemblea. A nulla valgono i tentativi delle sue compagne di calmarla e di far sì che rimanga.
Incuriosite usciamo anche noi dalla sala per cercare di capire cosa abbia potuto innescare un tale scatto d’ira. Lei se n’è già andata, come una furia, allora chiediamo lumi ad alcune compagne con le quali siamo riuscite a vederla assieme, prima che lasciasse l’incontro.
«Il fatto è» ci spiegano «che certo non sono state le femministe a battersi per la 194. Noi chiedevamo semplicemente una legge sulla depenalizzazione del reato».
Ma come?!, ci domandiamo noi, cresciute nel mito della lotta per l’aborto come la trincea di prima linea del movimento. D’altronde basta googlare “legge aborto/vittoria femminismo” per generare pagine e pagine di risultati. Nel portale Novecento Italiano ad esempio, pure riconoscendo che «…per molte femministe la fredda sanzione legislativa di un’esperienza individuale di dolore non poteva costituire un momento di “liberazione” per le donne», si definisce l’approvazione della 194 come una «vittoria del femminismo», dopo aver affermato che «La lotta per l’aborto venne fatta propria dall’UDI e dalla gran parte dei gruppi femministi». Anche Il Salvagente, in un articolo del 2010 scritto proprio in occasione del trentatreesimo compleanno della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, la definisce una «legge-conquista del movimento femminista».
A Paestum invece impariamo un’altra verità:lottare per il provvedimento sarebbe equivalso a chiedere che lo Stato legiferasse sul corpo delle donne. Lo spiega con estrema chiarezza in un articolo su Liberazione, pubblicato il 21 maggio 2008, la giornalista femminista Angela Azzaro, affermando – come abbiamo sentito a Paestum – che la maggior parte delle donne femministe si batteva non per una legge ma per la depenalizzazione.
«…una legge avrebbe significato che lo Stato metteva bocca sul corpo delle donne. Così è stato, anche perché alcuni degli articoli del testo aprono di fatto all’obiezione di coscienza da una parte e dall’altra alle varie interpretazioni su quanto e come inizia la vita».
In questo pezzo Azzaro spiega come anche chi difende la legge non abbia compreso la cosa più importante, ossia che occorre «mettere in discussione se stessi (sessualità, relazione) e la propria cultura politica». È necessario, secondo lei, un nuovo terreno di dibattito che sia scevro dal dogma che definisce “vita” anche ciò che prescinde dalle relazioni. Questo dogma starebbe infatti alla base dell’intima convinzione, condivisa anche da numerose donne che si battono per la 194, che l’aborto in fin dei conti sia un omicidio, per quanto necessario: «Ristabilire oggi che cosa è vita e che cosa non lo è – scrive Azzaro – ristabilire il confine fra lo Stato e la libertà di scelta, significa capire quanto nella politica contino non solo le questioni astratte, ma i corpi, le storie, le relazioni».
Sempre nel 2008 anche Lea Melandri nel suo saggio “Il corpo, la legge e le pratiche politiche del femminismo” cita “Lessico politico delle donne: teorie del femminismo”, libro in cui, alla voce “aborto” si parla della differenza fra la battaglia per l’aborto condotta nelle aule parlamentari e il dibattito all’interno del movimento delle donne che ha continuato a svilupparsi, in maniera separata, altrove:
«Mentre i laici e i cattolici contrapposti portavano avanti la battaglia per l’aborto a livello parlamentare, il Movimento delle donne ha continuato separatamente il suo dibattito. Schematizzando si possono individuare due posizioni di fondo: una che ha visto nella formulazione di una legge che legalizzasse e rendesse assistito e gratuito l’aborto, la conquista di un diritto civile e il riconoscimento sociale dei diritti e della forza delle donne; l’altra posizione non ha ritenuto invece utile per le donne una riforma sociale, come è una normativa dell’aborto, attuata da un sistema che non comprende le donne e in cui le donne non hanno diritto di espressione. Non si è voluto soprattutto affermare il “diritto civile” a subire la violenza dell’aborto. Rimanere incinte senza desiderarlo o essere costrette ad abortire anche se si desidera un figlio, provoca nelle donne conflitti e situazioni tali che nessuna legge può pensare di regolare, sistematizzare o risolvere. Per questo si è chiesta semplicemente l’abolizione del reato di aborto, la depenalizzazione… Il rapporto con la maternità e la riproduzione e quindi in negativo anche quello con l’aborto, si può chiarire solo attraverso la ricerca di una sessualità non segnata dall’uomo, affrontando l’analisi del rapporto uomo-donna, comprendendo i motivi e le dinamiche per cui si resta incinte, pur dovendo poi abortire».
A parte che la copertina di L’Espresso è meravigliosa, e farla oggi forse significherebbe andare incontro a scomuniche e anatemi, è proprio il compromesso che rappresenta la legge194 che ci costringe ad occuparci ancora oggi di aborto, nei termini violenti imposti da altri, capaci di aggredire le donne in sala operatoria . A me piacerebbe cambiarla questa legge, vorrei non dover fare i #save194, non sapete quanto mi fa strano difendere una legge che reputo piena di errori concettuali e chiavi autoritarie, ma non si può. Non si può perché l’alternativa, ora come ora è il ritorno alla criminalizzazione. E così siamo strette e strozzate tra una legge che permette qualcosa, ma la nega anche, e la rimonta di quanti ci vogliono dire quando e come essere madri, negandoci la possibilità di scegliere sulla cosa più specifica che esiste per noi, negando la nostra intelligenza e la percezione di noi stesse. Quanti si prendo persino il diritto di dirsi ‘per la vita’, come se noi tutt@ fossimo per la morte!