Genova 2001. La fatica. Il cortocircuito. La conferma di tante consapevolezze. La messa a fuoco. Il quadro d’insieme. Tutto chiaro.
L’abbiamo vissuta, ciascuno dal proprio punto di vista, piccoli frammenti che insieme hanno creato memoria. Confusione, talvolta, quando l’immagine che vedevi in video o in una foto si sovrapponeva ad un ricordo. La rimozione di un trauma. Un trauma collettivo. Lo stress successivo che coinvolgeva corpo e mente.
Ho visto due film su Genova, la Diaz, Bolzaneto. Un’autorappresentazione attraverso le testimonianze di alcuni tra quelli che sono stati pestati e torturati tra Diaz e Bolzaneto [Black Block] e una ricostruzione con una riserva di licenze poetiche a partire dagli atti dei processi successivi a carico della polizia [Diaz – don’t clean up this blood]. Il primo film è andato in onda su Rai Tre il 15 aprile con grave disappunto di quelli che “siamo sempre dalla parte delle forze dell’ordine“. Pubblicizzato quasi niente perché meno gente lo vedeva e meglio sarebbe stato. Potete comunque trovarlo facilmente. Vederlo, invece, soprattutto per chi da quelle parti c’era, come me e tante altre persone, non è per niente facile. Il secondo film lo vedi al cinema o fate un po’ voi e anche quello non è facile vederlo. Però, stranamente, almeno per me, è stato meno traumatico perché lo sfondo della fiction lo rende quasi innocuo. Ciò che è stato vissuto a Genova era molto peggio. Il film consegna un “Fragole e sangue” con qualche cenno hippie e un paio di scivoloni giustificatori delle violenze della polizia.
A parte Santamaria che rende il personaggio del funzionario Fournier bello, impossibile e con una coscienza, così come da sua testimonianza ai processi, c’è l’invenzione dei presunti appartenenti al blocco nero nascosti come sorci e colti da crisi mistica alla vista del sangue come se ne fossero stati responsabili.
La cosa grave, in Italia, è che ci pigliano per stanchezza, dunque, quello che ci viene restituito attraverso questi film pare una specie di giusto riconoscimento, la consegna di una corretta valutazione storica. Ci si accontenta, dopo tutti questi anni, a fronte di tantissime bugie, di una verità archiviata, sepolta e mai discussa per davvero, di una mancata elaborazione di un lutto collettivo. Basta vedere che – guarda lì – ci hanno pestato, vedi che cattivi?, miserabili, bugiardi, pezzi di merda, serve che il mondo veda quello che ci hanno fatto e che importa se tutta quella brutta gente ha ottenuto avanzamenti di carriera, se hanno coordinato l’ordine pubblico nel corso di altre mille manifestazioni, se sono presenti in ogni città a rappresentare quelli che fantasiosamente pare debbano consegnarci tutela, se la responsabilità dei capi non è stata raccontata, se le responsabilità politiche non sono state messe in luce, quei politici nella sala di comando, se ancora una volta hanno voluto nascondere sotto il tappeto un’altra strage di vite umane, se esistono tante persone che non sono state risarcite della perdita di un figlio, delle ferite e delle disabilità riportate, dello stress post-traumatico vissuto.
Io ricordo ogni cosa e ricordo soprattutto la sorpresa, perché c’è sempre chi pensa che nella testa degli aguzzini e dei torturatori ci sia qualcosa di buono. In fondo hanno famiglia, figli, sono brave persone, dignitosi cittadini, ti dicono, ma chi l’ha detto che il sadismo, l’autoritarismo, la perfidia risiedano nelle persone “anormali” (un incontro tra Lombroso e Foucault meriterebbe ascolto…)?
Così ci hanno insegnato e invece eccoli lì, senza alibi, quelli della banalità del male, che massacrano gli uomini e se sono donne le massacrano con più vigore, con il carico di misoginia che si portano dietro, collaborati da donne, funzionarie, altrettanto e normalmente perfide, salvo qualcuna esclusa dai cameratismi per stomaco troppo debole, ché se ci stai dentro devi averci “le palle”, si sa.
