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Report sull’incontro “Donne che sbattono contro le porte”

Da quando sono ritornata dall’incontro “Donne che sbattono contro le porte” , organizzato dal collettivo Degeneri , sono entusiasta per tutte le informazioni e le riflessioni fatte su un argomento importante come quello della violenza sulle donne tanto da aver deciso di volerle condividere con voi tutte/i.

Ad aprire l’incontro è stata Roberta, dottoranda in studi di genere, che ci ha descritto come fosse la violenza contro le donne all’inizio del novecento, facendo emergere delle similitudini che sono allarmanti. Ci ha raccontato tante storie di donne che si sono ribellate alla violenza e che per questo hanno pagato con la vita. Carmela, per esempio, durante gli anni ‘20 viene uccisa con un colpo di coltello alla gola da suo marito dopo aver sporto denuncia contro di lui. Dopo anni di violenze e sopportazioni Carmela decide di denunciare suo marito perché voleva proteggere suo figlio di quattro anni che stava diventando anch’esso oggetto della violenza del marito. Carmela è solo una madre coraggiosa che vuole difendere suo figlio dalle botte, e che per questo si ribella e viene uccisa. Suo marito, che scappa a Marsiglia, dopo poco verrà arrestato e condannato con l’attenuante di “lieve applicazione”, perché già allora agli uomini erano concessi sconti e giustificazioni per la loro violenza a discapito delle donne che venivano definite di “dubbia condotta morale”.

Negli anni ’30 le denunce per violenza sono spesso precedute da altri tipi di denuncia (in questi anni con il codice Rocco la violenza contro le donne passa da “reato contro la persona”, come era previsto nel precedente codice Zanardelli, a “reato contro la famiglia”). Questo è il caso di Donna Maria, che denuncia suo marito per averla abbandonata insieme al figlio piccolo e averla costretta, alcuni giorni prima, a vendere il letto matrimoniale e quindi a dormire per terra. Solo in seguito, durante gli interrogatori la donna ammetterà di aver subito ripetutamente violenza dal marito. Questo comportamento era determinato anche dal fatto che gli agenti di allora scoraggiavano le denunce delle donne per violenza poiché le botte, le percosse, venivano ritenuti mezzi di educazione, che l’uomo usava per placare e domare la moglie pettegola, di dubbia condotta morale.  E’ il caso di Peppa, una donna picchiata dal marito che quando lo andrà a denunciare si troverà di fronte degli agenti che giustificheranno la violenza da lei subita affermando che “il marito la bastonava per porre freno al suo carattere violento”. Quante donne ancora oggi si sentono accusate di esser troppo aggressive? Troppo violente nei modi? Quante di queste sono state picchiate con la scusa che era per il loro bene? Che dovevano darsi una regolata?

Di anni ne sono passati 70, ma le storie si assomigliano tutte, anche nelle dinamiche. Una conferma ci arriva da Vera e Chiara, due donne dello Sportello anti violenza Lillith, che è aperto da soli otto mesi a San Sebastiano al Vesuvio (Na), ma a cui già tante donne hanno chiesto aiuto. Su trenta donne che chiedevano aiuto solo un caso è risultato mobbing, i restanti erano tutti di violenza nell’ambito di relazioni intime, spesso violenza domestica. Le mura di casa si confermano gli scenari dove si consumano le peggiori violenze, luoghi che vengono descritti come prigioni o galere per le donne. Per quanto diverse le condizioni sociali, economiche, lavorative, ci sono degli elementi che permettono di creare un “Ciclo della violenza”  teorizzato già nel 1979 da Lenore Walker. Il ciclo è costituito da 3 fasi:

1° fase: Accumulo della tensione. E’ caratterizzato da una continua denigrazione della donna da parte dell’uomo. Si tratta di un climax ascendente che si ottiene attraverso la violenza psicologica ed economica e che porta al totale svilimento dell’identità della donna.

2° fase: La violenza diventa fisica e si esprime attraverso percosse, botte, stupri ed ecc. In questa fase, oltre ai maltrattamenti fisici, ciò che preoccupa la donna è l’elemento psicologico dell’imprevedibilità dell’aggressione. La donna vive costantemente la paura dell’aggressione e ciò produce un rapporto di dipendenza. Le relazioni violente non hanno solo lo scopo di annientare l’identità della donna, la sua autostima, ma anche di creare un rapporto di dipendenza in cui la vittima resta incastrata.

3° fase: E’ definita “la luna di miele” ed è il momento in cui l’uomo violento temendo di perdere la compagna, cerca di farsi perdonare e quindi apparentemente si calma, talvolta chiede scusa, cerca la donna e le fa promesse e regali. Tutto questo fa sì che la donna  creda nel cambiamento dell’uomo. Il ciclo però ricomincia nuovamente ed inevitabilmente, in un movimento a spirale in cui la violenza diventa sempre più feroce e più assidua. Il ciclo può concludersi con la morte della donna.

