Luna ha fatto la traduzione di un interessantissimo articolo. Dalla rivista Jeune Afrique n° 2622. Buona lettura!
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Non toccate i diritti delle donne
Inquiete di fronte alle argomentazioni ambigue degli islamisti, femministe e laiche raddoppiano la vigilanza. E interpellano le autorità provvisorie e la società civile perché garantiscano una protezione dei loro diritti.
FAWZIA ZOUARI, inviata speciale a Tunisi
Sono lì. Barbe e qamis, gli occhi cerchiati di khol, sguardi incendiari. “Ma dove erano nascosti?” si domanda una blogger. Questi salafiti del partito El-Tahrir – non autorizzato -, che sembrano degli
extraterrestri nel paese di Bourguiba, si mostrano ormai alla luce del sole, e le loro dimostrazioni maschie fanno le prime pagine dei giornali. Appena una settimana dopo la caduta di Ben Ali, se la prendevano già, senza giri di parole, durante le loro preghiere o riunioni pubbliche, con l’emancipazione delle donne. Per questi “talebani”, come li chiamano qui, le cose sono chiare: bisogna ristabilire la sharia, quindi la poligamia e il matrimonio religioso, e, per riassorbire la disoccupazione, costringere le donne a tornare entro le mura domestiche. Sono loro ad aver bruciato numerose case di tolleranza, argomentando che l’islam proibisce la prostituzione. Loro a fustigare le passanti non velate, le artiste. Loro, sempre, ad aver picchiato una giornalista del canale Nessma per aver presentato una trasmissione sulla laicità. Dei campanelli d’allarme che hanno spinto femministe e laiche ad accentuare la vigilanza, soprattutto attraverso una manifestazione contro l’integralismo, il 9 aprile, a Tunisi, e ad interpellare le autorità provvisorie.
Ma il pericolo non viene, forse, tanto dai salafiti quanto dai sostenitori di un islam spacciato per “soft”, portato avanti dai militanti d’Ennahdha – partito autorizzato -, il cui discorso sembra perlomeno ambiguo. “Come non accettavo allora che si dicesse che Ben Ali fosse un bastione contro gli islamisti, spiega l’avvocata Bochra Belhaj Hmida, ex-presidente dell’Associazione tunisina delle donne democratiche (ATFD), allo stesso modo rifiuto ora di credere che la minaccia islamica sia inesistente”. Bisogna attendere che le organizzazioni dette liberali e laiche falliscano di fronte a questa corrente religiosa? “I negoziati attuali sono piuttosto in favore di quest’ultima, accusa Bochra. Gli islamisti si esprimono, reagiscono nelle moschee, sui media, e cercano di sviluppare delle alleanze politiche. I partiti detti progressisti corteggiano Ennahdha, mentre dovrebbero invece allearsi contro questo partito, studiare un modo per combatterlo sul piano culturale e politico, denunciare le contraddizioni del suo discorso”. Ed è per questo che l’avvocata, insieme ad altre militanti dell’AFTD, hanno intenzione di esigere da tutti i partiti che promettano di mantenere e rinforzare il Code du statut personnel (CSP) e la parità, e di intraprendere un lavoro sulla questione dell’eredità, che bisognerà rendere equa. Queste donne si stanno dedicando alla preparazione di un patto che impegnerebbe in questo senso la società civile e la classe politica.
Bochra si dice “inquieta ma non preoccupata”: “Ad ogni cambiamento, si pensa che il CSP rischi di essere toccato. Ma credo che esistano delle forze che faranno in modo che questi diritti siano protetti e rinforzati. Questa è in ogni caso la nostra missione in quanto militanti femministe”. La blogger Mona Ben Halima è ancora più ottimista: “Non capisco nemmeno perché esistano un ministero della Donna o una festa della Donna. Tutto ciò aveva senso nel 1957. Oggi, il CSP è cosa fatta. Spetta a noi, membri della società civile, essere vigili. Non ci sarà un ritorno indietro. Noi combattiamo per la modernità”.