Ricordo che con altre persone di Indymedia, di cui facevo parte, abbiamo visto e rivisto le immagini, le foto, e abbiamo girato l’Italia per raccontare, mostrare e, almeno per me, non so per gli altri e le altre, era un conforto stare con chi sapeva e capiva ciò che avevamo visto, vissuto e che tentavamo di riportare, ciascuno con la propria lettura degli eventi, più o meno coerente, più o meno elaborata, più o meno consapevole. Ma lo sforzo di restare presenti a noi stessi c’era tutto e mai per fare le vittime perché noi stavamo nella scuola in cui spaccarono le cose, preso hard disk degli avvocati pieni di testimonianze sulle violenze dei giorni già trascorsi, preso immagini, comunque per la maggior parte, per fortuna, già messe in rete, intimidito, raccontato un sacco di frottole, ma dopotutto non ci avevano condotto in carcere, le nostre teste erano intere e se riportavamo ferite erano dovute ai due giorni di mattanza organizzata già vissuta.
C’era un morto, c’erano feriti gravi, c’erano emergenze, gli arresti, quelli e quelle da tirare fuori dalla galera, il gruppo di supporto legale per dare una mano agli avvocati che avrebbero portato avanti difesa/accusa nei processi. Non c’era tempo per parlarsi. Non c’era tempo né il diritto di dirsi il dolore, il trauma per ciò che avevamo visto, l’impotenza vissuta nell’assistere a scene di violenza così atroci, quelle urla, le richieste di aiuto, le botte viste attraverso una finestra, la polizia che massacrava chiunque incontrasse davanti ai nostri occhi, increduli, noi, alle finestre, e subito a telefonare per chiamare chiunque potesse far sapere al mondo quanto stava succedendo, il fragore dei vetri rotti, il rumore dell’elicottero, le file di barelle con gente che non sapevamo se fosse viva o morta, quel sacco nero da obitorio che pareva portare via un cadavere e portava via i “reperti” raccattati per dimostrare la necessità della violazione, le urla – assassini, assassini – la paura, anzi, il terrore. Vedere il mio amico appena maggiorenne con le convulsioni, e gli occhi terrorizzati di chi si faceva prendere dal panico, poi eccoli da noi, ed è quello che accadde al piano in cui stavo io, arrivano nella stanza dov’era Radio Gap, le mani alzate, il microfono aperto, e in strada succedeva il delirio, avevano già capito che bisognava smettere e siamo rimasti lì a sentirci dire tante cazzate. E quante ne ho sentite in quei giorni mentre vedevo una realtà e sui media ne sentivo raccontare un’altra prefabbricata e totalmente falsa. La sensazione di un contesto sociale dissociato. Nulla di vero.
Arrivarono alle 23.00 circa di quel sabato sera e noi pensavamo fosse finito tutto. Invece volevano vendicarsi. Le immagini di quanto avevano commesso nei giorni precedenti avevano già fatto il giro del mondo. Lo scherzo del “sasso” che uccideva un ragazzo non gli era riuscito. Le botte date e i blindati lanciati tra la folla per uccidere non erano passate inosservate. Ma è da ingenui pensare che il fatto che il mondo sapesse potesse sconvolgerli. Il perché vi è più chiaro oggi. Qualunque cosa facciano, gli aguzzini, i carnefici, godranno sempre di protezione. Di questo bisogna essere consapevoli.
Per qualunque strage o violazione dei diritti umani in questo paese c’è sempre una richiesta di “perdono”, un revisionismo palese, una accanita ricerca di “conciliazione” che vuole fare conciliare la vittima con il suo torturatore perché in questo consiste, in realtà, quella cosa che volgarmente viene chiamata “democrazia”.
Quando la polizia ruppe il cordone e la scuola rimase vuota di esseri umani e piena del loro sangue attraversammo quei corridoi e quelle stanze piangendo, perché fu davvero troppo. Fu sconvolgente, neppure io avevo mai visto tanto sangue come allora, grumi, pozze, ciuffi di capelli, segni tangibili di una tortura inimmaginabile. Restammo a raccogliere le cose, i vestiti, i sacchi a pelo, gli zaini, gli spazzolini da denti, quel che restava di quelle persone che erano state portate via. Riponemmo tutto al piano terra del media center ripromettendoci di restituire e spedire tutto ai legittimi proprietari. Mentre piegavo quelle maglie e quei sacchi a pelo guardavo gli altri e le altre e lo vedevi dalla cura, l’attenzione, quanto fosse necessario toccare quelle cose per sentirsi in qualche modo vicini a quelle persone di cui non conoscevamo il destino.
