[da Punkcancer by Amazzone Furiosa]
Io di cancro non so molto. Anche se in famiglia non ci siamo mai fatti mancare niente. Malattie di ogni genere, anche parecchio gravi, però di cancro ho visto morire parenti più lontani, persone che oggi c’erano e dopo una settimana non c’erano più e i commenti erano sempre fatalisti, come fu e come non fu, gli ha preso così e in un mese la malattia l’asciucò (se l’è asciugato, l’ha sfinito), con quell’espressione un po’ sorpresa che trovi in faccia a chi ti parla di un delitto in famiglia. Stessa posa, stesso fatalismo. Sembrava tutto normale e poi d’improvviso il raptus o eccola la malattia fulminante, che arriva senza dirti nulla, un pizzico, uno starnuto, proprio niente. Ti seppellisce talmente presto che è meglio non pensarci perché finché non sai respiri meglio e quando sai stai per morire e non ti sei sprecata l’esistenza tra ansie e panico e cure. Ed è l’atteggiamento ignorante di chi affronta la malattia come fosse una punizione divina per cui si evita incoscientemente di praticare un minimo di prevenzione e poi di occuparsi della propria salute.
Noi non abbiamo questo problema ereditario, diceva una parente, e la invidiavo per le sue certezze e poi chiedevo se avesse fatto un test e lei a dirmi che tanto quannu mori mori (quando muori, muori) e allora tanto vale non perdere tempo a fare file all’asl per una visita che prenoteranno per l’anno prossimo. Perché da noi è così, sappiatelo, la prevenzione è un concetto astratto. Previeni se prenoti due anni prima che t’arriva qualunque malattia per essere in tempo per curartela. La sanità del sud è un affare per mafie con i colletti bianchi che dalla devolution e dalla trasformazione della sanità pubblica in aziende in mano a poteri territoriali hanno guadagnato anche di più. Ma questa è un’altra storia.
Di fatto il cancro si affronta un po’ così, c’è e non c’è, se cammini bassa forse non ti becca e se ti capita ti avrà detto sfiga. Non si riflette sul fatto che la malattia in se’ viene concepita come qualcosa di rispettabile, ché essere malat@ di cancro è una specie di status dei tempi nostri, perché è una conseguenza dell’inquinamento, della cattiva alimentazione, del “progresso” o del “capitalismo” gestito da speculatori senza scrupoli. Una specie di effetto collaterale del quale le industrie non si assumono la responsabilità perché a loro non importa se tu vivi o muori. Importa fare profitto sulla tua pelle, prima e dopo il cancro, quando lavori, vivi e consumi respirando merda e quando fai aumentare il Pil con la chemio che ti stronca ogni cellula del corpo.
Diversamente l’HIV si porta dietro lo stigma della colpa e dunque la prevenzione, per quella cosa lì, secondo il clero sarebbe l’astinenza. Dopodiché sono nominate per la canonizzazione quelle persone che si sono beccate l’aids con una trasfusione.
Tanto da dire sulle malattie ma torno al cancro, che non ho, almeno per ora, non preoccupatevi, ho già all’attivo il mio controllo al seno post quaranta, osservo con costernazione le mie lentiggini e i miei nei che mi ci vorrebbero un sacco di soldi per controllarli tutti, ma sto parecchio bene, per fortuna.
Però con il cancro ci convivo. Lo ha sconfitto quel parente e poi quell’altro, un paio di morti, una amica si è operata e si era pure fatta ricostruire il seno ma dopo un anno si è addormentata col dito medio incolume, ne sono certa, e puntato in alcune direzioni di cui non sto qui a dirvi. Il cancro aleggia, ti circonda, e qualche volta ho comprato la pianta con donazione annessa e poi le arance e le mele e se m’avessero dato i fichi d’india avrei preso pure quelli, ho visto personaggi più o meno famosi diventare testimonial della causa in trasmissioni tv dove se dicevi cancro le femmine avevano il dovere di smettere di ridere perché se non celebri il lutto alla loro maniera non c’è gusto.
