Sto leggendo un libro. Sento qualcosa venire giù dalle scale. Un tonfo e credo qualcuno si sia schiantato sulla porta. Odo un lamento e chiedo “chi c’è?”. “Apri”, dice una voce maschile. Forse non dovrei ma si lamenta. Lo vedo in faccia e lo riconosco. E’ il figlio del portiere. Abitano all’appartamento sopra quello dove sto io. “Che ci fai qui?”. Un brutto livido e un po’ di sangue sulla faccia.
“Vuoi che ti accompagni al pronto soccorso? Non ci sono i tuoi?”. Non parla. Ma fa segno di no. No pronto soccorso. No in generale, forse.
Solleva il corpo e si trascina dentro. “Mi metto qui, guarda – e si accascia sul divano – non ti disturbo… tra un po’ me ne vado”. Osservo e resta ad occhi chiusi. E che preoccupazione, tu vedi se deve morire giusto a casa mia. Respira ancora? Mi avvicino e respira. Lo scuoto. “Se hai bisogno di me io sono in quella stanza… sei sicuro che non ti serve un medico?”. Insiste che no. Gli porto qualcosa per medicarsi e si passa una asciugamani sulla faccia. Poi richiude gli occhi.
Non è che lo conosca bene ‘sto ragazzo. Lo vedo passare giù ogni tanto, lo incontro in ascensore. Davvero non capisco come possa essere precipitato dalle scale e che ci faccia in casa mia.
Dopo mezzora sento un urlo al piano di sopra. Litigano e le voci si sovrappongono, poi sbattono le porte e infine squilla un telefono, in casa mia, è quello del ragazzo. Lui dorme e io non so che fare. Forse lo stanno cercando. Se non risponde si preoccuperanno. Forse chiameranno la polizia. Dovrei tranquillizzarli e dire che è qui da me. Tornerà domattina. E se peggiorassi la situazione? Se lui volesse proprio evitare di farsi vedere così? E se… se… se…
Decido che rispondo e mi presento… “salve, sono io e rispondo al telefono di egli perché è qui in casa mia”. Parla sua madre e sento l’eco delle parole che rimbalzano sul pavimento al piano di sopra. “Perché… come sta… che fa… lei chi è”.
“Glielo ripeto, signora, sono l’inquilina del piano di sotto e suo figlio è qui da me e sta bene. Sta dormendo. Non so che problemi abbiate ma se vuole scendere di sotto a controllare io le apro”. “Si si” – fa lei – e dopo un click e un paio di minuti bussa alla mia porta.
E’ stranamente in lacrime. Non è arrabbiata e non ce l’ha con me. Tiro un sospiro di sollievo. Gli indico suo figlio e lei lo guarda da lontano. Poi si avvicina e lo accarezza. Infine siede lì vicino e dice “ma si che me lo merito… che dovevo fare?”. Io non capisco ma le chiedo se ha bisogno di qualcosa e penso che domani dovrò andare a lavorare ma che importa. Pare che tutto il palazzo si sia dato appuntamento in casa mia.
Resta muta e guarda un punto fisso avanti a se’. “Signora, vada a casa tranquilla e dorma. Qui ci sono io e lui è al sicuro. Domattina glielo rimando come nuovo.” e provo a sorridere. Lei non recepisce. ‘Ste mamme che drammatizzano in notturna non hanno il minimo senso dell’umorismo. Insisto “o altrimenti, signora, vuole stendersi un pochino sul mio letto? non può mica restare sulla sedia…” e pazienza. Vorrà dire che dormirò con tutto il vicinato. Invece prende, mi ringrazia e se ne va. La nebbia fitta e io ci capisco meno di prima.
Sale le scale, sbatte la porta, c’è un lui che chiede arrabbiato “dov’è? che fa? non lo voglio più vedere…” e lei “ma shhhh… non le devi nemmeno dire queste cose… se fai così io me ne vado… mi butto dal balcone e non ti sento più…”. E già prevedo la tragedia. Medito di chiamare i rinforzi perché a fare da paramamma in caduta libera dal palazzo non sono in grado.