Ancora non sapevo di Bolzaneto, che avrebbe aggiunto orrore ad altro orrore, e quel che restava era solo il dubbio, ché bisognava vedere dove fossero i dispersi, tanti, quelli già partiti, quegli altri finiti in carcere, parlare con gli avvocati e vedere di capire in quale galera reperirli, capire come stavano, dare notizia ai genitori…
Da allora, ricordo, non ci fermammo mai, fuori e dentro Indymedia, per mesi, anni, a ricostruire e restituire memoria, perché il mondo non dimenticasse, perché i processi avessero il giusto sostegno. Mentre avvenivano altre emergenze, la stretta repressiva post 11 settembre, le perquisizioni e i sequestri dei documenti video, mille altre cose che messe tutte assieme creavano un collante che permetteva alle persone di Indymedia di avere una motivazione forte, la responsabilità collettiva, per andare avanti.
A me sembrò però, non so ad altri perché non mi pare ce lo siamo mai detti, che questo dover ricordare tutto in forma pubblica, sempre, lasciasse spazio ad una solitudine emotiva, ché le paure erano le uniche cose che non condividevamo, e non consentisse dunque una elaborazione più privata. Mi pare fosse due anni dopo che una del gruppo propose di inserire nel dossier di Genova 2001 un capitolo che parlasse di stress post traumatico e del fatto che tanti e tante sembrava avessero la necessità di rimuovere, per andare avanti, per sopravvivere, per far quadrare tutto, per sfuggire al dolore, alle domande, tante, per far conciliare quel difettoso “Matrix” che avevamo tutti/e in testa.
Avevamo visto, impossibile negarlo. Non seppi continuare, semmai avessi fatto qualcosa di realmente utile, ché quelli che compivano azioni necessarie e importanti in quel momento erano altri/e. A quegli e quelle altre va tutta la mia riconoscenza, perché a quei compagni e quelle compagne, al di là della differenza di vedute su tante cose, potrei davvero affidare la mia vita sapendo che mi sarebbe restituita intatta.
Quello che so è che sembrava sciocco e inutile dire di aver avuto paura di morire. So che non ne ero consapevole e dunque non riuscivo a porre la questione in agenda politica, dentro e fuori i contesti che attraversavo. So che avevo bisogno di concentrarmi sul cortocircuito che aveva rivoluzionato la mia vita. Dovevo prendere distanza per un po’. Giusto un po’.
Come tanti/e altri/e ho avuto incubi per mesi. Sentivo mio malgrado quel maledetto rumore dell’elicottero e quando ne vedevo uno nei dintorni mi tornava la paura. Vedere qualcuno della polizia, a Palermo, una città strapiena di gente in divisa che campa di rendita dei caduti nella lotta contro la mafia, mi terrorizzava.
Non era la prima volta che vedevo crudeltà e ripiegavo sulla lucidità per sopravvivere. Dovevo razionalizzare, non generalizzare. In ogni caso ciò che mi mancava ero io, noi, la traccia intima di quelle persone con cui parlavo tutti i giorni di cose da fare e militanze da rispettare considerandole a quel punto quasi una fuga da se stessi e dal proprio disagio.
Fino a quel momento non riuscivo a scorgere equilibrio, complessità, o tutti buoni o tutti cattivi, c’era una guerra aperta su qualunque media, con quella verità che pure non sta mai da una parte sola ma che veniva descritta in modo semplice, banale. E io – forse – noi, con la necessità di restare dietro la telecamera o la macchina fotografica o davanti al desktop a filtrare la realtà per renderla accettabile a noi stessi/e rimuovendo, credo, quella amnesia dissociativa che viene raccontata nel Film di animazione Il Valzer di Bashir (che potete vedere per intero QUI) dove spiegano come vi siano degli avvenimenti gravissimi che provocano una frattura che a seconda dei livelli del trauma subìto è più o meno difficile da superare.
A Genova – concludo – mi fu tutto chiaro. Una cosa tra tutte: davvero qualcuno potrà mai convincermi che lo Stato, attraverso i suoi rappresentati delle forze dell’ordine, gli stessi che sono ancora lì, mai rimossi, presenti, nonostante si sappia quello che hanno fatto e fanno, vuole e può tutelare le donne vittime di violenza?
