Leggo con un misto di incredulità e terrore questa lettera di Clio Napolitano al direttore di Repubblica. Non so, sicuramente io c’ho qualche problema e non sono degno (parole di alcuni miei commentatori) però trovo che sia necessario commentare queste parole [come al solito, in corsivo tra parentesi quadre].
“Perché dobbiamo fermare l’odio che uccide le donne” di CLIO NAPOLITANO
CARO direttore, i fatti di cronaca di queste settimane hanno riportato al centro dell’attenzione il tema della violenza sulle donne, tema che può essere analizzato da tanti punti di vista: sociologico, psicologico, pedagogico e statistico. In ciascuno di questi campi si possono fare analisi diverse anche tra specialisti di ciascuna di queste discipline. [Che detto così, significa più o meno che ciascuno dice la sua e buonanotte; e poi, perché “anche”? In genere gli specialisti non ne fanno, di analisi?]
Ma ritengo importante che di tali problemi si possa discutere anche tra non specialisti. [E direi, visto che lei non lo è e ne sta scrivendo, e visto che riguarda, io credo, tutti gli esseri umani.] Ad esempio quando si legge che nel nostro Paese gli atti di violenza sulle donne sono drammaticamente aumentati, io mi chiedo se in termini statistici ciò non sia dovuto al fatto che le norme introdotte nel nostro ordinamento abbiano incoraggiato la denuncia da parte delle vittime di tali reati, tenuto conto che la maggior parte di essi vengono commessi nell’ambito familiare, il più difficile da penetrare. [A me pare strano che una donna sia colpita dalle notizie sul femminicidio per il loro rapporto statistico con il numero di denunce presentate, plaudendo all’attuale ordinamento. Comunque, il mondo è bello perché è vario (altra frase di una mia lettrice); io continuo a pensare che il numero delle vittime sia un fenomeno sostanzialmente slegato dal numero di denunce presentate, soprattutto perché i morti non possono più denunciare nessuno – almeno secondo il nostro attuale ordinamento. Se le norme siano efficaci e davvero capaci di tutelare le potenziali vittime nell’ambito familiare, lo dedurrei appunto dal numero delle vittime accertate: e mi sa, a occhio e croce, che per ora non sono servite a granché. Ma non sono uno specialista.]
Tenuto conto che già esistono nel nostro ordinamento leggi abbastanza severe in materia e che gli atti di violenza sulle donne assumono tante modalità diverse e vengono attuati i tanti diversi contesti, mi chiedo se sia necessario pensare a nuove fattispecie di reato o ad aggravanti. [Nel nostro ordinamento non c’è nulla del genere, invece, per questo particolare crimine. Chi sostiene l’uso della parola femminicidio chiede solamente di chiamare le cose con il loro nome, e di riconoscerne la specificità penale e sociale in genere. Non a caso, infatti, l’ONU ha segnalato il femminicidio come un delitto contro l’umanità, e non contro il singolo, riconoscendone la matrice culturale, oltre che la responsabilità penale. Le dimensioni e le conseguenze sociali del femminicidio vanno oltre quelle del “semplice” atto di violenza, per questo organismi internazionali hanno adottato una parola appropriata al fenomeno. Ed è proprio per le sue dimensioni culturali che in Italia è tanto difficile accettarlo e farlo usare. Complimenti vivissimi alla moglie del presidente della repubblica.]
A mio parere sarebbe forse più incisivo accelerare le procedure relative alla condanna del colpevole o dei colpevoli, una volta che la donna abbia trovato il coraggio di denunciare il reato e di affrontare il processo la cui lentezza è cosa nota. [No. A mio parere accelerare quelle procedure di condanna dopo la denuncia è più incisivo per tutti i crimini, sia quelli contro il patrimonio, sia quelli che fanno una vittima ogni lustro, sia quelli che fanno tre o quattro vittime a settimana. Non ci sono reati di serie A e di serie B, ma giustizie efficienti o scoraggianti. E poi, di nuovo lei, Clio, sembra sfuggire il problema all’origine: che ci dice a proposito di trovare “il coraggio di denunciare il reato e di affrontare il processo”? La legge non dovrebbe occuparsi anche di questo? In realtà queste vittime sono già prima lasciate sole, da una legge che non esiste, da uno Stato che non ha strutture per loro e che non è capace di avvertire l’urgenza del problema di genere prima che avvenga un fatto di sangue. Tutto questo, nel nostro attuale ordinamento, non c’è.]
