Sapete cos’è il duck test? Qui c’è spiegato cos’è. E’ un giochetto logico molto seplice per definire e accertare la natura di un fenomeno, a prescindere da come si chiama o da come viene presentato. Ci sarà utile più avanti, per ora basterà tenere a mente questo: se un animale “sembra un’anatra, nuota come un’anatra e starnazza come un’anatra, allora probabilmente è un’anatra”.
Siccome giorni fa s’è fatta una certa polemica sulle liste di CPI, su quelli che li sdoganano e quelli che no, sul libro di Di Nunzio e Toscano, e su tante altre cose si sono lette e scritte chiacchiere più o meno sensate, mi sono preso un po’ di tempo per leggere e per scrivere, così mi sono chiarito le idee. Andiamo con ordine.
Ho comprato il libro di Di Nunzio e Toscano, e me lo sono letto con attenzione. Quindi posso rispondere a una prima domanda: cos’è questo libro?
Bene, questo libro è una ricerca di sociologia sull’immagine che CPI ha di sé, svolta attraverso l’osservazione partecipata delle attività di CPI e intervistandone numerosi membri. Ripeto: due ricercatori di sociologia hanno scelto i loro strumenti di ricerca e hanno svolto (a loro spese, sia chiaro) un lavoro strutturato e analitico su CPI, scrivendo in questo testo le premesse metodologiche, lo svolgimento e i risultati del loro lavoro; hanno anche aggiunto un capitolo dedicato ai suoi limiti e uno, diciamo così, relativo alle “circostanze” che li hanno spinti a intraprendere questa ricerca.
Quindi il libro si presenta proprio come il lavoro scientifico che è: prefazione di un autore dello stesso settore ma più noto ed esperto; ringraziamenti; introduzione con spiegazione dei perché e i percome della ricerca; capitoli di svolgimento; capitolo finale di conclusioni, osservazioni metodologiche e risposte preventive ad alcune ovvie obiezioni; bibliografia; illustrazioni. Tutto questo ci permette prima di tutto di dire con certezza cosa questo libro non è: non è un’inchiesta (non va a fondo, non inganna il suo interlocutore/oggetto, non svela retroscena, non sottopone a critica ciò che viene riportato dai soggetti in esame, non ricostruisce i fatti da diverse prospettive), non è una critica (non c’è comparazione né decostruzione del materiale raccolto e presentato), non è una analisi del fenomeno studiato (non ci sono ricostruzioni storiche né analisi delle condizioni nelle quali il fenomeno è nato; non ci sono immaginati possibili scenari futuri).
In questo senso, il libro è molto onesto: non c’è nulla in più di quello che dice la quarta di copertina (per una volta!), e l’unica cosa che non dice è quanto sia noiosa la lettura. Trattandosi di una ricerca di sociologia, non è che la trama sia avvincente: proprio come vi aspettereste, ci sono le note bibliografiche, i rimandi ai testi di riferimento, le spiegazioni su come sono state condotte le interviste, insomma tutta la noiosa tiritera di un lavoro accademico, niente di più e niente di meno.
Io credo che quando si è in presenza di fastidiosa merda, parlare della merda e del perché ce n’è così tanta non voglia dire avallare la sua esistenza, né favorirla. Siccome comincio ad avere una certa, e siccome è la terza generazione che vedo imbattersi in una sua particolare versione della merda, a me non dispiace affatto se qualche volontario fornisce degli strumenti per conoscere meglio quella merda e capirne qualcosa in più. Mi sono imborghesito? Sono meno antifascista di prima? Non credo proprio. Però mi piace chiamare le cose col loro nome, anche se si presentano in maniera ambigua e anche se dicono di sé cose diverse da quelle che appaiono. Quindi arriviamo alla seconda domanda che mi sono fatto: questo libro è uno sdoganamento di CPI?
Allora, per rispondere a questa domanda, applico il “duck test” (non ve lo siete dimenticato, vero?), cioè prendo la definizione di sdoganare e vedo se quello che m’interessa identificare corrisponde alle caratteristiche della definizione.
