Segnaliamola pubblicazione del saggio “Il riconoscimento giuridico dei concetti di femmicidio e del femminicidio” di Barbara Spinelli contenuto nel volume “Femicidio: dati e riflessioni intorno ai delitti per violenza di genere”.Tanto il volume quanto il saggio sono scaricabili online in formato pdf qui:
http://gdcedaw.blogspot.com/2011/11/il-riconoscimento-giuridico-dei.html
Pubblichiamo su sua autorizzazione il contributo di Barbara in basso.
Chi ancora si trovasse a Bologna tra domani e dopodomani, segnaliamo tre dibattiti, il cui programma è consultabile qui:
http://femminicidio.blogspot.com/
22.11.2011, h. 14,30, via Aldo Moro 30 (Regione Emilia Romagna, Aula Magna): Presentazione del volume “Femicidio. Dati e riflessioni intorno ai delitti per violenza di genere”
23.11.2011, h. 15,00, via Marconi 67/2 (Camera del lavoro, 3 piano), Presentazione del libro “Hina. Questa è la mia vita. Storia di una figlia ribelle”
23.11.2011, h. 19,00, via del Piombo n.7 (CDD), Dibattito “L’attivismo femminista e la promozione dei diritti delle donne”. Aperitivo + Presentazione del Rapporto Ombra sull’implementazione della CEDAW in Italia
Buona lettura!
IL RICONOSCIMENTO GIURIDICO DEI CONCETTI DI FEMMICIDIO E FEMMINICIDIO
Contributo dell’ Avv. Barbara Spinelli pubblicato in AA.VV., “Femicidio: dati e riflessioni intorno ai delitti per violenza di genere” Regione Emilia Romagna – Assessorato Promozione Politiche Sociali, A cura di C. Karadole e A. Pramstrahler, 2011, pp.125-142
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I. Femmicidio e femminicidio: dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico nazionale ed internazionale. II Il Femmicidio e femminicidio entrano nei codici penali nazionali. III. Il femminicidio è una violazione dei diritti umani delle donne. Il riconoscimento del femminicidio nel diritto internazionale umanitario: la rivoluzionaria sentenza “Campo Algodonero”. IV. L’obbligazione degli Stati di proteggere le donne dalla violenza di genere: le ripercussioni della sentenza “Campo Algodonero” sugli ordinamenti nazionali, sull’ordinamento comunitario e in Italia. Prospettive e conclusioni.
I. I neologismi “femicide” e “feminicidio” nascono con una valenza spiccatamente politica: dare un nome alle uccisioni e violenze nei confronti delle donne “perché donne”, e renderle visibili in quanto tali .
I due concetti di femmicidio e femminicidio hanno assunto immediatamente rilevanza scientifica quali categorie di analisi socio-criminologica , in quanto oltre ad evidenziare la natura di genere che connota la maggior parte dei crimini contro le donne, li analizzano e li classificano in quanto tali . Ciò ha consentito, come fu in passato per le violenze sessuali, il ribaltamento di consolidati stereotipi e luoghi comuni concernenti la violenza degli uomini sulle donne.
Emblematico (oltre che “esperienza pilota”) è il caso delle indagini svolte in Messico dalla Commissione Speciale parlamentare sul femminicidio, nominata e presieduta da Marcela Lagarde. La Commissione ha rielaborato, per un arco temporale di dieci anni, le informazioni reperite presso varie istituzioni (procure generali, ONG, istituzioni di donne, Corte suprema, organizzazioni civili, giornali, INM, INEGI), verificando che l’85% dei femminicidi messicani avviene in casa per mano di parenti, e concerne non soltanto donne indigene ma anche studentesse, impiegate, donne di media borghesia. Per ogni Stato si è tenuto in considerazione non solo il dato risultante dall’indagine empirica e dalle analisi fornite dalle fonti ufficiali, ma anche la situazione legislativa, le misure adottate per il contrasto alla violenza di genere, la presenza sul territorio di progetti indirizzati alle donne o di centri antiviolenza. Tale comparazione ha consentito di verificare che il 60% delle vittime di femminicidio aveva già denunciato episodi di violenza o di maltrattamento.