RAPPRESENTAZIONE – Solo, ecco, come riusciranno le donne a far ascoltare la propria voce se non dispongono di una rappresentazione nelle istanze politiche? Perché si trova lì l’altra minaccia che incombe sulle tunisine: la rivoluzione rischia di metterle da parte, come successe ieri alle Mujaheddin algerine. In effetti, non appena le rivolte terminate, le donne, fortemente impegnate nella rivoluzione, sono, a parte qualche eccezione, scomparse dalla scena politica e mediatica. Il governo provvisorio conta una sola ministra – oltre a quella degli Affari della donna. Idem per i partiti politici, dove la presenza femminile nei posti dirigenziali è praticamente nulla, ad eccezione del Partito democratico progressista, dove Maya Jribi svolge la funzione di segretario generale. Nessuna figura conosciuta nei ranghi dell’Unione generale tunisina del lavoro, tre solamente nella Lega per la difesa dei diritti dell’uomo, una sola presenza simbolica tra i membri del Consiglio della rivoluzione. Quanto al dossier sui diritti delle donne, non figura né sull’agenda del governo provvisorio, né in quella dei partiti d’opposizione. “Oggi le donne disturbano più di quanto non disturbassero prima, afferma Bochra. Ogni volta che si tenta di portare avanti la questione femminile, gli uomini escono fuori con l’argomento classico del “non è il momento”, “non è la priorità”, “è controproducente”. In effetti, hanno paura che le donne prendano il loro posto. Quando la nostra associazione di donne democratiche parla di democrazia, incontra un’eco favorevole in seno ai partiti d’opposizione. Ma appena ci mettiamo a parlare di donne, questi ultimi sono assenti o ostili. Ne sia prova il fatto che nonostante ci sia un consenso per ratificare le convenzioni internazionali, ci si rifiuta di pronunciarsi sulle convenzioni che riguardano i diritti delle donne, come la non-discriminazione tra i sessi o l’eredità“. E Bochra conclude: “Loro hanno bisogno delle donne, le hanno sempre strumentalizzate. Ma bisogna che tutto questo cessi”.
Hanno fatto la rivoluzione
Il modesto trionfo delle tunisine non deve far dimenticare il ruolo centrale che queste hanno avuto nella caduta della dittatura. Giornaliste, blogger, studentesse, donne del popolo… Erano tutte là il 14 gennaio. E testimoniano.
Per Racha Tounsi, la constatazione è indubbia: la rivoluzione è stata fatta con e grazie alle donne. Figlia di madre siriana e padre tunisino, questa giornalista, figura imprescindibile della scena culturale locale, si trovava sull’avenue Bourguiba il giorno in cui Ben Ali è scappato. Sono stati i giovani dei quartieri poveri, ai quali lei veniva in aiuto, che le hanno chiesto di raggiungerli: “Mi hanno detto, Tata, vieni con noi. Io ci sono andata. Mi sono fusa con la folla, ne ho amato gli slogan, ho scritto, ho fotografato, ero nel movimento senza esserci davvero“. Tra i manifestanti, un gran numero di giovani donne, delle avvocate, studentesse. La veglia, delle intellettuali avevano manifestato davanti al Teatro municipale, dove erano state circondate dalla polizia, picchiate o prese per i capelli, come l’attrice Raja Ben Ammar.
“I ragazzi hanno protetto le ragazze dai manganelli. Confesso che ho avuto paura! I poliziotti non erano in uno stato normale, Si avventavano su di noi come fossimo dei cani”. Ma Racha non dimenticherà i giorni felici di questa rivoluzione: “Non avevo mai passato dei momenti così forti e commoventi, una tale dimostrazione di verità e solidarietà. Ero davvero fiera di chiamarmi Racha Tounsi!”. La giornalista ha raccontato il coraggio delle tunisine, quelle che facevano parte dei cortei di Sidi Bousid a partire dal 17 dicembre, al cuore degli eventi di Kasserine e di Thala, occupate a curare i feriti, quelle che hanno passato le loro notti a cucinare per nutrire i soldati dell’arma e i comitati di quartiere, che le proteggevano contro le milizie e le razzie.
Mona Ben Halima è stata una delle blogger più attive della rivoluzione. Racconta di come un giorno su Twitter ha incontrato un gruppo di giovani che si conoscevano virtualmente e si riconoscevano nelle stesse rivendicazioni. Questa donna passionale di 38 anni, figlia di albergatori, deve il suo risveglio politico alla guerra del Golfo, nel 1991, quando studiava a Parigi. Questa ragazzetta viziata decise allora di scendere nell’arena della contestazione non appena ritornata a Tunisi dove, mentre gestiva il suo hotel, intendeva lottare contro il regime: “Ho sempre sentito dire: “Abbiamo il paese ed il presidente che ci meritiamo”. Allora ho deciso di dimostrare il contrario. Eravamo ancora lontani dall’immaginare la caduta di ben Ali. Per noi, la prima battaglia su internet era quella della libertà della stampa, che poteva rendere possibile la denuncia della corruzione e del clientelismo”.