Direi di no. E anche li rimuovessero, comunque, la sostanza non cambia. Direi che le donne sono, tra altri molteplici esseri umani, usate per legittimare la crudeltà di carnefici che tengono sotto scacco la società senza che mai tu possa realmente alzare la testa. E ancora abbiamo qualche dubbio circa il fatto che le “tutele” siano la chiave di passaggio per la realizzazione di uno Stato autoritario?
Black Block è un film di Carlo Bachschmidt.
Diaz – don’t clean up this blood, di Daniele Vicari.
“Utilities”: puntata di “Visionari” (radio onda rossa Giovedì 12 Aprile 2012 ) che inizia con intervista a Daniele Vicàri http://www.scarphrec.org/visionari/visionari290.mp3
E visto che ci sono, segnalo con piacere questa iniziativa:
3 MAGGIO 2012 -FORTE PRENESTINO- roma
“Sine DIAZ”
Dibattito sul film più discusso dai movimenti
Don’t Miss This Talk
partecipano
Daniele Vicari (regista di Diaz- Don’t Clean Up This Blood)
Elio Germano
Laura Tartarini (avvocato GLF)
Carlo Baschmidt (regista di Black Block)
tu
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ore 20.00 : proiezione del documentario Black Block
ore 21.30 : spezzoni del Film Diaz – Don’t Clean Up This Blood
…………….
dibattito aperto – partecipa anche tu
Chepppaaaalle. Mi è andato perso un messaggio. Allora, dicevo:
@fikasicula: scusami, avevo capito male. Pensavo ti riferissi a Black Block. Per quanto riguarda la tua risposta, comunque sollevi un punto interessante, cioè il fatto che c’è il bisogno di elaborare un lutto collettivo. Per autodeterminarsi come soggetti politici, per uscire dall’eterno limbo del concetto di vittima. Per fare questo però non ci si può aspettare che cada dall’alto, non ce lo si può aspettare da Vicari… il film è suo, appunto, che a quanto so a Genova neppure c’era. Forse un film del genere lo può fare solo chi era lì. Io, come scrivevo nel commento perduto, vi metto a disposizione le mie conoscenze e le mie capacità, sia per fare un documentario semplice semplice, sia per fare un libro collettivo.. Qualsiasi cosa. La mia e-mail l’avete, e c’ho pure un blog, per cui è facile a trovarmi.
a presto
Serena
@Rho
Cara, come dicevo a Serena, se per chi non c’era il film assume un valore bene così. io ho detto la mia e non mi ha lasciato nulla di più a parte, come diceva Massimo qualche commento fa, riaprirmi una ferita per le tante cose non dette, rimosse e non risolte. cose non dette, rimosse e non risolte che rimarranno tali se si considererà un film di questo tipo a carattere risarcitorio.
In quanto a Mark che ha vissuto un’esperienza disastrosa, che è stato massacrato sotto i miei occhi e gli occhi di tutti coloro che al media center hanno assistito all’arrivo della polizia e all’aggressione di tutte le persone inermi che incontravano sul loro cammino, che ha subito conseguenze devastanti, che neppure sa chi sia stato a colpirlo, che non è mai stato risarcito in alcun modo, e che ha avuto perfino problemi con la sua famiglia perché non gli hanno creduto posso perfettamente capire perché questo film per lui sia importante (http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/07/21/“macelleria”-scuola-diaz-storia-di-un-sopravvissuto/146983/).
