Articolo di Helen la Floresta comparso su Diagonal, periodico spagnolo di attualità critica.
“In questo periodo, il realismo è forse il mezzo meno adeguato per comprendere e descrivere le incredibili realtà delle nostre esistenze. Chi crea fantasie, che lo faccia utilizzando gli antichi archetipi del mito e la leggenda o quelli moderni della scienza e della tecnologia, può parlare seriamente quanto qualsiasi sociologo, e in forma molto più diretta, su come è vissuta la vita umana, come si potrebbe e come si dovrebbe viverla”. Ursula K. Leguin
Nell’apogeo della Guerra delle Galassie promossa da Reagan, la biologa Donna Haraway lanciò al mondo la speranza di un femminismo postumanista capace di generare retoriche per la comprensione dello spazio-tempo chiamato tecnoscienza. In mezzo al fragore dei missili, Haraway si appellava ad una rappresentazione figlia del militarismo, del capitalismo patriarcale, del socialismo di Stato e della fantascienza per proporre un tipo di pensiero che qualificò come situato, distribuito e globale. Questa discendenza bastarda non era altro che il cyborg. Come il mostro creato e ripudiato da Frankestein, il cyborg di fine XX secolo metteva in discussione certezze, cancellava frontiere e contaminava le categorie binarie sulle quali si basano la vita e la morte del pianeta. Dobbiamo abbandonare le dicotomie attraverso le quali osserviamo il mondo, fisico/virtuale, natura/cultura, macchina/organismo, animale/umano, perché non sono più capaci di salvarci, diceva Haraway.
Ormai non possiamo distinguere i limiti tra l’una e l’altra perché sono sparite nel buco nero della loro stessa implosione. Smontava così l’illusione dell’Uno che ci porta irrimediabilmente ad una logica apocalittica di contrapposizione all’altro, utilizzando una retorica rovesciata che portava a conversare in maniera blasfema Marx e Bruno Latour con scrittrici del sottostimato genere della fantascienza femminista.
Anche oggi, agli inizi del secolo XXI, la creatura ibrida reclamata da Haraway continua a interpellarci. Nonostante le sia stato risposto abbondantemente con androidi sentimentali e umani pluripotenziati e nonostante ci siamo lasciati sedurre da un orizzonte di molteplici identità frammentate, di logica della guerra e di scenario apocalittico, con salvatore incluso, continua ad essere gli occhiali attraverso i quali guardiamo il mondo.
Fukushima now
E ora abbiamo Fukushima. Fuoco. Controllo delle radiazioni. Maschere. Freddo. Rifugi. Paura. Impotenza. Apocalypse. Now. È tanto ingovernabile la natura quanto abominevole la tecnologia: abbiamo bisogno di Governi che ci aiutino. Mentre popolazioni atterrite fanno colazione con lo iodio, multinazionali e Governi controllano l’informazione e investono nelle energie eoliche. Qualcuno ha parlato delle responsabilità? Chi si è domandato a beneficio di chi vanno questi progetti e a che prezzo?
Se lasciamo la rugosa realtà per addentrarci nella fantascienza il panorama non è molto lontano. Nella recente fortunata serie britannica Outcasts, un gruppo di pionieri sopravvissuti ad una catastrofe lotta per impiantare una utopia in un altro pianeta. Tra i suoi abitanti ci sono i replicanti AC (Coltivazioni Avanzate). Di fronte all’espansione di uno sconosciuto virus letale, si dubita sullo status di soggetti di diritto degli AC: trasmetteranno il virus? Meritano di vivere nonostante non siano completamente umani? Alla fine le forze armate della colonia decidono di sterminarli. Lo stesso tema che Blade Runner ci offrì 20 anni fa, esattamente quando Haraway intraprese uno studio che terminò con la creazione del Manifesto Cyborg.
Per alcuni spettatori le lacrime si trasformano in rabbia sfrenata.
Tuttavia, l’impotenza che generano questi scenari è analizzata anche da un tipo di fantascienza che non pretende essere un oracolo apocalittico del futuro, ma un terreno fertile per la etica.
Gli universi creati da scrittrici come Octavia Butler, Ursula K. LeGuin o Joanna Russ esacerbano le possibilità del presente giocando al “E se…?” senza catastroficità. Che succederebbe se esperti alieni in ingegneria genetica programmassero una vita postnucleare per sopravvissuti umani? Che contraddizioni vivremmo in un pianeta anarchico? E se fossimo maghi capaci di cambiare il mondo con una pozione? O frammenti che viaggiano nel tempo e nello spazio per mettere in discussione le nostre forme di vita? I mostri inappropriati/inappropriabili della fantascienza femminista non verranno a salvarci, però continuano a promettere il disegno di interferenze che ci facciano rendere conto dell’incerto magma di carne e informazione, chip e geni, testo e virus, che siamo diventati. E, soprattutto, per domandarci delle responsabilità e contraddizioni che questo divenire crea nell’universo del quale siamo solo parte, né amanti né schiavi.
“Preferisco essere un Cyborg, piuttosto che una Dea” – Donna Haraway
jejeje! Yo siempre prefiero el idioma original, pero quería compartir tu artículo, que me gustó mucho. si tienes algo para traducir, que quieres compartir me gustaría ponerlo en el blog.
un abrazo
leerse en otro idioma.. qué raro!!! MIL GRACIAS!!!!!
helen
weeee!!! che carina che sei! si si diglielo, mi è piaciuto un sacco questo pezzo.
un bacione :*
lafra ti adoro 🙂
e ora lo dico subito a Helen che l’avete tradotta.
daje Fem a sud!