Gli esiti delle indagini sul femmicidio e sul femminicidio, condotte sull’esempio del Messico in numerosi altri stati latinoamericani, hanno reso quindi possibile evidenziare la natura strutturale della discriminazione e della violenza di genere, e di conseguenza la responsabilità istituzionale per la mancata rimozione dei fattori culturali, sociali ed economici che la rendono possibile.
Il percorso messicano e degli altri paesi latinoamericani di riconoscimento del femmicidio e del femminicidio ha evidenziato come “nominare” gli atti estremi di violenza di genere abbia determinato l’insorgere di una consapevolezza nella società civile e nelle Istituzioni sulla effettiva natura di tali crimini, che a sua volta ha reso possibile una maggiore conoscenza del fenomeno attraverso la raccolta di dati statistici e la predisposizione di accurate indagini socio-criminologiche.
Di conseguenza, la profonda conoscenza delle dinamiche socio-culturali, politico-giuridiche ed economiche che favoriscono ovvero inibiscono il femmicidio/femminicidio ha reso possibile l’emergere di istanze di riconoscimento anche giuridico di tali categorie.
Le esperienze di Messico e Guatemala, ad esempio, dimostrano che già in una prima fase di sensibilizzazione da parte del movimento femminista sul femminicidio, il carattere scientifico e la natura spesso ufficiale delle indagini hanno determinato un forte impatto dei risultati sulle politiche e sulle riforme legislative sollecitate o in atto in quei paesi in materia di violenza di genere. Le ONG e il movimento femminista attivo sui territori hanno promosso e utilizzato queste indagini per la propria attività di lobby.nei confronti dei Governi, ma anche per evidenziare, sulla base dei dati raccolti, la responsabilità dello Stato nel momento in cui non è in grado di garantire il diritto delle donne all’integrità psicofisica ed a vivere con sicurezza e dignità nella propria comunità, per l’inefficacia dimostrata nel prevenire, perseguire, e punire ogni forma di discriminazione e violenza di genere.
Infatti la discriminazione e la violenza di genere costituiscono, in maniera diversa, violazioni dei diritti fondamentali delle donne e delle bambine, delle quali lo Stato si rende complice o responsabile attraverso la propria azione o inazione.
La rivendicazione del femmicidio e del femminicidio come violazioni dei diritti fondamentali delle donne “in quanto donne” hanno determinato da un lato quel processo di internazionalizzazione delle istanze di giustizia per i crimini contro le donne, già avanzate a livello locale, ben descritto nel mio libro , dall’altro una pressante richiesta di codificazione interna del reato di femmicidio/femminicidio , che, nei Paesi latinoamericani, è funzionale ad una precisa esigenza di adottare una “misura speciale temporanea” capace di fungere al contempo sia da deterrente all’impressionante numero di uccisioni di donne in quanto donne sia da risarcimento simbolico al disinteresse storico del sistema giuridico per la protezione della vita e dell’integrità delle donne.
II. Il femmicidio e il femminicidio sono due concetti entrati con prepotenza nel dibattito giuridico nazionale della maggior parte dei Paesi latinoamericani, non senza resistenze di carattere ideologico da parte dei giuristi, secolarmente abituati ad un linguaggio e ad una codificazione “neutrale”.
In Costa Rica ad esempio – il primo Paese in cui fu presentata un’iniziativa legislativa volta a tipizzare il delitto di femmicidio, nel 1999 – la proposta fu tacciata per incostituzionale e discriminante nei confronti degli uomini. Anche se la Corte Costituzionale si pronunciò in senso contrario a tali accuse, il disegno di legge subì tali e tante modifiche sostanziali che, di fatto, la definizione di femmicidio fu di fatto “neutralizzata” rispetto alla versione originaria.