Un’ultima considerazione: mi ha colpito sempre in relazione ai recenti fatti di cronaca l’uso della parola “femminicidio”
per indicare una insana concezione del genere femminile come presupposto dell’atto di violenza, diverso dal reato di omicidio. [No, guardi, veramente le cose stanno così: femminicidio non si usa praticamente mai sui media, e noi ci stiamo battendo, invece, perché la parola venga usata. Quello che l’ha colpita, forse, era un coro di appelli partito il 27 aprile scorso, che appunto chiedevano di usare quel termine.]
Non ho dubbi che questo tipo di violenza affondi le sue radici nella discriminazione di genere, in una concezione proprietaria della donna, in un certo maschilismo presente nella nostra società. [Se Clio Napolitano arriva a parlare di “un certo maschilismo presente nella nostra società”, figuratevi qual è la situazione reale “nella nostra società”.]
Tuttavia mi chiedo: le donne che tra tanti innumerevoli pregi hanno anche quello della fantasia [ops. Clio, questo è un pregiudizio sessista, lo sa?], non potrebbero inventare un’altra parola, avendo istintivamente colto in “femminicidio” una intonazione di disprezzo? [Ma certo, la parola è tanto brutta, offende l’istintivo buon gusto tutto femminile per le cose belle. Allora chiamiamole “morti rosa”, contenta?] Oppure si tratta di una diversa sensibilità generazionale? [Si dia pure la risposta che vuole, Clio: per me il problema è tutto un altro.]
Aggiungo una riflessione di lafra:
Le donne più per necessità che per fantasia hanno inventato molte cose nel mentre le istituzioni remavano contro. Hanno inventato i centri antiviolenza, i gruppi di autodifesa, le manifestazioni, hanno studiato e scritto libri sul fenomeno, hanno occupato spazi per dare rifugio a donne che scappavano dalla violenza, hanno organizzato corsi gratuiti di lingua italiana alle straniere che arrivavano senza alcuna protezione, hanno organizzato gruppi e cooperative per aiutare le donne vittime di tratta e sindacati di sex worker per combattere la violenza culturale e fisica che le obbliga ad affidarsi un pappone. E poi sì hanno coniato il termine “femminicidio”, una parola che ormai esiste, si usa, e l’unica sensibilità che può urtare è quella di chi vuole nascondere la propria corresponsabilità nel non aver fatto un bel niente.
ma a prescindere, il punto e’ che la parola esiste ed e’ un termine “tecnico”, come coniata da Diana Russell, quindi trovo alquanto sterile discuterne l’opportunita’. Tipo, hanno chiamato “mouse” il mouse, e’ un termine cretino, ma tant’e’, ormai ce lo teniamo, non val la pena cercarne un altro. L’importante e’ che tutti capiamo che cosa intendiamo quando diciamo “muovi e clicca col mouse”. A rose, by any other name…
Condivido in pieno. Poi tutto sommato una lettera inutile che non aggiunge una sola idea originale al dibattito. Con tutto quello che poteva dire dalla sua posizione: un monito contro la trattazione “giusitficazionista” che i giornalisti fanno di queste tragedie, una raccomandazione a non tagliare la spesa per i centri antiviolenza ecc. E poi vuole accelerare i procedimenti penali (per tutti, per qualcuno, per le donne, per i delitti di mafia… vabbè). Benissimo: chieda più attenzione per le esigenze dei palazzi di giustizia, che sono ambienti miserabili con funzionamento antidiluviano. Macchè, si sofferma sull’estetica della parola. Mi sa che la famiglia Napolitano ha delle difficoltà a riconoscere i boom sociali…