Resta intatto il suo valore – del film – se ha restituito, almeno in parte, credibilità alle persone violentate qualora quella credibilità venisse messa in dubbio. Io però resto assolutamente della mia opinione. E in quanto alla rappresentazione della mostruosità lo sai, lo sappiamo che sarebbe fondamentale rappresentare le zone grigie, quelle che non picchiano, i tanti dinieghi, le tante discussioni mistificate, i rovesciamenti della realtà, i giornalisti e le giornaliste e i politici e i ministri che si sono fatti il loro bravo lavoro di insabbiamento, quelli che hanno rappresentato la realtà in modo invertito, quelli che creano volutamente confusione e mettono in moto meccanismi che tutti i giorni vediamo in atto. quello che è successo a genova non avrebbe avuto alcuna giustificazione se non fosse stato per tutta questa gente e per i meccanismi che non si riescono a spiegare, rappresentare. dopodiché mi spiace davvero che si siano creati dei fronti quasi opposti di chi ha un atteggiamento critico verso il film e di chi lo difende a spada tratta perché c’è chi pensa che comunque nel silenzio generale è meglio che niente ed è un buon prodotto. Non è una religione. e’ solo un film. a me non è piaciuto. invece di fermarci a discutere del film, che è il rischio di cui appunto parlavo, spostare la discussione sempre pur di non parlare di noi, parliamo di quello che è successo e parliamo di come farlo emergere in maniera definitiva e senza omissioni. parliamo di come risolverci questo gran casino senza delegare la nostra salvezza ad un film. sempre che ne abbiamo voglia e prima di metterci a fare le barricate davanti ad un cinema. 🙂
un film, una fiction, un romanzo non devono “risarcire” nessuno, non è il loro compito, devono raccontare delle storie secondo la sensibilità dell’autore. A volte il film è artisticamente valido altre volte no. Poi è chiaro che anche la miglior rappresentazione della realtà, la più fedele, la più convincente non è mai “la realtà” e non può esserlo..ma non è un difetto. E quando il film racconta eventi così recenti e le cui ferite (non solo fisiche) sono ancora vive e sanguinanti. è chiaro che chi li ha vissuti abbia delle critiche
@Massimo,
è vero, rischia di essere autoconsolatorio o forse necessario. Io intendevo un atto pubblico e non solo una rimpatriata tra reduci. O forse basta solo innescare un meccanismo per cui si ricominci a parlarne attraverso un linguaggio decisamente nuovo – magari non epico – che eviti ancora ogni forma di autocensura e prevenga fraintendimenti. e in quanto al muro tra chi c’era e chi non c’era bisognerà continuare a raccontarlo. Non so quanto sia possibile ottenere empatia su un fatto così straordinario ma per nostra sfortuna di manifestazioni lesive dei diritti delle persone continuano ad essercene e dunque forse non è così complesso fare delle analogie. Un abbraccio ancora a te.
@Serena, è ovvio che se a te sembra una cosa utile rispetto la tua opinione per quanto sia convinta che la catarsi della rappresentazione della violenza in cui sono narrati i ruoli di vittime e carnefici in questa nazione in cui non si ha diritto mai al riconoscimento della verità, in termini politici, sociali, reali, alla lunga diventa alienante. Come per altro genere di violenze pare che le fiction oramai assumano carattere risarcitorio dove non esiste alcun risarcimento in termini di giustizia sociale. comunque io parlavo certamente della Diaz e non dell’intero g8 che di quella Diaz rappresenta il contesto. io dubito che basti un film a legittimare le tue ragioni la prossima volta che scenderai in piazza. purtroppo temo che i meccanismi che regolino i conflitti sociali a partire dalla gerarchia di poteri che resta in ogni caso sempre invariata non possano essere modificati da nessuna fiction. In quanto ai film dicevo che Diaz mi sembra conciliante, ovvero diventa un sedativo, consolatorio, per chi invece dovrebbe continuare a restare vigile e a produrre autonome rivendicazioni. Black Block invece l’ho trovato molto più interessante e rispettabile.
@Luigi, si. evidentemente si.
Per me il film va visto, va fatto vedere. Sperando che si attivino direttamente le persone a cercare risposte. Che si attivino pensieri critici.
Io mi trovo piuttosto d’accordo con l’analisi letta su “militant”: http://www.militant-blog.org/?p=6765 (dove tra i commenti trovo anche un link a dichiarazioni sul film da parte di uno dei sopravvissuti, che copio-incollo in calce) e di Carmilla http://www.carmillaonline.com/archives/2012/04/004267print.html.
E -si, assolutamente si- è importante il dato corporeo. La “prossimità della morte” in cui si trova chi subisce tutta una serie di abusi (come ben descrive Despentes in KingKongGirl per lo stupro).