E io ricordo invece grasse risate. Vomito e risate. Perché credo non ci sia nessun@ di più forte di chi prende il controllo della propria malattia e determina un percorso di cura, cogliendo ogni informazione, intrecciando una relazione franca con il proprio medico, restando a contatto con il proprio corpo, imparando ad ascoltarlo, e chi una malattia se la vive e sta facendo la guerra per tentare di vincerla di tutto ha bisogno, credo, meno che di piagnone tutto attorno che la benedicono e le dicono che troverà il paradiso altrove. L’amica mia cacciava le suorine che arrivavano a molestarla e poi parlava volentieri di sesso con un infermiere che riusciva a restituirle bellezza anche quando aveva la pelle grigia e sfatta. Cacciava via pure sua madre che era solita fermarsi a documentare la sua croce con altri familiari di colleghe di ricovero, la condivisione della ferita e della paura della perdita, più che comprensibile, e lei voleva invece attorno quelle e quelli che la facevano schiantare dalle risate, che la facevano incazzare, che le parlavano di politica e che le sottoponevano ciò che suscitava in lei passione, rivolta, perché la bellezza è lotta e chi lotta è bella e lei era bella sempre perché non smetteva di lottare.
Avevo promesso a Grazia di parlarne di questa cosa e ne sto parlando nell’unico modo che conosco, mettendo in piazza un po’ di cazzi miei, dichiarando la mia ignoranza in materia e il mio dolore e sostenendo chi, come lei, decide che a parlare della propria malattia sia lei e lei soltanto e non una inutile presentatrice tv che specula come speculano certe aziende che lucrano sul cancro e sulla pelle delle donne.
Grazia racconta tutto, della pinkizzazione delle campagne contro il cancro, i pink ribbon, lo stereotipo sessista anche quando ti porti appresso la morte, come quelli che ti vendono la bara rosa o ti infiocchettano di rosa per affermare il fatto che tu donna rimani, biologicamente schedata, donna mancata se poi non sei fedele a quel modello, se non ti rifai la tetta dopo che il chirurgo te l’ha asportata, se non resti chiusa in casa quando le tette non le hai più, se addirittura ti permetti di andare in giro senza una adeguata copertura che protegga gli altri dalla vista delle tue ferite. Perché le donne devono essere decorative sempre, anche da malate, da sopravvissute, bisogna che cancellino le cicatrici che per gli eroi sembrano punti d’onore. E per le donne invece diventano difetti, schiaffi in faccia all’estetica dominante. Le nostre cicatrici, i nostri successi, quei segni che dicono che abbiamo combattuto e vinto, non devono esserci e lì verifichi l’ingiustizia nell’ingiustizia, quella che non ammette che le donne siano altro che oggetti sessualmente appetibili per gli uomini che quella tetta la vogliono intera.
[Jodi Jacks, la nuotatrice che ha ottenuto di poter nuotare senza reggi “seno”]
Allora alle campagne pink che sfruttano un fenomeno tanto serio risponde la campagna in red, fatta di rosso fuoco e testimonianze vive e poi c’è la campagna punk con le cicatrici ben in vista e poi capita anche la donna, sportiva, che esige che una legge tolga di mezzo la discrezionalità nel caso in cui qualcuno volesse impedire alle donne cui è stato asportato chirurgicamente il seno di nuotare in piscina senza fastidiose coperture.
E fa davvero rabbia pensare che ‘ste donne oltre a lottare per sopravvivere debbano anche scontrarsi contro chi attribuisce loro stereotipi sessisti, fa rabbia pensare che non abbiano diritto d’esistenza mai perché il sessismo è una prigione, una trappola che bisogna superare, come se già non ci fossero sufficienti guerre da fare. E fa rabbia pensare che esiste chi per questioni ideologiche sfrutta le scelte di donne, come Chiara, di cui Grazia vi racconta in un suo post, che ha deciso di non curarsi per portare avanti la gravidanza e così è morta. Perché la scelta di una persona non può essere una legge per tutte ed è assurdo che i no-choice propongano che una donna malata di cancro debba scegliere tra la propria vita e quella di chi non è ancora nato. Perché se sei donna, ed è così senza dubbio, l’imposizione riproduttiva ti infliggerà sensi di colpa anche se stai per morire.
Il rosa puzza e le ideologie che imprigionano i corpi delle donne pure. Liberiamocene. E questo è quanto.
Evidentemente è fondamentale non lasciarci spazi di esistenza, nemmeno da malate! Altrimenti potremmo cominciare a chiedere conto: perché il cancro al seno negli ultimi anni si è decuplicato, forse anche centuplicato di incidenza rispetto qualche decennio fa? Chi ci ha fatto questo bel regalo? Negli anni ’70 la questione sanitaria per il femminismo riguardava soprattutto la riproduzione. Ora riguarda secondo me il fatto che dobbiamo beccarci il cancro al seno (1 su 8!), senza poter nemmeno chiedere perché. Perché non facciamo un gran casino su questo?
Emma