Poi non sento più nulla e resto affacciata alla finestra per aggiornarmi sulle mamme che volano. Il ragazzo respira piano. Sta bene, pare. Mi rimetto a letto e se arriva qualcun altro vaffanculo. Possono andare dal vicino che è tanto buono e caro e ha una casa pure più grande del mio piccolo bivani. Chissà se può funzionare un cartello sulla sua porta con su scritto “chi ha problemi venga da me e non da quella là”…
E’ giorno, sento rumore alla cucina. Un piede dopo l’altro arrivo, trovo lui in piedi che pasticcia. “Caffè?” – mi dice. “Si grazie” – e una volta tanto qualcuno prepara lì per me. “E dunque?” – faccio io. “Dunque… – s’interrompe – prima il caffè… intanto grazie…”. “Ma di che. A proposito… sappi che ho fatto varcare quella soglia a tua madre che si è accertata che tu stessi bene…”. “Ah si… mia madre.”
Taccio. Ha detto dopo e allora sarà dopo che diamine. Poi comincia dal meglio della storia: “sono gay…” e aspetta una mia reazione. Continuo a bere il mio caffè e poi mi accorgo di essere osservata. “Ah si… volevi che dicessi qualcosa? Scusa. Si. Ho capito. Ohhhh, sei gay. Allora?”. Ride. Senza il sangue e l’aria truce da tragedia in notturna è pure un bel ragazzo. “La mia famiglia non lo sapeva…”.
“Oh. Dunque volevano lanciarsi dal balcone perché tu non scopi con le donne? Mah!” – mi riesce male essere seria in queste situazioni. Non fosse altro per il fatto che ho dormito poco, sono stanca e non saprei davvero quali frasi di circostanza usare. Che si dice in questi casi? Compra dei paracaduti per i tuoi genitori? Programma una gita premio per la tua famiglia? Condoglianze? Invece dico solo “Ho capito. Puoi restare quanto vuoi.”. Indico il tavolo “lì trovi un secondo paio di chiavi… basta che non arrivi tutta la tua famiglia perché stiamo stretti e dì a tua madre che venga a farti visita di giorno perché la notte vorrei dormire…”.
Ride ancora e rido anch’io. Tutto passato pare. Poi bussa quella mamma. Entra. “Tuo padre non ti vuole più vedere…”. Mi guarda. “Faccia finta che non ci sono, signora… continui pure”. “Resto un po’ qui” – risponde lui – e ha la schiena dritta. Sono orgogliosa di lui, penso. Bravo. Fagliela vedere a questi stronzi. Mi veniva la domanda: ma un lavoro almeno ce l’hai? Ché non lo so mica come posso mantenerti.
Viene in soccorso la mamma che per il quieto vivere si abbassa a darmi confidenza, a me che fino a qualche giorno prima mi guardava bisbigliando per l’acconciatura e il look. Un figlio precipitato in basso può certo stare con una specie di baldracca. “Signorina non si preoccupi. Penso a tutto io.”. Avrei voluto dirle ma se la tenga la spesa e i soldi, posso farne a meno. Lui può fare a meno di subire i suoi ricatti e pure i sensi di colpa. Ma continua a guardarmi con l’aria da “che dolore che ci hai provocato figlio mio” e lui, impassibile: “non mi serve niente, mamma, ho un lavoro e posso anche contribuire alle spese…” e penso, ma dai, mi sono anche trovata un coinquilino. E vuoi vedere che il padrone di casa può avere da ridire? E perché mai? Il padrone di casa è il portiere.
La mamma se ne va segnalando gli orari in cui egli può andare a prendere le sue cose. “Non preoccuparti – la conforta – vengo a svuotarvi la stanza appena se ne va papà…”. Lei esce. Lui mi guarda. Io rido. Staremo stretti, certo, ma poi spiega che il babbo lo spingeva proprio fuori, la mamma tratteneva il padre, non si sa come né perché ha fatto un capitombolo giù dalle scale. In quale altro modo, d’altro canto, vuoi dire a tuo figlio che è ora di sloggiare?
“Devo andare a lavorare… torno nel pomeriggio. Tu – e rido – fa come se fossi a casa tua.”. Mi abbraccia forte e poi fa ciao. E ciao, my brother, a dopo.
I brividi, porca miseria.
Ricordo che quando quello che è stato il mio migliore amico dall’infanzia a pochi anni fa disse ai suoi di essere gay (avevamo 17-18 anni), suo padre cercl di sparargli.
Sì, prese il fucile per sparare a tutta la famiglia.
ll panico assoluto.
Tutto andò per il meglio. Ora hanno un rapporto civile, ma tanto il mio amico se la vive a Berlino! 😉
Grazie a te, che (in)direttamente mi commuovi. Sapere che altri ragazzi possono avere su chi contare mi fortifica.
Lui è in gamba. Fagli tutti i miei più grandi auguri. E’ grande, ormai.