Chiacchiere per distrazione. Il presente non aiuta le conversazioni intime. Amici che si fa per dire e amiche che si potrebbe essere pure corpi di passaggio. Ci si usa a vicenda per sapersi vivi. Interessi, cultura, tanta cultura, abbiamo finanche la cistifellea istruita, sappiamo dire “in culo al mondo” in mille lingue, produciamo critiche politiche e sociali sull’universo infinito e quando c’è da chiarirsi di che merda è fatta la nostra vita si riesce a malapena a guardarsi dentro le palle degli occhi.
Abbiamo vinto, abbiamo perso, abbiamo combattuto, ci siamo arresi/e. Abbiamo vissuto, credo, e viviamo ancora, ma non sappiamo raccontarcelo perché la malattia della vita stra-perfetta ha preso pure noi. Allora meglio incontrarsi per fare analisi sull’esistente che su l’esistenza, meglio ricordare gesta militanti invece che portare in superficie il pettegolezzo. Che ti credi? Lo sappiamo tutti ciò che sei, dove lavori, se non lavori, se dormi in giro e non è che la tua precarietà è più figa se la trascorri in un centro sociale invece che a casa dei tuoi. Almeno parlarne, però, tra una serata del sabato sera e un appuntamento per produrre il documento programmatico.
Lo vedo negli occhi dei miei amici quanto ci sentiamo soli, quanto si sfugge ogni relazione intima e ci si ritrova in due a vivere patti di solidarietà reciproca, chiamiamoli legami, non sono più fidanzamenti, convivenze, chi lo sa, probabilmente è amore, ma fuori dalla cerchia, quella in cui tutti sembrano vestiti uguali, in cui anche il figlio di papà ha la maglietta slabbrata, in cui la ragazza “bene” scesa in periferia a far la tesi universitaria sulle militanze inquiete ha il pearcing ribelle, è importante portarci dietro quella fighitudine, rimuovendo l’espressione della disperazione ed evitando di parlare delle cose vere.
Le lotte, lo so, sono importanti, ma se le lotte non le fai a partire da te, dal personale che si fa politico, da dove parti? Di che ti occupi? Di che stiamo parlando? E la difficoltà a chiarire cosa sei la vedi anche in quei contesti dove l’esclusione sociale dovrebbe essere bandita, perché si parla poco, ci si dice nulla, si ragiona d’aria, ci si perde in chiacchiere e nel frattempo la precarietà consuma le nostre vite e le famiglie chiedono “cazzo ci fai in quel posto autogestito? a fare che? mica ti pagano…”. Non puoi capire, babbo, non puoi capire, mamma, io sto salvando il mondo. E’ quel mondo che non si sogna di salvare me.
Non so. A momenti mi sento quasi persa. Ci sono quegli amici che rientrano nel privato. Solitamente hanno bisogno di riflettere, dotarsi di strumenti. Raramente senti quelli che ti dicono che non hanno neppure la benzina per venire in culo al mondo dove c’è l’occupazione.
Ce l’hai una sigaretta? E no, mio caro, ho smesso per miseria, ed è una cosa buona non fosse che ho dovuto rinunciare a un paio di pasti al giorno. Quella frugalità “sovversiva”. La pasta come unico sostegno. I sughi fatti d’aria. Il vino di taverna. E ci sei tu. Ci sono io. E nei tuoi occhi vedo comprensione. L’unico grammo di comprensione militante. Degli altri chi lo sa. Alla fin fine se ne fregano. Se non li cerco non mi cercano. Se non li chiamo non mi chiamano. Se non esisto non gliene fotte un cazzo.
Poi dicono che la famiglia serve poco. E in effetti è un vincolo. Una cosa che ti tiene in ostaggio. Ma il punto vero è che tu sei ostaggio di una grande solitudine, di una reale assenza di relazioni sociali, intime, in cui ci si dice tutto, in cui non si deve recitare alcun ruolo, perché se così non è si torna a casa, a guardare il padre con cui si passa il tempo a bestemmiare, la madre con la quale non si va d’accordo, fratelli, sorelle, familiari sparsi con cui non si riesce neppure a comunicare.
Il punto vero è che fin quando non abbiamo coraggio e forza di spostare le discussioni su di noi, tutto ciò che troveremo sarà una nuova ragione per sentirci soli e per ricorrere ai legami di cui disponiamo, quelli che ci danno riparo quando non possiamo pagare l’affitto, quelli che volente o nolente, sorretti da una retorica moralista e reazionaria, ché altrimenti avrebbero il coraggio di mandarci a fare in culo, non ci negano un piatto di pasta.
La precarietà è infinitamente tragicomica perché svela meccanismi sociali di una contraddizione assurda. Noi siamo espressione di autonomia mentale, talvolta fisica, raramente economica. Quello di cui non parliamo è l’autonomia affettiva, il bisogno di sentirci compresi, voluti, amati. Precariamente siamo scissi da noi stessi mentre evitiamo di intrecciare relazioni. Mentre fingiamo relazioni dove ci sono opportunismi. Dove non c’è reale comprensione. Dove ci siamo solo noi, precari, precarie, consumati, alla ricerca di respiri.
Va bene, si, babbo. Domenica vengo a mangiare da te.
Che cose vere e sacrosante che dici!
Ho sempre pensato che fare autonomia sia proprio agire nel senso che dici; ci metto anima e core, ma è così difficile…..
Ma cercherò di proseguire con questo modo che racconti, che è la vera maniera di essere Autonomi (Compagni/e) secondo il mio giudizio…..
un abbraccio sorelle carissime e compagne stimatissime; è bello fare i conti con voi.
Nik’66.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/02/10/femministe-diffidare-dalle-imitazioni/91262/
Posso venire anche io?