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Stop all’invisibilità: è tempo di narrazioni e rivoluzioni precarie!

Leggevo questo post di Malafemmina, quest’altro post sul manifesto femminista della rivoluzione spagnola, questa fotografia del presente che termina con una domanda: quando inizia la rivoluzione in Italia?

Il nostro documento/appello per il 13 febbraio (Noi vogliamo tutto!) già diceva quello che abbiamo in mente in proposito. Una rivoluzione che riassuma tutte le categorie discriminate, senza nessuna eccezione, che sia basata su chiari presupposto di antirazzismo, perchè lo sfruttamento diventa perfino crudeltà, prigionia e cattiveria nei confronti degli stranieri, antisessismo, perchè i generi discriminati come quello femminile, in Italia vengono condannati alla disoccupazione per alimentare un mercato fatto di ricatti e gratuità nel lavoro di cura che non ci consentirà mai di affrancarci dalla schiavitù, antifascismo, perchè il welfare attuale è stabilito sulla base di un disegno preciso pensato su presupposti tanto simili a quelli della società del ventennio.

Noi abbiamo continuato questa riflessione e stimolate dagli Stati generali della Precarietà abbiamo iniziato una discussione che è fatta di narrazioni individuali e collettive, di rabbia ed esigenza di ribellione. Dalle narrazioni, quelle che leggerete e quelle che abbiamo raccolto in privato, emerge unanime il fatto che nessun@ ha più voglia di essere invisibile. I precari e le precarie esistono e non gliono essere ignorat*. Questa è una sintesi degli interventi raccolti nella nostra mailing list.

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La domanda: cos’è per noi la precarietà. Cosa significa concretamente nelle nostre vite di donne, uomini, madri, padri, figli, migranti, gay, lesbiche, trans, etc etc.

Abbiamo più volte toccato qui il tema del reddito, soprattutto il rapporto alla violenza sulle donne, perchè una donna dipendente in senso economico resta comunque ancorata alla famiglia di provenienza o è costretta a restare alle dipendenze di un marito violento.

Ma ci sono mille altre ragioni per cui la precarietà per noi è nefasta. L’obbligo di dover restare legate ai contesti familiari, l’obbligo di assolvere a ruoli di cura che non vengono redistribuiti equamente tra i generi ma vengono di nuovo obbligatoriamente destinati alle donne.

La libertà di vivere la propria sessualità fuori dalle mura di casa, lontani da papà e mamma, o dai contesti in cui è difficile vivere le proprie relazioni.

Tutto questo mentre il welfare continua ad essere fondato sulla famiglia, considerato un ammortizzatore sociale, l’unico, e affida alle donne un carico di responsabilità immenso che va dai bambini ai vecchi senza soluzione di continuità. Tutto senza sconti.

Tra gli iscritti e le iscritte a questa lista ci sono donne emigrate, donne precarissime, donne che appartengono alla generazione in cui è indispensabile incastrare tutto e il contrario di tutto. Donne che non sanno qual è la loro professione perchè la precarietà è anche dover ricominciare da capo ogni volta, con un nuovo mestiere, facendo di noi tutto e niente allo stesso tempo.

Ci sono uomini nelle stesse condizioni ed è necessario capire come viene vissuto il problema della precarietà. Che tipo di futuro immaginiamo.

Risposte:

Sere.: Per me quando leggo precarietà leggo morte. Leggo la morte perchè io sono una scrittrice, e per me non vedo posto. Non sono utile, non produco niente che alzi il PIL del nostro paese.
Amo l’arte. L’arte non serve a niente, ora.
Pretendo di essere indipendente, ma poi mi rendo conto che non posso fare troppo la cazzona, perché un lavoro lo devo trovare. Anche se non è per me, anche se non rispetta me. Solo soldi, sono.
Un lavoro che poi magari non si adatta a te e ti ammazza, un lavoro che ti causa un esaurimento nervoso e sei finita. E se sei finita cosa fai? Ti chiudi in te, ti prendi cura di te, ma su su, corri a lavorare! Non hai tempo di stare male, di vivere il lutto della tua vita e ti reintegrati nella società, non c’è tempo, corri a produrre. Per questo io leggo precarietà e vedo la morte.
Università? Sì prego falla… ma mi raccomando, sbrigati, non andare fuori corso, e nel caso lavora pure mentre studi. Studia qualcosa di utile però, eh! Che ci fai a lettere? Cosa ci vuoi fare? Fai un corso ché poi un lavoro lo trovi…