Mi sembra che spesso ci scordiamo che i livelli di conoscenza e presa di coscienza sono diversi e che a volte si pretende troppo. Si può sempre fare meglio, certo, ma altrettanto certo è che è buono dare visibilità a qualcosa che quando raccontata, descritta, non viene creduta. Troppo spesso facce mi guarano dicendo «si, certo» e pensando «esagera» , «non è possibile» , «non in Italia, non in “democrazia”». Invece si, a Genova nel 2001 e adesso in tanti luoghi in Italia. Fa bene Vicari a ricordare i CIE in una sua intervista (http://ilcorsaro.info/in-movimento/469-intervista-a-daniele-vicari,-regista-di-diaz-il-mio-film-fa-parlare-i-fatti). E se non ci si domanda perchè e percome, credo sia possibile solo se si sceglie di non sapere.
Sulla parte dei “bb” rappresentati, credo che il film prenda posizione esplicitamente con la scena del lancio della bottiglietta su cui si torna a più riprese. Caccia ai BlackBlock? Stronzate: la poliziotta silenziata con panino afferma chiaramente: «tutto questo casino per una bottiglietta» . Si esplicita il passaggio volontario per tre volte davanti alle scuole (sempre la poliziotta: «perchè passiamo di qui?», riposta di un suo collega «ci siamo persi», affermazione palesemente “ironica” come si capisce bene in altre parti del film).
Inoltre la pellicola descrive piuttosto bene come si «costruiscano» le (false)notizie attraverso dichiarazioni ufficiali, con la conferenza stampa in cui si presentano i risultati della “perquisizione” , attraverso le bugie dell’agente intervistato riguardo la presunta coltellata («non penso di essere un’eroe…blablabla » sic ). Come non pensare a quel «sei stato tu,con il tuo sasso» urlato dal vice questore aggiunto immediatamente dopo l’assasinio di Carlo. Credo che questo sia molto importante. Stimolare sguardi critici sulle notizie.
Condivido i timori di molt* sul fatto che a seguito di uno “scandalo” o di un “clamore” sollevato con un film (che peraltro ritengo molto ben fatto in ogni dimensione dal punto di vista della narrazione cinematografica), beh, che dopo questo “scandalizzarsi” torni il silenzio. Si è possibile, anzi probabile. Ma questa non è responsabilità di chi ha provato -a suo modo e dalla sua posizione- a denunciare quanto accaduto. Sta a spettatori e spettatrici interrogarsi e muoversi, determinarsi.
Mark Covell scrive: 17 aprile 2012 alle 03:20 da
http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2012/04/15/giacomo-russo-spena-diaz-caro-agnoletto-ti-sbagli-di-grosso/
From the horse’s mouth as we say in London:)
My name is Mark Covell. I am the English journalist that was almost killed at Diaz. I have been working with Procacci, Vicari and fandango since May of 2009 concerning the creation and production of the film, Diaz:Don’t Clean up this Blood.
This article is one of the few to print the truth about why the names were changed. My name has been changed and i have an actor called Pietro Ragusa playing my story in the film.
Vittorio, who is a very good friend but was misinformed about the reasons and so was the comitato of truth and justice run by Enrica. When the script was sent to the chief of police in early 2011, it was for the reasons that Fandango did not want to be sued by the convicted Diaz police. Fandango where also aware that Diaz was and still is a legal case involved in process. Only in June this year will Cassazione finally rule on Diaz.
Enrica thought that Fandango were ‘appeasing the police’ by showing the script to Manganelli. I no doubt that Manganelli was shocked by the script and he knew it would be very damaging to the reputation but decided not sue. His views of the film remain private but i am such he has much on his mind about Diaz and how to resolve it.
Vittorio attacks Fandango about the detail of facts from the real case documents. Yes Fandango could of spent much time putting all the detail and knowledge but this strategy would of lost the audience and the film would of been a failure. Correctly, Vicari sticks to the basic facts in telling the story without switching off the audience but manages to convey the very powerful message of what the police did to me and my friends.
As for me, I met Procacci and Vicari in may 2009 in Genova. They both asked permission from myself, Lena, Neils, Mina and Lorenzo (some of the main characters from Diaz). Up until that time, no-one had made a documentary or film that covered all the facts and evidence. What really impressed me was the commitment and investment of money into the project. Making Diaz would become the hardest and most complicated film that Fandango has ever made. But Procacci and Vicari had been waiting a long time to make this film because it was so important to tell.