Se in Costa Rica la proposta di codificazione del reato di femmicidio nacque dai gruppi femministi e fu ampliamente dibattuta sui media e in ambito accademico, appoggiata da una marcia di più di cinquemila persone e dal Governo in carica, per il Messico e per il Guatemala invece, dove le attiviste erano già in stretto contatto con le istituzioni nazionali e regionali a tutela dei diritti umani , L’indicazione di inserire nella legislazione nazionale il femminicidio come reato è arrivata direttamente dal Comitato per l’attuazione della CEDAW , il quale, nelle Raccomandazioni rivolte ai due Stati, li esortava ad introdurre nei propri ordinamenti nazionali il reato di femminicidio.
Attualmente, i Paesi che hanno introdotto nei propri ordinamenti interni il reato di femmicidio o di femminicidio sono Costa Rica, Guatemala, Messico, Venezuela, Cile, El Salvador. Progetti di legge per la codificazione del reato di femmicidio/femminicidio sono stati presentati a Panama, in Argentina, Nicaragua, Colombia, Honduras.
Il bene giuridico tutelato è il diritto della singola donna e del genere femminile ad una vita libera dalla violenza e da ogni forma di vessazione discriminatoria basata sul sesso, e dunque il diritto alla vita ed all’integrità psicofisica, senza discriminazioni basate sul sesso. Emblematico, per capire il contesto in cui sorge l’esigenza di codificare il reato di femmicidio/femminicidio, l’appello dell’ambasciatrice di Amnesty International Hilda Morales ai legislatori per l’introduzione del reato di femminicidio nel codice penale, sulla base del fatto che “il codice penale è una Costituzione in negativo” e dunque si rende necessaria al fine di “garantire l’integrità fisica senza discriminazioni”.
Peraltro, per numerosi dei Paesi che hanno introdotto questo crimine, si trattava della prima forma di legislazione nazionale diretta a sanzionare specificamente la violenza contro le donne, rendendola in tal modo visibile anche per l’ordinamento giuridico.
Tuttavia, la trasposizione dei concetti socio-crimino-antropologico di femmicidio/femminicidio in una fattispecie penale ha sollevato non poche sfide giuridiche connesse all’individuazione delle condotte da incriminare, alla scelta se differenziare il reato di femmicidio/femminicidio rispetto alle altre forme di violenza di genere già tipizzate ovvero considerarlo aggravante di reati connotati perlopiù in maniera neutra dal punto di vista della parte offesa e dell’aggressore.
Ad una prima analisi, le esperienze di codificazione penale si sono rivelate piuttosto insoddisfacenti, da un lato per le difficoltà connesse alla identificazione di condotte sufficientemente determinate e precise, tali da rispettare i principi di tassatività e di legalità, dall’altro per la sostanziale assenza di volontà politica di assimilare in toto negli ordinamenti giuridici una fattispecie non neutra. Tale assenza di volontà politica è risultata decisiva in più occasioni nel vanificare progetti in astratto destinati al successo: anche in presenza di disegni di legge “perfetti”, il dibattito parlamentare e le modifiche apportate da quei soggetti che politicamente non erano pronti ad accettare una modifica del diritto penale inclusiva della differenza sessuale, hanno alla fine privato la fattispecie di ogni consistenza e peculiarità, rendendola quindi di difficile o addirittura inutile attuazione.
Per quanto attiene alla costruzione della fattispecie criminale, si è posto in via principale il problema della delimitazione della condotta punibile.
Se infatti il femmicidio è “facilmente” identificabile nella condotta di chi uccide una donna/bambina/lesbica/transessuale in ragione del suo genere di appartenenza, il femminicidio al contrario include una vasta gamma di condotte discriminatorie e violente rivolte contro la donna “in quanto donna”, che rappresentano una violazione dei suoi diritti fondamentali, in quanto la eliminano fisicamente o annullano la sua possibilità di godere delle libertà concesse invece agli altri consociati (maschi).