Il libro riabilita, riscatta, da’ nuova legittimazione a CPI? Direi di no; si limita a presentare l’immagine di sé di CPI, e l’immagine che ne conoscono – e ne danno – i suoi membri, mostrando quelle caratteristiche culturali e politiche grazie alle quali si può decidere di legittimare o meno CPI. Il libro rende socialmente accettabile un comportamento precedentemente condannato e/o censurato? Direi di no, anzi in questo caso il libro fornisce gli elementi necessari a decidere – forse definitivamente? – quale dovrebbe essere l’atteggiamento sociale da tenere nei confronti di CPI. Ma sui contenuti torneremo più avanti.
Ripensando a quanto successo nei giorni scorsi, è facile però continuare con il nostro piccolo test ed applicarlo ad altre cose riguardanti il libro e la polemica su CPI. Per esempio:
– questa intervista agli autori, intitolata in questo modo, è uno sdoganamento, perché dell’articolata risposta viene estrapolata come titolo una frase presa come “succo” del discorso – mentre basta leggere per capire che la sostanza è un’altra – ottenendo in questo modo una “redenzione” mediatica indistinta da colpe a loro volta poco chiare e indistinte. Il tutto a scapito di ciò che cerca di dire uno degli autori del libro, che non è facile né riassumibile in uno slogan, come invece fa il titolo.
– Presentare il libro nella sede CPI è uno sdoganamento, come suggerisce in questo post Il Corsaro; perché l’evento ha luogo in un modo e in un contesto che viene usato come modalità socialmente accettabile non del libro, che è il contenuto dell’evento, ma della sede CPI, che è il contenitore dell’evento. Questo “piccolo” particolare, questo sottile slittamento di senso, fa la differenza tra ciò che non è sdoganamento – il libro – e ciò che lo diventa – parlarne in un determinato luogo e in un determinato modo.
– Allo stesso modo, tutti gli eventi – lo scrivo ancora per farlo notare ai giornalisti militanti e con tanti anni di esperienza: eventi – ricordati in questo post di FaSud sono sdoganamenti. Lo sono, senza dubbio in modo diverso e con modalità più o meno appariscenti (ad esempio, alcuni di questi eventi sono stati strumentalizzati, distorcendone il messaggio politico, ed altri solo pubblicizzati); ma tutti in qualche modo hanno contribuito con il loro semplicemente “essere accaduti” a leggere il fenomeno CPI in maniera acriticamente positiva, o comunque coerente con la stessa immagine di sé che diffonde acriticamente CPI.
E questo è semplicemente incredibile nella sua superficialità, perché in questo modo esponenti di diversissimi orientamenti politici hanno ottenuto uno stesso risultato: ciò che, in un indistinto “prima”, è stato condannato nella politica fascista, viene adesso accettato in nome di quei principi democratici che il fascismo stesso contribuisce, in ogni sua forma, a distruggere. Se non è uno sdoganamento questo, niente lo è.
– Come ulteriore riprova di tutto ciò, sta il fatto – mai abbastanza ripetuto, in quelle polemiche – che la lista di persone definite sdoganatori è stata fatta e pubblicata in primo luogo da CPI, con un rarissimo esempio di autosdoganamento. Davvero inquietante, ma molto istruttivo, è stato vedere come molte di quelle persone non avessero avuto nulla a che ridire su quella prima lista ma si siano, a dir poco, dispiaciute di vedere i loro nomi ripetuti da FaSud con la qualifica di sdoganatori di CPI.
Ora, a me pare piuttosto ovvio che se nel battermi per salvaguardare un principio democratico io mi trovo a dar man forte a chi la democrazia la vuole distruggere, le cose sono tre: o sono un totale ingenuo e/o superficiale e metto il mio nome dove capita, o devo rivedere il mio concetto di democrazia, o devo rendermi conto che dai diritti democratici devono essere esclusi quelli che ne minano le basi sociali e politiche: i fascisti, in ogni loro forma ed espressione.