Femi.:

Precarietà per me è:

– lavorare da quando mi sono laureata con contratti a termine, senza mai poter fare nulla più che cercare di far quadrare i conti, senza poter sperare nulla di più, ma temendo assai di meno. Il modo in cui la precarietà ti toglie i sogni e la fiducia nel futuro è indescrivibile.
– fare lavori che non mi piacciono, e dovermi pure sentire fortunata per questo. Abdicare a tempo indeterminato alle mie vere passioni per la pagnotta.
– aver paura del domani, delle spese impreviste, della malattia.
– dover ogni volta ricominciare daccapo e sentirmi sminuita nella professionalità.
– sentirmi ricattabile, dal datore di lavoro oggi, domani magari anche dai genitori, se dovessi restare senza lavoro.
– vivere la vita di tre persone assieme e la fatica che comporta, perché l’unica cosa che mi resta è cercare di essere chi sono, chi devo essere per campare e chi non posso evitare di essere perchè non posso permettermi diversamente.

Un amico ha una maglietta che rappresenta “Bob le precaire”: è la sagoma di un uomo con 6 braccia e in ogni braccio tiene uno strumento di lavoro…
ecco, rappresenta bene come mi sento quotidianamente…sarebbe persino buffa, se non fosse tragica.

Kzm:

io sono un precario della ricerca.

Ci sono delle difficoltà di vita quotidiana, sopratutto perchè sono dissociato tra due città, quella in cui lavoro e quella in cui vivo con la mia compagna. Ma di questo non mi lamento, ritengo di essere un privelagiato rispetto ad altr*, tant* molto più precari di me. Ma non è tanto questo il problema, il problema è la progettazione della propria vita. Per fare un esempio, un minatore di 100 anni fa aveva una vita molto più dura della mia (infinitamente), e direi anche più dura di precari* di oggi (in europa). Eppure allora comunque si progettava la vita, si vedeva un futuro, anche utopico davanti a sè. La vera difficoltà di oggi è il non riuscire ad immaginare il futuro. Al livello personale, l’unica possibilità è l’ognuno per sè. Ma credo che sia un problema generale: non si vede più il sol dell’avvenire, ma al massimo scenari post-apocalittici, ad allora, in tutti finiamo con il dirci “apres moi le deluge”. Forse è un problema più sociologico che epocale, diciamo così. Lo vedo guardando i migranti. Loro sono il vero quarto stato di oggi, eppure non hanno perso la speranza del futuro, la forza di rischiare, di progettare.

Condividere le proprie esperienze e le visioni di precarietà è sicuramente molto importante. Forse dovremmo anche iniziare a pensare ad un progetto collettivo per il futuro della società.

Serbi:

La precarità è un punto di arrivo. Non sono matta, scusate, non voglio offendere le persone precarie della mailinglist, ma, escludendo qualche sporadica ripetizione e il babysitteraggio saltuario per i miei nipoti, sono disoccupata da tre anni – intendo che non ho un contratto manco a termine da questo periodo (contratto a voce per lo più, cioè un accordo di lavoro che poi è a nero, mica contratti scritti, quelli solo con Servizio Civile* e call center li ho visti, e che contratti!). “La precarietà è un punto di arrivo” è solo una frase provocatoria, dato che un’amica precaria mi ha detto che sono fortunata, perché almeno io non mi stresso per un lavoro faticoso e mal retribuito, non devo sopportare colleghi e colleghe balord*, non devo fare file agli uffici, che palle i colloqui, presentare documentazioni: “Tu non sai cosa sono poi le graduatorie”, infatti non lo so, a me ci pensa la mia famiglia a darmi da mangiare, mangiamo assieme tutti i giorni, e posso permettermi di perdere tempo col computer, sto sempre qui, tale e quale a quando avevo tredici anni – venti anni fa – sono proprio fortunata, almeno io non mi illudo nemmeno. Sto pure scrivendo la poesia per Pasqua da declamare agli zii.
Tutte le possibilità di scelta passano per l’indipendenza economica.
Quindi? si studia, all’infinito. Ti formi, lavori per qualche mese, il lavoro finisce e ti devi ri-formare. Quello che c’è più o meno sempre è il lavoro di cura con bambini, anziani, casa, ma sapete come funziona? funziona che esci da casa tua e ti chiudi in casa di un altra persona, per otto, dieci ore o con un bambino piccolo col quale puoi parlare solo di gormiti e pokemon o con una persona anziana che ti fa pulire casa come se si dovesse mangiare per terra, dev’essere pulita lei stessa e mentre sei in bagno ti ruba dalla borsa (è successo ad una mia amica) – figli e nipoti compaiono solo per vedere se è viva.