Di qui la difficoltà di “formalizzare” giuridicamente la categoria del femminicidio in ambito penale nel rispetto del principio di tassatività.
Rimandando ad altre sedi per un’analisi più puntuale delle legislazioni relative ai singoli Paesi, in questa sede si può brevemente evidenziare che la maggior parte delle legislazioni nazionali ha delineato l’atto femminicida come la condotta violenta di un individuo (o più) nei confronti di una donna o una bambina, spinta da un “odio di genere”. La condotta può inserirsi in un contesto strutturale di discriminazione di genere o di politiche inadeguate per la prevenzione della violenza di genere o di disinteresse per la persecuzione di questo genere di crimini. Per tale motivo, oltre alla condotta del singolo in alcune legislazioni viene sanzionata in forma aggravata anche la responsabilità dei pubblici ufficiali per omissione di atti d’ufficio, per concorso, o favoreggiamento di tali crimini.
III. Come far valere la responsabilità degli Stati per il mancato adempimento delle obbligazioni internazionali di protezione e promozione dei diritti umani delle donne, alle quali si sono vincolati attraverso la ratifica delle Convenzioni ONU e delle Convenzioni regionali (c.d. due diligence obligation)?
Il femmicidio ed il femminicidio, come tutte le forme di discriminazione e violenza di genere, costituiscono la “manifestazione di un potere relazionale storicamente diseguale tra uomini e donne…uno dei principali meccanismi sociali attraverso i quali le donne sono costrette ad occupare una posizione subordinata rispetto agli uomini..” : è evidente quindi che sarà difficile far valere la responsabilità dello Stato se prima non si è agito in maniera sistematica al suo interno per scardinare i meccanismi sociali e di potere che rendono tollerabile la soggezione delle donne ai ruoli tradizionali e la violenza rivolta nei confronti di quelle donne tentano di fuggire a tali ruoli.
Per chiamare lo Stato alla sua responsabilità internazionale occorre, a livello nazionale, evidenziare che l’indifferenza delle Istituzioni per il riaffermarsi di una cultura patriarcale che discrimina le donne, costituisce una inadempienza alle obbligazioni internazionali di promozione di una cultura di genere assunte con l’adesione al sistema giuridico internazionale umanitario (e, per quanto attiene all’Italia, anche per la sua adesione all’Unione Europea). Di qui l’importanza cruciale di declinare in termini di violazione dei diritti umani delle donne le censure mosse politicamente (e giuridicamente) allo Stato, a livello nazionale, per le inadempienze relative alla predisposizione di adeguati meccanismi di prevenzione della violenza sulle donne e di protezione delle donne sopravvissute alla violenza.
Laddove gli stati-nazione non appaiono più in grado di garantire adeguatamente il rispetto dei diritti delle donne, la richiesta di giustizia a livello internazionale, davanti alle Corti per i diritti umani, rappresenta un preziosissimo strumento di pressione sugli Stati stessi e dunque un importante mezzo per richiamare i governi nazionali alle responsabilità assunte sottoscrivendo le Convenzioni Onu e regionali a tutela dei diritti delle donne (per quanto ad oggi resti aperto il problema di come sanzionare adeguatamente gli Stati membri, una volta che questi siano stati dichiarati colpevoli di aver violato i diritti delle donne).
Nell’ambito del diritto umanitario internazionale, i diritti delle donne sono affermati da numerose Convenzione ONU e carte regionali. Tra queste vale la pena di ricordare in questa sede la principale, la Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW) e, a livello regionale, la Convenzione interamericana di Belem do Parà, la Convenzione europea contro la violenza sulle donne, il Protocollo di Maputo aggiuntivo alla Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli.
La Conferenza di Pechino ha sancito ufficialmente che i diritti delle donne sono diritti umani e che la violenza di genere costituisce una violazione dei diritti fondamentali delle donne.