Ed eccoci al terzo quesito, che ci fa entrare direttamente nei contenuti del libro di Di Nunzio e Toscano: come si riconosce un fascista, un atteggiamento fascista, un comportamento fascista, una pratica fascista, una estetica fascista? CPI è fascista? Di nuovo ci occorrerà ricordarci del semplice meccanismo del “duck test”. Cominciamo.
Il capitolo 1 ricostruisce la storia della “nascita” di CPI, quale espressione di una forte esigenza “culturale” che i tradizionali partiti di destra (dall’MSI alle sue successive trasformazioni di nome e di sostanza) non hanno mai accontentato. A queste attività si aggiungono le occupazioni, particolarmente “spettacolari” e pubblicizzate a Roma dove l’emergenza abitativa è molto sentita (nel 2009 sono stati emessi in media 25 sfratti al giorno; un numero senza paragoni con qualunque altra città italiana). E’ l’onda lunga del “dopo Fiuggi” ad alimentare le iniziative delle formazioni di destra che non accettano la svolta verso AN; segno che è proprio chi non accetta l’abbandono del legame storico col fascismo (la “svolta” di Fini nel ’95) a cercare altre aggregazioni, altri simboli, altre identità politiche. Da questi movimenti nasce CPI; il primo indizio che CPI sia una formazione politica fascista è decisamente forte.
Il capitolo 2, “I discorsi e le proposte”, non comincia bene – sempre alla luce del nostro duck test. A p.40 il rapporto tra Stato e cittadini è esplicitamente e idealmente paragonato a quello di un padre con i propri figli: conseguentemente, gli scopi sociali dello Stato devono essere, su larga scala, quelli familiari (!), e ovviamente i propri figli vengono prima di quelli altrui. Passaggio importante, quest’ultimo, perché associato alla presa di posizione politica nei confronti della globalizzazione: l’italianità dev’essere difesa dallo Stato, contro ogni tipo di omologazione, per puntare a un federalismo dei popoli che si opponga anche alla omologazione economica (pp.45-50). Beh, se non è fascismo questo, non so cosa lo sia. Infatti certi nodi vengono al pettine sul tema immigrazione e priorità dello Stato: “Prendiamo il caso del diritto alla proprietà della casa, che è universale, ma devono esserci delle priorità. Quello che avviene oggi è – di fatto – che questo diritto non è riconosciuto a tutti, ma solo alle fasce più deboli [..] gli immigrati. Uno Stato deve avere delle priorità: devono prima essere garantiti i cittadini italiani, e poi ben vengano anche gli altri” (p.52). A me questa pare xenofobia. Anche se i militanti CPI dicono che “la razza per noi è nello spirito” (p.54), sempre una razza c’è: da una parte i cittadini italiani, gli altri fuori. Non è che conta il principio per cui fai distinzioni; non importa il motivo per cui non dai a tutti gli stessi diritti. Se non li dai a tutti, sei fascista, punto e basta, in una delle sue varianti xenofobe, razziste, o di censo.
A proposito di censo e proprietà, la questione del “mutuo sociale” è uno dei più diretti legami con l’ideologia fascista. Come giustamente sottolineano Di Nunzio e Toscano (pp.55-56), il concetto di diritto “alla proprietà” della casa è preso direttamente dal Manifesto di Verona del ’43 e presentata da CPI come proposta di legge regionale e municipale. Per questo ciò che distingue le occupazioni di CPI da quelle attuate dai centri sociali proprio il fatto che le prime mirano non a un “canone sociale” equo da pagare per l’uso dell’abitazione, ma al vero e proprio riscatto della sua proprietà. In questo senso, l’occupazione è per CPI una affermazione di sé (nel doppio senso individuale e comunitario) che corrisponde a una elevazione sociale, a una vera e certa esistenza nel tessuto sociale e politico. Il legame storico con un dispositivo di legge della Repubblica di Salò non lascia dubbi sull’identificazione fascista di questo tipo di rivendicazioni.