What further impressed me was that fandango normally receive 100 film scripts but only two or three scripts were ever developed into films. Diaz had no script in 2009 but Procacci was willing to order one of his best scriptwriters to write script and it took over two years to complete before filming could begin!
Io so per certo soltanto una cosa: qualsiasi prodotto spettacolare -là dove ‘spettacolo’ vuol dire mostrare ad un pubblico- venga fatto passare attraverso i canali ufficiali dei regimi, non può far altro che assolvere i regimi stessi, in qualunque modo. Ma la mia non è una constatazione sbrigativa e buttata lì. All’esame di ‘Mass-media’ mi fecero tante domande, fra quelle la seguente: ‘perché un documentario non mostra mai la verità’? Risposta semplice e ovvia anche per chi non è del campo: un documentario è un punto di vista, quello dell’operatore, quello del regista o dello sceneggiatore; ogni scelta è condizionata da un progetto soggettivo, conscio o inconscio. Questo risposi. E se persino un docu girato in piano sequenza è sempre fuori dalla verità, figuriamoci un montaggio. Ciao.
Quasi mi sento fuori luogo a scrivere questo commento, perché io di anni ne ho 21, quasi 22, per cui.. avevo 11 anni al tempo del g8. Ho visto il film, sia Diaz, che Black Block, ne ho parlato in due recensioni per una rivista, ma che erano in realtà molto personali… Bè, io penso che il problema di DIAZ sia che è un film un po’ dispersivo, quindi parlo di problemi artistici. In quanto a “messaggio politico”, secondo me ne da uno importantissimo: cioè che la polizia in Italia è marcia. Che il discorso delle mele marce non regge più, né dei singoli casi isolati di botte. Insomma, in questo secondo me c’è da riconoscergli un merito. In più d’una manifestazione ho subito delle cariche, e mi sono sentita dire “te la sei cercata”. Ecco, credo che dopo Diaz nessuno potrà più dire in buona fede che me la sono cercata, perché si mostra chiaramente che il problema è _strutturale_ nella polizia. Un film del genere prima non era mai stato fatto.
Poi c’è giustamente la critica che fate che voi, che c’eravate, e secondo me è una critica che è giusto ci sia.Però la trovo una critica che non può essere fatta ad un film che si intitola “Diaz”, in cui il punto non è tanto il g8 di Genova, ma le decisioni che furono prese su delle persone inerti in una scuola. La questione che si solleva nel post genera una domanda importante, secondo me: come mai i documentari che parlano di quello che accadde in tutti e 4 i giorni del g8 non hanno ricevuto una sufficiente visibilità? Perché esistono. C’è quello di Lucarelli, per esempio (http://www.youtube.com/watch?v=c9I_tHhRUWE), che a me che ho 21 anni mi ha fatto capire benissimo quello che è successo. Non credo che l’intendo di Vicari fosse quello di raccontare cosa è successo nel g8, quanto il punto di non-ritorno che si è verificato all’interno della polizia italiana. Giorni fa leggevo su il manifesto il post di un ragazzo che diceva che noi, che manifestiamo per ragioni d’età da dopo il 2001, manifestiamo sapendo di rischiare, mentre prima del 2001 questo senso di rischio così alto non c’era. Ovviamente questa è la sua opinione, è vero per alcuni, per altri no, però secondo me inquadra abbastanza bene quello che ha voluto dire Vicari nel suo film, e che secondo me è riuscito a fare abbastanza bene.
Black Block l’ho trovato anche io un po’ forzatamente conciliante, è pure vero però che come si dice nel post, se non c’è un’elaborazione collettiva del lutto, passatemi il termine, questi sono i risultati…
Non c’è dubbio che ci sia un forte bisogno, ancora, di elaborare: quello che Diaz ha risvegliato in tanti è lì a dimostrarlo. Anche perchè nonostante gli anni passati, le logiche e le modalità di “movimento” hanno lasciato poco spazio all’elaborazione emotiva di quello che abbiamo passato: nella mia esperienza ho avuto qualche raro e faticoso momento “vis a vis”, ma un momento pubblico da questo punto di vista non c’è mai stato, è verissimo!!