Ne consegue, per gli Stati, l’obbligazione di garantire alle donne una vita libera da ogni forma di violenza, solitamente declinata come “obbligazione delle 4 P”: to Promote, promuovere una cultura che non discrimini le donne, to Prevent, adottare ogni misura idonea a prevenire la violenza maschile sulle donne, to Protect, proteggere le donne che vogliono fuggire dalla violenza maschile, to Punish, perseguire i crimini commessi nei confronti delle donne.
In tema di femmicidio e femminicidio, uno è il caso che ha segnato la storia a livello mondiale: la sentenza “Campo algodonero”, emessa dalla Corte interamericana per i diritti umani in data 10.12.2009 , in occasione del giorno in cui si commemora la firma della Dichiarazione universale sui diritti umani. Per la prima volta nella storia della Corte interamericana, a presiedere l’organo giudicante era una donna, la magistrata Cecilia Medina Quiroga.
Con questa storica sentenza, per la prima volta nella storia del diritto internazionale umanitario uno Stato viene dichiarato responsabile per i femminicidi avvenuti sul suo territorio, e dunque per la prima volta viene riconosciuta una identità giuridica propria al concetto di femminicidio quale omicidio di una donna per motivi di genere . Il neologismo viene utilizzato anche quale simbolo di restituzione al diritto del linguaggio di rappresentazione della realtà di violenza subita usato dalle stesse vittime, a titolo di risarcimento per dare loro quella voce, quel diritto alla parola, la credibilità stessa della loro azione che lo Stato, in violazione dei loro diritti umani, gli aveva sistematicamente negato.
Nell’ambito del procedimento, la madre di Esmeralda Herrera Monreal è stata difesa dalla Asociación Nacional de Abogados Democráticos A.C. (ANAD) e dal Comité de América Latina y el Caribe para la Defensa de los Derechos de la Mujer (CLADEM). La madre di Claudia Ivette González e di Laura Berenice Ramos Monárrez sono state invece rappresentate dalla Red Ciudadana de No Violencia y por la Dignidad Humana e dal Centro para el Desarrollo Integral de la Mujer A.C. (CEDIMAC).
Sono numerose le ONG e gli organismi di tutela dei diritti umani intervenuti nel procedimento davanti alla Corte in qualità di amicus curiae, provenienti da numerosi Paesi del mondo, a testimonianza dell’interesse tanto della società civile quanto del mondo accademico per l’affermazione della responsabilità degli Stati per il mancato adempimento delle obbligazioni in materia di violenza di genere. Alla Corte sono pervenuti ben tredici interventi, sottoscritti congiuntamente da più associazioni.
La Corte interamericana per i diritti umani ha ritenuto responsabile lo Stato messicano responsabile per non aver adeguatamente prevenuto la morte di tre giovani donne, i cui corpi furono ritrovati in un campo di cotone nei pressi di Ciudad Juarez.
La Corte altresì ha ritenuto che i casi individuali di queste tre ragazze, presentati davanti alla Corte dalla Commissione Interamericana per i Diritti umani (CIDH), fossero rappresentativi di una situazione strutturale di violazioni sistematiche dei diritti fondamentali delle donne sulla base del genere di appartenenza. Infatti, nella sentenza si riconosce che la violenza subita dalle donne di Ciudad Juarez fin dal 1993 costituisce una violazione strutturale dei loro diritti umani della quale è responsabile lo Stato messicano.
Lo Stato messicano è stato condannato per aver violato il diritto alla vita, alla integrità psicofisica ed alla libertà delle tre vittime, per aver posto in essere indagini inadeguate, e dunque per aver violato il diritto alla tutela giurisdizionale anche nei confronti delle loro famiglie, per aver violato il diritto delle minori ad avere protezione da parte dello stato , per aver violato il diritto all’integrità psicofisica dei famigliari delle vittime per le sofferenze loro causate e per le pressioni avanzate nei loro confronti. Inoltre, è stato condannato per averle discriminate in quanto donne , nel venir meno al rispetto dell’obbligazione dello Stato di garantire il pieno e libero esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti , che in questo caso sono stati ritenuti violati.