Dimenticavo la più grande tra le fortune elencate dalla mia amica, stando a casa non corro il rischio di mettermi con uno stronzo che punta al mio stipendio!

Personlmente mi sono messa l’anima in pace, so che quando non avrò più la mia famiglia andrò a stare in strada, infatti non mi lavo troppo spesso le mani, così faccio già da ora gli anticorpi.

*Servizio civile, sì, è volontariato – retribuito – ma da queste parti è stato per molte persone l’unico vero rapporto di lavoro serio di tutta la vita.

Jo:

Oh, Serbi, anche tu hai la mia stessa fortuna allora, beh mi sento meno sola. Io sono disoccupata da più di un anno però neanche studio e mi formo, non ho neppure questa scusa. Lavoro da tempo anch’io per due-tre mesi e faccio i più svariati mestieri (soprattutto quelli di cura), poi mi fermo, spendo i soldi piano piano e ricomincio a cercare lavoro. E’una bella vita, se tutto va bene ci troviamo da qualche parte a raccontarci queste storiacce, tu formata in un sacco di cose però: questi corsi di formazione sono fondamentali per vivere per strada, fai bene ad allenarti 🙂
Sempre che io non incontri LF casualmente e le vomiti addosso tutte le mie sfighe (cosa che è successa davvero una settimana fa), in tal caso mi son già sfogata e potrò dedicarmi all’ascolto di tutte le tue sventure col cuore leggero. Ah, che bella la precarietà, avercela! (come ti capisco-oh come ti capisco)

Mara:

mi inserisco per condividere questo link perchè solleva un tema che per me è fondamentale.
io per esempio non riesco a fare molto proprio perchè sono molto precaria ma qualche lavoro lo faccio. però non posso permettermi di fare più di quello che faccio.
è complicato, difficile, ci vogliono tempo e soldi, e se hai internet a disposizione, il che non è detto sia scontato per tutte, se provi a dare senso alla tua necessità di agire, di lottare, di fare qualcosa, qualche volta ti scontri con chi ti dice che ha più valore la politica fatta in altri modi.
femminismo a sud l’ho sentita subito casa mia perchè si arrogava il diritto di accorciare le distanze, di mettere assieme le energie per un progetto che metteva in condivisione strumenti e informazioni. senza questa spinta non ci sarebbe stato bollettino di guerra che è fatto da bollettine quasi tutte precarie e comunque con pochissimo tempo.
il tempo rubato a noi stesse è quello che dedichiamo alla politica, quindi lo consideriamo tempo restituito a noi stesse.
abbiamo imparato da femminismo a sud che bisogna fare dei propri disagi degli argomenti di rivendicazione politica e così facciamo, ed è così che riusciamo ad avere spazio mentale per poter occuparci anche di donne vittime di violenza, che è un argomento duro da digerire.