Ci vedo però un grosso limite: davvero ci sarebbe utile, di nuovo, parlarne solo tra di noi? Se è vero quello che scrivevo sopra, anche si! Rischia di essere solo autoconsolatorio, ma magari è già tanto!! Anzi, senza magari: già riconoscermi nelle tue parole ha fatto senza dubbio bene! Ma l’altro lato della medaglia è di nuovo richiuderci tra di noi, tra i “reduci”, forse dicendo e ascoltando solo quello che vogliamo sentire. Il muro che si è creato e che si è consolidato con gli anni è tra chi c’era e chi non c’era: mi domando se e come lo si potrà mai rompere, far venir meno quell’incomunicabilità fatta dalle proprie verità calcificate, e da quella sottile pellicola di incredulità verso ciò che raccontiamo.
Un abbraccio anche a te!
@Massimo,
mi ricordo di te. Anch’io credo che quel microfono ci abbia salvato la pelle. Ricordo bene i poliziotti entrati a viso coperto e i manganelli in mano, pronti a colpire. Forse, chissà, aver capito fuor da ogni dubbio di avere un pubblico ha disinnescato.
Capisco perfettamente la tua difficoltà a far capire quello che hai, abbiamo provato. Lo stesso è accaduto a me. E anche per me questo film è totalmente insufficiente. Nel film quasi pare che eravamo lì al villaggio vacanze, senza una motivazione politica che ci avesse spinto a impiegare mezzi, risorse, energie, vita, per arrivare, restare, continuare, resistere in ciascuna di quelle giornate.
E se anche fosse che le spiegazioni le devono dare altri che si ritiene siano più “obiettivi” (mah! la solita avvilente patologizzazione di chi ritiene che la “vittima” non abbia cervello e lucidità sufficiente a produrre una analisi precisa di quanto avvenuto. non solo sei vittima ma pure esclus@ dal dibattito pubblico…) ma, dicevo, se anche fosse che c’è qualcuno di più obiettivo di sicuro non ha contribuito molto alla realizzazione di questo film. Black Block è un punto di vista e vale la pena vederlo con il rispetto che va dedicato alla autonarrazione della propria storia ma Diaz mi pare uno dei tanti tentativi di conciliazione ben noti in questo paese. Come fosse possibile la conciliazione con chi detiene il controllo, di sorveglianza, repressione, potere, sulla tua vita. Vedere il mondo che si indigna perché in una fiction si vedono le botte dovrebbe sanare tutto, chissà perché. Poi, certo, le analisi e le ricostruzioni “oggettive” le lasciamo fare a “La storia siamo noi” di Minoli. Che felicità!
Grazie a te per aver condiviso ciò che pensi e per avermi fatto capire che non sono sola in questa valle di militanza resistente.
Sai cosa? Dovremmo fare una mega iniziativa, prima o poi, quelli e quelle che c’erano, e raccontarci e raccontare, ed elaborare, ancora, perché, io credo, ce ne sarebbe bisogno.
Un abbraccio.
@Fabio
Di essere tacciata di eresia sai quanto me ne frega! 🙂
Da brava strega oramai sono diventata rogo-resistente. Grazie dei complimenti.
Attenta,chè pare che a scrivere contro questo film si rischia di esser tacciati di eresia.(A me è successo,avendone scritto,ma magari è perchè non scrivo bene).Complimenti,puntuale come sempre.
Ciao.
Sono Massimo.
Quella notte ero con te in quella stanza, e avevo quel microfono in mano.
Un microfono che, continuo a pensarlo, ci ha salvato la pelle.
finalente qualcuno che ha il coraggio di dirlo, ci provo da anni a fatico a farmi capire anche da chi mi sta vicino: la paura di morire di quella notte. Diaz da questo punto di vista ha riaperto questa ferita, perchè ancora oggi quando spiego perchè non mi basta un film che mostra solo le botte, mi rendo conto che ancora non riesco a farmi capire, a spiegare che c’è un’altra esigenza di racconto, c’è il bisogno di spiegare altro. Mi sento rispondere che ci sono troppo dentro, mi sento dire che farei bene a raccontare quello che mi è successo ma che le spiegazioni le devono dare altri. Salvo che poi mi compatiscono per un occhio ferito ma glissano su quella paura estrema che abbiamo toccato con mano forse per la prima volta. Il fatto che dopo 11 anni siamo ancora qui a parlarne con questa carica emotiva, vale più di mille altre considerazioni. Grazie per queste parole.