Per tale motivo, lo Stato messicano è stato condannato, al fine di riparare al danno arrecato mediante la violazione dei diritti delle tre giovani e delle loro famiglie, non solo alle vittime ma alle donne messicane tutte, ad adempiere ad una serie di sanzioni imposte dalla Corte.
In primo luogo, la Corte ha sancito che la sentenza, dichiarando la responsabilità dello Stato, per la ripercussione pubblica del suo contenuto costituisce essa stessa una forma di riparazione.
Inoltre la Corte nel dispositivo della sentenza ha disposto che lo Stato messicano:
– provvedesse a garantire un adeguato svolgimento del processo penale in corso relativo ai casi portati davanti alla Corte, assicurando un adeguato contraddittorio, trasparenza e prospettiva di genere nelle investigazioni, pubblicazione delle sentenze;
– provvedesse a garantire di procedere penalmente nei confronti dei funzionari pubblici accusati di aver commesso delle irregolarità nell’ambito delle indagini sui casi delle tre giovani;
– provvedesse a garantire di procedere penalmente nei confronti dei funzionari pubblici denunciati per aver effettuato indebite pressioni nei confronti dei familiari delle vittime;
– pubblicasse la sentenza sulla stampa nazionale e locale;
– riconoscesse, mediante un atto pubblico, le proprie responsabilità internazionali per i fatti relativi al femminicidio delle tre ragazze, in onore della loro memoria;
– costruisse, entro un anno dalla notifica della sentenza, un momento commemorativo delle vittime di femminicidio a Ciudad Juarez, da inagurare con una cerimonia nell’ambito della quale avrebbe dovuto riconoscere la propria responsabilità internazionale;
– predisponesse dei protocolli e dei manuali di indagine circa le sparizioni di donne e i femminicidi, con una prospettiva di genere ed in linea con gli standards internazionali;
– creasse una pagina web informativa sulle donne scomparse dal 1993 nello Stato di Chihuahua;
– creasse una banca dati sulle sparizioni e omicidi di donne;
– predisponesse una formazione permanente dei suoi funzionari sui diritti umani in una prospettiva di genere;
– realizzasse un programma educativo per la popolazione dello Stato di Chihuahua, per agire a livello culturale al fine di superare la dimensione sistematica della discriminazione e la violenza di genere;
– fornisse assistenza medica, psicologica, psichiatrica, pubblica e gratuita, ai familiari delle vittime;
– pagasse i danni morali e materiali e le spese alle parti del procedimento.
Il tutto sotto il controllo e la supervisione della Corte.
Purtroppo oggi, a quasi due anni dalla pubblicazione della sentenza, l’unica obbligazione che lo Stato messicano ha compiutamente adempiuto è quella relativa alla pubblicazione della sentenza: le altre risultano tutte parzialmente o totalmente inattuate . Di più: aumenta il numero dei femminicidi e delle ragazze scomparse, salgono le aggressioni e le intimidazioni nei confronti delle attiviste.
E’ evidente allora che il principale problema sta, ancora una volta, nella mancanza di volontà politica da parte dello Stato di adempiere effettivamente alle obbligazioni internazionali assunte. Ma si pone anche una nuova sfida per il diritto internazionale umanitario: come assicurarsi che gli Stati adempiano alle condanne da parte degli organismi internazionali a protezione dei diritti umani.
IV. La sentenza di Campo Algodonero, lungi dal costituire un attacco della comunità internazionale allo Stato messicano, rappresenta uno snodo fondamentale del diritto internazionale umanitario nel farsi garante, attraverso i propri meccanismi, del rafforzamento dello Stato di diritto e delle sue istituzioni democratiche, così come dello sviluppo umano nelle società di tali Stati, in un’ottica di genere.
Nel corso della trattazione si è più volte sottolineato che lo stato messicano è stato ritenuto responsabile per non aver adeguatamente prevenuto la morte delle tre giovani juarensi.