Anche il tanto sbandierato progetto “Tempo di essere madri” è chiaro riguardo la sua matrice storico-politica. Se anche le regolamentazioni proposte possono sembrare interessanti e finalmente votate a ottenere la possibilità di accudire i propri figli senza rischiare il proprio posto di lavoro (o mantenendo la possibilità di ottenerne uno), ciò che tradisce la matrice fascista è lo scopo dell’iniziativa: aumentare il tasso di fecondità degli italiani, perché la scarsa natalità è vista come un assoggettamento ad una economia globalizzata che svilisce e rende impossibili le scelte individuali, altrimenti dirette senz’altro verso la procreazione (p.58). Non è difficile, anche in questo caso, trovare un precedente movimento politico che in Italia misurasse la “forza” dei cittadini e il loro peso politico dal loro numero, e che perciò agevolasse le famiglie numerose.
Il capitolo 3 esemplifica in pieno il concetto di “cameratismo” – raramente pronunciato come tale – declinato oggi da CPI contro il mondo culturale dell’omologazione e delle ideologie; per CPI esiste solo l’espressione personale che si identifica con quella della comunità, in modo che ciascuno dei due si identifichi nell’altro. Inneggiando a una esistenza “non conforme”, i membri di CPI si identificano con CPI stessa, le gerarchie sono ripettate e all’insegna del carisma – cioè non sono minimamente codificate e sono conquistate sul campo dell’esperienza, delle iniziative. Queste ultime sono politicamente declinate, secondo il loro rapporto con la violenza, all’insegna del “non un passo indietro” (p.83): “CPI fa politica, non teppismo. Non è interessata a mostrare i muscoli. Vuole la forza tranquilla. Ma allo stesso tempo non può permettere che chicchessia ne contesti la legittimità ad agire e a esistere” (p.82, dal loro sito web). In un mondo nel quale c’è sempre più bisogno di accoglienza, farsi da parte per lasciare spazio ad altri, CPI si fa forte proprio del suo non muoversi, del suo usare la violenza allo scopo “difensivo” di imporsi senza discussioni. Che il resto degli attori politici la accetti o meno, CPI si conferisce da sola il diritto all’esistenza: è l’esemplificazione del fascismo – come loro stessi ammettono, rifacendosi esplicitamente allo squadrismo diciannovista (p.85) e il suo intento di “liberare” (!). Ed è sempre CPI nel suo complesso a decidere l’uso dello strumento della violenza, per la sua stessa sopravvivenza politica: mentre i fatti di Piazza Navona sono un esempio da emulare, l’appartenenza di singoli violenti è negata o comunque non difesa di fronte a responsabilità precise. La continua e latente contraddizione tra espressione della volontà del singolo e i limiti dell’azione di gruppo non è neanche mascherata: tutti i membri di CPI si sentono liberi nell’esprimere la volontà collettiva, che è anche la loro (p.76). Come se fossero la stessa cosa – come se questo non fosse l’ideologia fascista. Mah.
Il capitolo 4 è dedicato alle componenti più “teoriche” della vita all’interno di CPI, nelle sue dimensioni storiche, organizzative, comunicative. Dal punto di vista storico CPI si richiama esplicitamente al fascismo (pp.90-94) applicandone una delle “trovate” politiche e propagandistiche più efficaci: il cambiamento del lessico. CPI fa sparire ogni precedente concettualizzazione dei suoi membri, “per ridefinire le categorie che hanno costruito il proprio percorso politico, sociale e, più in generale, esistenziale” (p.88). Il risultato di questa incessante attività autocritica è che non c’è più “il cameratismo”, ma “la comunità”; non c’è più l'”ideologia” ma la “visione del mondo”; né “destra” né “sinistra” ma “estremo centro alto” (p.94-102). Sulla base di questa ripulitura del vocabolario e delle idee, per CPI è possibile porsi (con la solita fermezza del “non un passo indietro”) in quello che Di Nunzio e Toscano chiamano “il confronto libero con la sinistra” (pp.102-104) che consiste in eventi ospitati dalla sede di CPI a Roma. Su cosa significhino questi eventi abbiamo già detto sopra: ospitando persone, temi, occasioni che sarebbero classificate come “di sinistra”, CPI ottiene la consacrazione di “spazio di libertà” (p.104). Peccato che lo scopo dichiarato, “superare l’antifascismo come categoria di pensiero”, a questo punto non si capisce a che cosa servirebbe: se CPI non è fascista nel suo senso partitico e storico – come si dichiara – perché s’interessa tanto a superare l’antifascismo? Ma se la sua matrice storica, come dichiarano, è quella della “visione del mondo” fascista, allora come pensano di evitare l’antifascismo senza spiegare perché quest’ultimo non sarebbe anch’esso una “visione del mondo”? Mettiamo da parte anche questo punto per la nostra anatra finale.