“AMMAR” – Con il suo gruppo di internauti, lancia, il 22 maggio 2010, una giornata intitolata “Una brutta giornata per AMMAR”, dal soprannome della censura su internet, ma suo marito le impedisce di partecipare per paura che sia arrestata. Il 22 dicembre, al culmine della contestazione, Mona invia al giornalista Laurent Delahousse, di France 2, un appello per domandargli di riportare ciò che accadeva in Tunisia. Mona continua a far pervenire in rete le immagini delle atrocità e dei morti aggirando la censura attraverso dei proxy. La mattina del 3 gennaio, suo marito riceve una chiamata anonima: “Dì a tua moglie di stare zitta!” Il 4, lei pubblica l’intimidazione sul suo profilo Twitter , accanto alla domanda: “Che devo fare?”. Lo status è ripreso da europe1.fr che lo pubblica. “Ammar” minaccia di vendicarsi sui suoi due figli. “Ma il 10 gennaio era già troppo tardi, i cyberattivisti si contavano a migliaia, non potevano arrestarli tutti. Il 14 eravamo in strada, e la realtà superava i nostri sogni!” Ma se Mona riconosce il ruolo decisivo di internet nelle rivolte, rifiuta di dire che questa rivoluzione sia stata fatta da Facebook: “Il vero motore sono le persone che sono scese in piazza”. Oggi, Mona si è data per missione di risvegliare la coscienza del cittadino e di volgarizzare certi concetti politici, come “democrazia”, “Parlamento” o “Costituente”. Con i suoi amici, ha domandato a una troupe di teatro di montare uno spettacolo, che abbia il ruolo di un dizionario pedagogico, dal titolo: “Gioco democratico”.
Da 5 anni, Faouzia, originaria di una città del nord-est con una laurea in letteratura francese, è disoccupata. Secondo lei, la rivoluzione era prevedibile: “Tutti questi laureati che vagavano nelle strade senza speranze e senza futuro, il costo alto della vita, i salari bassi, il popolo che crepa di fame, schiacciato dalla repressione, tutto questo ci ha fatto scendere in piazza. Non sono mai stata così fiera di appartenere a questo paese arabo che, per primo, ha osato opporsi al proprio governo”.
UN DOVERE – Per Raja, 24 anni, studentessa di sociologia, la partecipazione alle manifestazioni era un dovere. La sua argomentazione è ferrea: “Le donne hanno le stesse rivendicazioni e gli stessi diritti degli uomini, è quindi essenziale che queste siano presenti sul terreno politico e sociale. Devono essere parte attiva in tutti i dibattiti e in tutti i progetti per l’avvenire. In questi ultimi anni, l’immagine della donna è stata deprecata, bisogna crearne un’altra, quella di una tunisina degna della rivoluzione”. Originaria di un contesto rurale, Raja vuole soprattutto che la Tunisia di domani doni una possibilità alle donne dell’entroterra del paese: “Bisogna intraprendere delle azioni concrete e rapide per risolvere il problema della povertà e della miseria di questa popolazione. Non abbiamo più tempo da perdere con gli studi sul terreno, le ispezioni dei ricercatori e dei sociologi. Attendiamo un’azione di sviluppo seria ed efficace. Il 14 gennaio ha rivelato la ricchezza e l’importanza di queste regioni dimenticate. È tempo che anche loro esistano”. Rabia, 29 anni, laureata in agronomia, attendeva da tre anni la risposta a una richiesta di prestito, promessa dal precedente governo a tutti gli allievi del suo corso. Ma è un altro l’evento che la spingerà ad impegnarsi politicamente: il giorno in cui suo padre morì di infarto dopo aver visto la sua impresa confiscata da un mafioso.
Suo fratello, militante all’università, è stato gettato in galera con delle false accuse. Questi due eventi le aprono gli occhi: “Ho realizzato che la politica è l’espressione della vera società e che solo questa crea i mezzi per rispondere alle esigenze vitali urgenti. Sentivo parlare di democrazia, ma solo oggi ne comprendo gli obiettivi. Ho preso anche coscienza che la libertà non può essere definita che come una libertà comune. Certamente, essa deve poggiare su di un principio fondamentale: la laicità. Non vogliamo rimpiazzare il giogo dei politici con quello deli islamisti. Questa rivoluzione è quella della gioventù, delle donne, del popolo, e bisogna che questa generi una società che non escluda nessuna categoria sociale”.
QUALCHE NUMERO: le donne in Tunisia sono il 27,9% della popolazione attiva, il 34% dei giornalisti, il 42,5% degli avvocati, il 45% dei ricercatori e il 72% dei farmacisti.