C’è qualcosa che non funziona in questo testo di Marina Terragni. Avverto un notevole disagio leggendolo. Non lo so, probabilmente mi sbaglio, ma questo testo non mi ha convinto per niente. Non tanto nelle intenzioni – che comunque non mi sembrano espresse molto chiaramente – quanto nel linguaggio usato per esprimerle. C’è un continuo generalizzare che trovo sterile e banale, quando non è proprio violento. I miei commenti sono [tra parentesi quadre e in corsivo].
Comincia a circolare e a diventare lingua corrente l’espressione “patto di genere”. Ieri al seminario nazionale di Se non ora quando sulla rappresentanza è risuonata molte volte. [Non ho capito: il fatto che un’espressione si sia sentita in un seminario nazionale di SNOQ la fa diventare lingua corrente? Accidenti, diciamolo pure a Eco e De Mauro!] Si tratta però di capire bene di che cosa stiamo parlando [grazie], perché molte sono dubbiose: “Come faccio a stringere un patto di genere con la mia avversaria politica?” [Ah, quindi la domanda spontanea non è “che cos’è” un patto di genere, ma “come lo uso”. Quindi tutti hanno chiaro cos’è; interessante]. Ebbene, il patto di genere è proprio ciò che consente di avere una nemica politica senza dispersione di energie [ah, ecco. E’ una specie di social network che raduna facilmente gente che ti vuole male. E lo si definisce dopo che uno lo vuole usare].
Da noi stesse noi donne pretendiamo identità assoluta di vedute, o ci opponiamo in un’inimicizia altrettanto radicale [e, immagino, se qualcuna là fuori la pensa diversamente, sbaglia. Complimenti per questa facilità di sintesi, Terragni, che immagino sia frutto di tante amare esperienze. Beh, mi spiace per lei ma c’è chi ne ha vissute di migliori, in termini di tolleranza reciproca tra donne e capacità di stare insieme per un progetto comune – e lo so pure io]. In soldoni [prima era stata “soft”?], o solidarietà totale con l’altra, o annientamento dell’altra [“annientamento“; roba da strada assolata e polverosa, mani larghe sulle fondine, Ennio Morricone in sottofondo]. Pretendiamo anche di intenderci tutte uguali, e anche questo è un errore, perché si tratta di saper riconoscere il fatto, anche doloroso, che una in certe cose, è meglio di te, ha più talento di te [che la pensi diversamente non è proprio possibile; l’altra ti sta sopra o sotto, ma mai accanto. Gran bella visione del genere femminile, complimenti per i luoghi comuni]. Il patto di genere non ha niente a che vedere con la solidarietà, è una cosa molto diversa da una lobby e non costringe a rinunciare alla differenza di vedute [mi scusi, ma avevo capito che se non rinuncio quella mi annienta]. Avere saputo stringere un patto fondativo di genere è la mossa che ha fatto vincere gli uomini, che sanno dosare la loro inimicizia [oh, cominciavo a sentirmi un po’ escluso. Quindi io non ho amicizie né affetti maschili, né rispetto per chi la pensa diversamente da me. L’altro maschio ho solo rinunciato ad “annientarlo” per la salvaguardia della minchia regnante. Non ho ancora capito bene cos’avrei vinto, dato che sono antisessista – o forse anche lei mi definirebbe maschio pentito?]. Quello che ci lega a tutte le altre in un patto dell’origine [attenzione: quindi patto di genere = patto dell’origine] è la nostra differenza femminile. Riconoscendo l’altra come donna, posso riconoscere anche me stessa come radicalmente diversa da un uomo [ma la differenza femminile qual è? Quella tra donne o quella tra uomo e donna? Quella data in origine o quella “scoperta” con il riconoscimento del simile? Scusi se mi permetto di cercare di capire, è un vizio, ma ho promesso di smettere, prima o poi]. Il pluralismo e la trasversalità politica, che in alcuni casi, come in quello della lotta per la rappresentanza, sono una strada obbligata, sono solo l’aspetto esteriore del patto di genere, che è ben altro [va bene, ma non lo stava definendo? Poi è ben altro rispetto a cosa, al pluralismo? Quindi la differenza non è il pluralismo? Definiamo qualcosa chiaramente, per favore, invece di mettere in mezzo altre parole?].
La cosa che fa più male a noi donne non è il conflitto politico, che è ovvio e necessario, ma il fatto che molte siano più fedeli agli uomini che al loro genere, e quindi a loro stesse. Che lavorino con le donne ma siano pronte a smobilitare rapidamente per rispondere al padre e compiacerlo. Questo è ciò che complica enormemente le nostre relazioni politiche, non il fatto che, poniamo, la si vede diversamente sulla legge 40 o sulla riforma del lavoro [E qui, più o meno, possiamo anche essere d’accordo: il sessismo è trasversale ai generi, lo diciamo da molto. Rimane da chiedersi come uscire da questa situazione senza continuare a replicare uno schema violento].