L’ultimo paragrafo del capitolo 4 è dedicato alla presenza e alle strategie attuate da CPI nello spazio dell’informazione. Il compito, manco a dirlo, è difensivo e non offensivo: cambiare la tradizionale immagine di movimento violento di destra. Questo compito è affrontato in due modi: con la presenza nelle più svariate forme di linguaggio ed evento comunicativo (radio, etichete musicali, forum, grafica, blog, social network) e l’uso dei normali canali mainstream forzandone a proprio vantaggio i codici, “secondo l’idea del politainment, ossia l’inserimento di temi politici in prodotti della cultura pop” (p.109). Vi ricordate di un altro movimento politico che fece della sua massiccia presenza in ogni aspetto della vita popolare – giornali, radio, attività sportive e ricreative, associazionismo in genere – il suo strumento di diffusione e controllo, gettando le basi di quello che oggi chiamiamo guerrilla comunicativa? Io sì. E anche voi. Oggi lo chiamano “squadrismo mediatico” (p. 109), una volta c’era il Minculpop.
Nel capitolo 5 gli autori sottopongono ai membri di CPI domande sul loro concetto di democrazia, ed esplorano i contenuti disponbili nell’ “Ideodromo” (sic) di CPI. Per CPI la libertà individuale non è affermazione dei diritti, ma la definizione stessa di Stato: “il massimo di libertà individuale coincide con la massima presenza di uno Stato forte. Io individuo massimamente libero coincido con lo Stato che non è oppressivo perché esatta espressione di ciò che voglio” (p.118). Non ci vuole molto a capire che l’unico stato possibile, per CPI, è quello nel quale tutti hanno la stessa volontà; e a casa mia, questo si chiama fascismo. Eppure CPI mal sopporta l’idea di uguaglianza (pp.119-120), perché troppo vicina all’omologazione e poco adatta a supportare la comunità che è sempre il riferimento più importante. Continuando con l’opera di aggiornamento del lessico, poi, CPI rifiuta l’idea di solidarietà tipica delle democrazie occidentali (il “mezzo per dare a ognuno l’autonomia e la sicurezza senza le quali non può costituirsi in Soggetto”, p.114) per un non troppo definito “solidarismo” che consisterebbe in un “sentirsi parte di una comunità, di uno stesso popolo”, “che ha in sé la dimensione attiva e propositiva”. Il quadro contraddittorio è completo: il militante di CPI “è spesso convinto di essere il controllore della propria esperienza, di vivere in sintonia con le proprie scelte, e di essere un soggetto consapevole del senso dato al proprio impegno. Allo stesso tempo, però, vi è la sottomissione alla legge de gruppo e alle sue norme che non è messa in discussione, ma accettata consapevolmente” (p. 122).
A me tutto questo basta, per riconoscere un’anatra. CPI sembra fascista, parla come un fascista, si muove come un fascista: evidentemente, è fascista. Sì, lo so che c’è la legge Scelba; e so anche che tanto non è mai applicabile. Comunque, il fascismo di CPI – storico, retorico, estetico, politico – resta evidente.
Ah, sono io a confonderli. Interessante.
tu confondi i diritti fondamentali con i diritti di cittadinanza che sono due cose completamente diverse.