Vivi:

Per me la precarietà equivale a:
– Non avere possibilità di poter progettare nulla. Vuol dire vivere in balia degli eventi, dei contratti a termine, delle scadenze. Vuol dire vivere con l’ansia di non riuscire a sopravvivere, di non poter essere indipendente mai e di dover quindi sempre dipendere dalla “bontà” di qualcun altro.
– Non avere la possibilità di fare ciò che mi piace e che mi fa sentire viva, utile, bene con me stessa. Se non posso realizzarmi sul lavoro (grazie al ministro che rende la vita impossibile agli/lle insegnanti), almeno vorrei non dover frustrare anche i miei sogni, le mie passioni… ma già da ora rinuncio a qualcosa e penso che con il tempo le rinunce saranno maggiori, ma sapere di doverlo fare per mancanza di soldi e tempo, ma più dei primi, mi provoca un gran senso di angoscia.
– Sentirsi sempre ricattabili da chiunque.  Dato che non si hanno certezze non si può rivendicare nulla, nessun diritto. E’ come se ci educassero a soccombere e a ringraziare per gli avanzi ottenuti, per i quali dobbiamo rendere grazie a chissà quale santo e non ai nostri meriti.
–  Ad incattivirsi, arrabbiarsi con chi non la comprende e pensa che sia bello poter essere sbattuti fuori in qualunque momento, dover fare più lavori dato che quello per cui hai studiato non è disponibile. E’ davvero brutto stare male e non essere capiti e per giunta essere presi in giro.
– Nessun tipo di pensione e quindi ad una vecchiaia impossibile da vivere. Quando ci penso mi vengono i brividi, non so cosa ne sarà di me, ma spero di non essere un peso per nessun@.
In poche parole la precarietà mi rende frustrata e infelice, incapace di vedere oltre qualche mese che ne sarà di me. Settimana scorsa ho assistito alla presentazione di un libro e nel momento del dibattito lo scrittore Gabriele Frasca ha detto su per giù questo: ”i governi stanno tagliando le generazioni dei giovani fuori dal mondo del lavoro e con il passare del tempo sarà peggio. Prima o poi però questa enorme quantità di giovani dovrà pure essere impegnata… allora credo che ci sarà una guerra che provocherà una sovversione”. Lo scrittore in questione è molto pessimista nei confronti del capitalismo, di cui crede non ci libereremo mai… io invece penso che forse siamo ancora in tempo, ma è anche vero che è molto complicato solo da immaginarlo, figuriamoci realizzarlo. Ecco, dopo che gli scrittori contemporanei, i tuoi stessi professori, i colleghi e la costatazione con la realtà ti dicono che per te non c’è che questo schifo, a cui sfuggirai solo se avrai una raccomandazione, vorrei sapere con quale spirito a 24 anni dovrei pensare al futuro.

p.s. il post “Volevo cambiare il mondo ma sono precaria” mi è piaciuto tantissimo, rispecchia tante cose che penso/vivo. Grazie e complimenti a chi lo ha scritto.

Ale:

Ho letto con molto interesse tutti i vostri commenti e riflessioni in merito alla precarietà.
Ebbene sì … sono 1 precaria anche io! Ex-lavoratrice Phonemedia (quel gruppo di 12 call center in Italia, con quasi 7 mila lavoratori, tra nord e sud), che dopo essere stata truffata dalla proprietà aziendale che da punto in bianco è scappata col bottino, ci ha lasciato tutti e 7 mila per strada.
Da lì, esattamente settembre 2009, è iniziata una lunga serie di varie forme di protesta: scioperi, assemblee permanenti, occupazione del comune, occupazione della sede lavorativa. Il tutto finalizzato al raggiungimento del commissariamento. Ottenuto il quale, il nuovo commissario, nominato dallo stato, in 4 e 4 8 dichiara che non c’è nulla da fare che i debiti son troppi e che al massimo potrà concederci un periodo di cassa integrazione (in deroga, dato che per il nostro contratto, anzi settore, non era previsto).
E pensare che io quel lavoro l’ho sempre odiato!!! Si chiamava la gente per proporre pacchetti di servizi telefonici: vendite telefoniche. In cui, al 80% delle chiamate, ricevevi un bel ‘vaffanculo!!!’ istantaneo. Assurdo!!! Ti riconoscevano dalla prima parola … come capita solo con la gente che si conosce e frequenta da una vita. Vabbè, ma lo capisco … capita anche a me quando mi chiamano!
Ad ogni modo, dopo anni trascorsi tra un call center e l’altro a vendere (come una condanna per me!) con contratti a proggetto-provvigione, quindi senza nessun diritto garantito (oltre al fatto ‘se vieni e vendi ti paghiamo, altrimenti niente!’), in quest’ultimo, in cui lavoravo da oltre un anno, mi capita la possibilità, tramite un corso finanziato dalla regione di 6 mesi, di riuscire a farmi assumere a tempo indeterminato. Consideriamo che in quei 6 mesi non ho guadagnato nulla per dover seguire le lezioni di quel corso, con esami finali …
Comunque alla fine, a dicembre 2007 mi assumono (dettaglio: accanto al contratto di assunzione, un foglio, successivamente identificato nelle delega d’iscrizione alla cisl … menomale che ho avuto il flash momentaneo di NoN firmarlo!!!).
Insomma, divento dipendente di questa azienda … con grande gioia per il contratto (infatti subito dopo decido di andare a convivere col mio compagno dell’epoca), ma grande disillusione per il lavoro da dover quotidianamente svolgere. Ma, contro voglia, lo faccio!
Dopo nemmeno 2 anni l’azienda si avvia al fallimento. Ora sono in cassa integrazione da oltre un anno, sappiamo già per certo che l’azienda non riaprirà mai, ma per ora (grazie al forte sollecito della Cgil) ci terranno con questo sostegno al reddito almeno fino a fine 2011.
Per fortuna, devo dire, Ok! Ma, senza contare che, un mese sì e un no, ci sono intoppi burocratici che bloccano o ritardano la mensilità che ci spetta, e oltre a questo, la situazione di precarietà in cui ci-mi son venuta a trovare è spaventosa.
Finita l’onda della protesta ho anche rischiato di cadere in depressione diverse volte … mi sentivo inutile, incapace! Sono laureata come assistente sociale, studi che ho potuto terminare anche grazie i primi lavori nei call center a progetto part time, ma ora che ne ho bisogno con la laurea riesco giusto a pulirmi il c..o!
I primi tempi passavo intere giornate al pc, e cmq, nonostante mi rendessi conto di essere sempre + nevrastenica, non lo disprezzavo … alla fine un po’ di soldi (almeno quelli x l’affitto e la spesa) a fine mese mi arrivavano, e nel frattempo coltivavo le mie passioni (lettura, lotta, musica). Ma in poco tempo ho vissuto una sorta di alienazione-isolamento quasi paragonabile ai domiciliari.
Allora dopo un po’ è corsa in soccorso la mia famiglia, e subito mia sorella ha trovato un bel po’ di impegni da passarmi.
Ora faccio la baby sitter dei miei nipotini (mentre mia sorella si realizza e cresce sul suo lavoro), e nel frattempo cerco di ottimizzare i tempi della cassa integrazione con un master (come analista ABA: terapia per bimbi autistici – dato anche che una dei miei nipoti lo è, allora è stato lo spunto per portare avanti anche gli studi della laurea). Mah! Vedremo se sarà utile … lo spero davvero. Anche perchè il master lo sto pagando 1900 euro .. nel frattempo mi pago l’affitto … a giugno dovremo lasciare questa casa e prenderne un’altra … il mio uomo mi parla di progetti futuri (ma con quali soldi da parte mia???) … vorrei fare una vacanza, pensare ad un matrimonio, ad un mutuo piuttosto che ad un affitto, a dei figli … MA COME, COME IN QUESTE CONDIZIONI PRECARIE??
Ancor di più per una come me, a cui chiedere non solo non piace, ma non lo farà mai. Se non ho mezzi miei, non progetto nulla con i mezzi degli altri … è più forte di me, non voglio-non riesco-non è giusto.