“Protette” dal legame con l’origine, potremo confliggere più agevolmente [evitare di confliggere proprio no, eh? Vabbè]. Potremo convergere su alcune questioni, come capita facilmente in tema di violenza sessista o anche di salute, o sul valore politico della cura, e divergere su altre. I rapporti con la nemica [niente, non ci sono altre possibilità, è nemica pure dopo il patto, pazienza] non saranno più devastanti, perché la riconosceremo come possibile alleata in altre circostanze [ma smetterla con questo linguaggio militare no? O nemica o alleata, a seconda delle circostanze? Usare questo linguaggio non è perpetuare la cultura che lo ha creato e lo usa? E poi, conta solo l’utilità delle possibili altre cirtcostanze? E l’origine?]. Come dice Simone Weil, ci si potrebbe associare e dissociare “secondo il gioco naturale e mobile delle affinità…”, e questo sarebbe già uno straordinario cambiamento della politica, perché è certo che noi vogliamo andare lì per cambiarla [Terragni, quelle sole otto parole di Simone Weil spazzano via tutto quello che ha detto finora. Non sarebbe stato meglio fare un post per sciogliere il significato che in quella bellissima frase hanno le parole “gioco”, “naturale”, “mobile” e “affinità”? E tentare di fondare su quelle un modo di parlare, stare insieme e creare una politica? Invece abbiamo letto di patti, annientamenti, nemici, vittorie, conflitti, errori – sembra di leggere Von Moltke. Mi scusi, ma preferisco Simone Weil].
Oggi c’è di sicuro un livello minimo che tiene insieme tutte le nostre differenze, un comune denominatore da cui partire per costruire un’agenda politica. Lo direi sinteticamente in due punti: riportare la vita al primo posto, ed essere lì a tenercela [la vita? Un qualunque maschilista potrebbe risponderle che anche lui, col patto della minchia, mette la vita al primo posto, e se la tiene. Mi sa che i problemi sono altri, tra cui il modo di esprimersi e di far circolare le idee].
E’ di qui che si deve partire [ciao].
Sono io, Caterina, che la ringrazio per avermi fatto scoprire in questa occasione la sua sensibile attenzione a “un modo di accostare le parole e le parentesi un tantino aggressivo”; che sempre in questa occasione le “ricorda molto quello usato dai soliti maschilisti nel mettere al loro ‘posto’ le femmine”. E’ esattamente quello che mi aspetto da chi apprezza quel linguaggio di Marina Terragni: essere attenti e sensibili a certe cose solo in certe occasioni.
Mi scuso se ho usato un “tu” che lei non accetta e un codice comunicativo che non sa interpretare. Dato che si è ripromessa di non “osare commentare qualcosa di diverso” dalla Terragni, queste incomprensioni non accadranno più.
Sig. Gasparrini, chiedo scusa se per ingenuità o distrazione ho scritto ‘femministe a sud’ anzichè ‘femminismo a sud’, non volevo sminuire nulla e non c era nessuna cattiva intenzione, creda. Il mio commento mi sembra abbastanza garbato ma forse per lei non è stato così perchè altrimenti non mi spiego l’attenzione con la quale lo ha prontamente ‘decostruito’ anche un po’ deridendomi. Seguo con costanza le questioni che riguardano le donne, e mi reputo una femminista con anche un certo orgoglio. Nel rispondermi ha usato un modo di accostare le parole e le parentesi un tantino aggressivo che le dirò mi ricorda molto quello usato dai soliti maschilisti nel mettere al loro ‘posto’ le femmine. La faccina sorridente finale non so interpretarla, ma non importa, per non dimenticare da dove sono partita, l articolo della Terragni l ho letto e l ho interpretato a modo mio, forse non dovevo osare commentare qualcosa di diverso da lei, l ho capito tardi e credo che non lo farò più. Grazie della sua considerazione comunque.
Caterina Mion
non sono una cima [non è necessario esserlo, credimi] ma l articolo della terragni l ho compreso abbastanza bene [anche io!], in genere sono sempre d accordo con femministe a sud [e chi sono? Questo collettivo non separatista non potrebbe chiamarsi così, non credi? Un po’ più d’attenzione, su], ma questa ‘decostruzione’ mi sembra un po’ forzata [ti dirò, anche il tuo commento non mi pare la cosa più spontanea del mondo 🙂 ]
‘questo testo non mi ha convinto per niente. Non tanto nelle intenzioni – che comunque non mi sembrano espresse molto chiaramente – quanto nel linguaggio usato per esprimerle’.
non sono una cima ma l articolo della terragni l ho compreso abbastanza bene, in genere sono sempre d accordo con femministe a sud, ma questa ‘decostruzione’ mi sembra un po’ forzata
anche a me ha dato molto fastidio questo testo, che ho letto prima di leggere la tua incisiva (e divertente!) decostruzione… so anche perché, oltre a ciò che tu hai individuato efficacemente… A parte la confusione mentale che traspare dal testo, ciò che mi da fastidio è l’espressione ricorrente “noi donne”. Ho imparato a diffidare sempre di chi dice “noi donne” e “noi uomini”. L’arroganza (e l’errore concettuale) di parlare per tutt*.
Complimenti a Lorenzo per la decostruzione, ma soprattutto… Ma che bella visione cinica delle relazioni!