Sullo Stato messicano infatti incombe, ai sensi dell’art. 7 della Convenzione di Belém do Parà, l’obbligazione di utilizzare la dovuta diligenza per prevenire, sanzionare ed eradicare la violenza sulle donne. In generale, tale obbligazione incombe pure su tutti gli Stati che hanno ratificato la CEDAW, ai sensi dell’art. 2 della Convenzione.
La CEDAW, già dal 1992, ha ritenuto che gli Stati possono essere responsabili degli atti privati se non adottano misure adeguate ad impedire la violazione dei diritti (da parte dei singoli), o ad assicurare le indagini e la punizione degli atti di violenza o a risarcire le vittime.
Analogamente si è espressa l’Assemblea Generale ONU nel 1993 e la Piattaforma di Pechino . Anche la Special Rapporteur ONU sulla violenza sulle donne già da tempo ha dato atto dell’esistenza di una norma pattizia, nel diritto internazionale consuetudinario, che obbliga gli Stati ad utilizzare la dovuta diligenza nel prevenire e contrastare la violenza sulle donne.
Dunque, non è sufficiente che lo Stato si astenga dal commettere in prima persona violazione dei diritti fondamentali delle donne (ad esempio adottando leggi che violano i diritti delle donne) ma, per andare esente da responsabilità internazionale, deve pure aver adottato ogni mezzo idoneo ad evitare che i singoli possano porre in essere lesioni dei diritti garantiti attraverso l’adesione agli strumenti internazionali e regionali di diritto umanitario.
Ma come si può valutare se uno Stato ha adottato tutte le misure adeguate a prevenire il femminicidio, ovvero ne è responsabile?
Gli indicatori molteplici. Semplificando molto il discorso, lo Stato deve avere assolto all’obbligazione di assicurare la protezione dei diritti delle donne sia de jure che de facto. Ovvero: deve aver ratificato gli strumenti internazionali a tutela dei diritti delle donne, deve avere fonti primarie (di rango costituzionale) che sanciscano il principio dell’uguaglianza di genere, deve essere dotato di un corpus normativo di contrasto alla violenza sulle donne, deve aver predisposto politiche e piani di azione in materia, deve aver formato gli operatori giudiziari e le forze dell’ordine in un’ottica di genere, deve avere a disposizione strutture di protezione adeguate, deve aver predisposto strumenti di rilevazione statistica dei dati, di sensibilizzazione culturale . Ma non è sufficiente che uno Stato disponga di un adeguato quadro normativo e politico di prevenzione e contrasto alla violenza sulle donne, occorre anche che tale quadro sia funzionale ed efficace nel contrasto alla violenza di genere, ovvero sia in grado di prevenire i fattori di rischio, agendo a livello strutturale.
Indubbiamente, la sentenza “Campo Algodonero” è estremamente preziosa nel ripercorrere minuziosamente tutte le omissioni dello Stato messicano che ne sanciscono la responsabilità per i femminicidi di Ciudad Juarez, e nel motivarla alla luce dei parametri sanciti dagli altri organismi a tutela dei diritti umani e delle osservazioni pervenute, in special modo dalla CEDAW e dai vari Special Rapporteur ONU, allo Stato messicano . Ma è ancora più preziosa nella misura in cui richiama i precedenti in cui, anche se non si parlava espressamente di femminicidio, la questione verteva in materia di responsabilità dello Stato per non aver adottato tutte le misure adeguate a prevenire l’uccisione della donna, la violenza di genere nella sua forma più estrema.
E la Corte non lo fa soltanto richiamando la propria giurisprudenza, ma anche con riferimento a quello della Corte Europea per i diritti umani e citando la motivazione dei casi decisi davanti al Comitato CEDAW, quasi a voler riaffermare l’universalità dei parametri per una giustizia minima sui diritti delle donne, l’universalità della risposta giuridica del diritto umanitario al femminicidio: gli Stati devono garantire con tutti i mezzi adeguati e in concreto, alle donne, una vita libera dalla violenza “in quanto donne”.