Chiara:

Ciao, mi presento, è la prima volta che scrivo nella vostra mailing list a cui mi sono “iscritta” alcune settimane fa, dopo avervi incontrate in occasione della manifestazione se non ora quando, Sempre! Ma attingo conoscenza e informazioni dal blog femminismo a sud da molto tempo. Sono Chiara precaria della conoscenza da diversi anni.
Appartengo  a quella generazione che è entrata nel mondo del lavoro proprio quando si stava trasformando completamente. Le  modalità contrattuali con cui ho lavorato hanno sempre avuto un termine. Il più delle volte dettate da scadenze di cui ero a conoscenza, altre volte sono state il frutto di scelte ed esigenze di chi o che cosa gestiva il mio rapporto di lavoro.
Mi occupo di ‘insegnamento italiano L2 che definisco il mio spazio di “sicurezza precaria” a cui ritorno nei momenti in cui l’attività che  mi ha costituito come soggetto lavorante,  si interrompe. Il lavoro che mi piace fare è la scrittura di progetti in ambito formativo e politiche di genere attraverso finanziamenti pubblici.

Mi riallaccio a ciò che ha scritto Sere per rispondere alla domanda, per me precarietà significa tempo ridotto per fare ed essere ciò che mi piace profondamente, come ad esempio collocarmi in una dimensione politica delle relazioni.
E poi precarietà significa un significativo paradosso per me: La temporalizzazione dei miei contratti di lavoro, mi porta a vivere una costante insostenibilità materiale dei miei progetti personali con la conseguente difficoltà di attuare quel passaggio fondamentale, quella trasformazione esistenziale che, per me ha significato ad esempio riscattare mia madre dalla sua esperienza di lavoro e definirmi in ciò che fuori da esso, ma anche grazie al lavoro stesso, decido e cerco di essere.

E poi precarietà significa anche potenzialità, potenzialità creativa di nuove e diversificate narrazioni.

Posted in Corpi, Fem/Activism, Omicidi sociali, Precarietà, R-esistenze.


2 Responses

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  1. Lorenzo Gasparrini says

    Sono stato precario fino a tre anni fa. Precario dell’università: sei corsi l’anno tra Roma (Sapienza) e Ascoli (Camerino), ricerca per un dipartimento (Scienze della Formazione), più di mille esami l’anno (da solo), più lauree, correlazioni… a contratto, rinnovati di anno in anno. Ho detto basta quando l’incertezza dei pagamenti (due volte l’anno e non si sa mai quando) e il senso del ridicolo (mi sono stati presentati contratti da firmare a compenso zero) mi hanno fatto capire che preferivo vivere.
    Ho lasciato una cosa che amavo per un impiego che rispetto – fa vivere me e la mia famiglia un po’ (attenzione: solo un po’) più tranquilli. Ho guadagnato certamente in stress e salute, ho perso in soddisfazione personale, ma la situazione economica è rimasta quella. Adesso però posso pianificare i “no” alle cose che non mi posso permettere, mentre prima dicevo no a priori.
    Ho sostituito una precarietà con un’altra: prima era precario il tempo, perché non sapevo quando sarei stato retribuito. Ora c’è la precarietà dello spazio, perché so fin dall’inizio dove non posso arrivare.
    Mi sento sfruttato in entrambi i modi, perché quello che hanno in comune le due esperienze è la precarietà dell’esistenza, cioè l’attesa inquietante dell’imprevisto per il quale non hai soluzione.
    E’ inutile sottolineare quanto tutto questo abbia fatto bene. negli anni, al rapporto con Nicoletta.

  2. fantasma76 says

    Serbi ho una vita identica alla tua, forse un paio di anni in più, ma prospetto una stessa fine, ci incontreremo sotto i ponti.
    Voglio aggiungere che lavorando in nero da invisibile non si rischia solo che ti freghino i soldi dalla borsa, ma che cadi e ti fai seriamente male, e li ti accorgi di essere veramente invisibile, nessuno ti conosce, resti li atterra, qualcuno sta già pensando di come liberarsi del tuo corpo, e devi rialzarti da solo ed andare con le tue gambe in ospedale, mi è successo ed è bruttissimo, ed è brutto pure la criminalizzazione che ti fanno dopo, tu sei quello che vuole fregare il padrone, e l’INAIL.
    La mattina avvolte non hai neppure voglia di alzarti, tanto per la letterina di natale c’è tutto il tempo, poi senti Tremonti e gli industriali dire che è colpa nostra, che loro hanno tanto lavoro, ma che noi siamo degli sfaticati, e avvolte dico sarà vero, tutta la mia educazione mi ha portato ad un fallimento totale?