Il primo caso in cui la Corte interamericana sancì questa responsabilità (nei confronti dello stato brasiliano) richiamando esplicitamente la Convenzione di Belém do Parà fu quello di Maria Da Penha , una donna uccisa dopo che per ben quindici anni aveva subito (e denunciato!) violenze domestiche.
Ma la Corte richiama anche la più recente decisione del Comitato CEDAW nei confronti dell’Ungheria (2005, in cui lo Stato fu dichiarato responsabile in quanto non disponeva di una legislazione specifica in materia di violenza domestica e molestie sessuali, né di strumenti analoghi agli ordini di protezione o di allontanamento del coniuge violento dalla casa familiare, né di case rifugio per la protezione immediata delle donne sopravvissute alla violenza) e quella, ancora più recente, della CEDAW nei confronti dell’Austria (2007, in cui lo Stato fu dichiarato responsabile dell’uccisione di una donna da parte di suo marito, poiché lo stesso nonostante la pericolosità e la riportata condanna non era stato trattenuto in carcere).
Nella sentenza di Campo Algodonero si sviluppa un ulteriore concetto: se lo Stato non adotta tutti i mezzi adeguati per prevenire e contrastare la violenza di genere, discrimina le donne in quanto non garantisce loro il diritto ad essere uguali davanti alla legge, e dunque ugualmente protette dalle istituzioni. Perché lo Stato sia responsabile di tale discriminazione, non occorre che sia intenzionale.
In tal senso, la Corte interamericana richiama il precedente della Corte Europea per i diritti umani, Opuz vs. Turchia , ove i giudici di Strasburgo (a loro volta richiamando la giurisprudenza della Corte Interamericana) avevano condannato lo Stato per violazione dell’art. 3 CEDU (divieto di tortura e trattamenti umani degradanti – in quanto la signora Opuz, ha subito uno stato perenne di minacce, violenze e paura da parte del marito, a causa della passività della polizia e dei giudici nella persecuzione dello stesso) e per violazione dell’art. 14 CEDU (divieto di discriminazione – in quanto le riforme legislative adottate dalla Turchia per eliminare le disposizioni discriminatorie in materia di violenza domestica -ad es. attenuante del delitto d’onore- non sono bastate a eliminare la passività delle autorità locali davanti alla sua richiesta di aiuto “in quanto donna”).
E lo Stato italiano? Indubbiamente, siamo a conoscenza di numerosi casi che gli costerebbero una condanna (davanti alla CEDU o al Comitato CEDAW) per non aver adottato le misure adeguate a prevenire il femminicidio. Le numerose e gravi mancanze dello Stato italiano nell’adempiere alle obbligazioni sancite dalla ratifica della CEDAW si possono leggere dettagliatamente nel Rapporto Ombra presentato al Comitato CEDAW dalle ONG riunite nella Piattaforma “Lavori in corsa: 30 anni CEDAW” . E’ emblematico che, proprio sulla base delle informazioni fornite al Comitato dalle attiviste italiane, nelle Raccomandazioni del Comitato CEDAW al Governo italiano si ammetta chiaramente che, stando alle evidenze raccolte, potrebbe sussistere una responsabilità dello Stato per i femminicidi in aumento. Il Comitato infatti si dichiara “preoccupato per l’elevato numero di donne uccise da partner ed ex partner (femmicidi), che può indicare un fallimento delle autorità dello Stato nel proteggere adeguatamente le donne vittime dei loro partner o ex partner”.
E’ evidente che tale censura mossa dal Comitato CEDAW al Governo italiano apre scenari estremamente interessanti sia de jure condendo sia dal punto di vista di tutela giudiziale delle vittime di violenza domestica e di femminicidio. E’ altresì evidente che, se oggi la CEDAW parla di femmicidio anche in relazione all’Italia, è perché i diritti umani affermati a livello universale vivono nella misura in cui vengono reclamati in quanto tali e fatti valere a livello locale. Ed in questo le donne, anche quelle italiane, continuano ad avere un ruolo fondamentale.