Questo ciclo, che è più comune di quanto si immagini, ci fa capire l’importanza dei centri antiviolenza dove le operatrici insieme alle donne cercano di superare la violenza.  E’ importante ricordare che i centri antiviolenza non salvano le donne ma sono le donne a decidere di salvarsi e quindi di rivolgersi a chi può aiutarle in questo, ovvero i centri antiviolenza che le aiutano a ricostruire il loro sé violato, distrutto da anni di violenze.

Nonostante lo sportello sia un centro antiviolenza, la domanda di aiuto è spesso indiretta, ovvero le donne che vi si rivolgono raramente richiedono un intervento rispetto ad un episodio di violenza, piuttosto tale richiesta passa prima per un’altra come quella di orientamento nel mondo del lavoro o di consulenza psicologica. Solo grazie alla capacità delle operatrici di leggere tra le righe l’episodio di violenza esce fuori.

I centri antiviolenza sono indispensabili nella lotta contro la violenza  ma da soli non bastano. La violenza va vista nella sua complessità e quindi il lavoro fa fatto su più livelli, perché la violenza è il mezzo attraverso cui il patriarcato perpetua la dominazione di un genere rispetto ad un altro. Il primo passo è sicuramente l’assunzione collettiva di responsabilità, rispetto alla lotta contro la violenza contro le donne, da parte di tutti, dalla società civile alle istituzioni, dalla politica alla cultura. La risposta che però arriva da questo governo è fatta da pacchetti sicurezza che strumentalizzano la violenza contro le donne per attuare leggi razziste e xenofobe, e il taglio dei finanziamenti che strangola i centri antiviolenza, rendendo luoghi che dovrebbero essere sicuri luoghi precari, che spesso sono costretti a chiudere.

Nell’ambito della violenza ha un forte peso sicuramente l’indipendenza economica, che viene sempre impedita, ostacolata dall’uomo violento perché attraverso di essa la donna assume sicuramente più libertà ed autostima, elementi che aumentano le possibilità di un suo allontanamento da una relazione violenta. Proprio per questo lo sportello Lilith ha al suo interno un settore dedicato all’orientamento lavorativo che permette alle donne di prende coscienza delle loro capacità, delle loro competenze e di affrontare con maggiore sicurezza il mondo del lavoro.

La storia della lotta alla violenza è complicata, lunga e tortuosa. L’ultimo intervento, quello dell’avvocatessa Elena Coccia, ci ha permesso di conoscere alcune importanti fasi della lotta femminista per ottenere, per esempio, l’inserimento nel codice penale del reato di violenza sessuale. Infatti prima di allora il codice penale prevedeva una divisione tra  “violenza carnale” e “atti di libidine violenta”:  per la prima definizione si intendeva lo stupro ai danni di una donna sposata o vergine, mentre nella seconda rientravano tutte le altre forme di violenza. Questa divisione comportava un interrogatorio atroce nei confronti della donna, a cui venivano chiesti anche i più piccoli dettagli, con la scusa di doversi accertare se si trattava di “violenza carnale” o “libidine violenta”.

Gli interrogatori erano così crudi che ad una bambina di soli 9 anni, che fu stuprata da un salumiere, e che dopo vari e ripetuti interrogatori aveva imparato che cosa era il pene, e quindi usava tale termine per indicarlo nei suoi racconti della violenza, fu accusata dagli avvocati della difesa di essere una “bambina maliziosa”.  Un’espressione che ovviamente aveva come obiettivo quello di dimostrare la non veridicità dello stupro e quindi di conseguenza la consensualità da parte della bambina. Ancora oggi, come sappiamo, esistono teorici che portano avanti tesi in cui i bambini avrebbero la capacità di sedurre gli adulti, deresponsabilizzando i pedofili e allo stesso giustificando gli atti di pedofilia.

Per fronteggiare la situazione giuridica in cui erano le donne, il movimento femminista degli anni 70 progetta una legge popolare per fronteggiare la violenza contro le donne e riesce a portarla in Parlamento. Il percorso di questa legge però fu tortuoso e lungo [leggi la storia della legge sullo stupro] tanto che solo 19 anni dopo si avrà una legge contro la violenza sessuale che unificherà le due definizioni di “violenza carnale” e “libidine violenta”. Questa unificazione limita, durante l’interrogatorio, la morbosità delle domande ma non la ricerca di attenuanti. Sappiamo tutti/e infatti che continuamente vengono concesse giustificazioni agli uomini violenti, che cambiano nome a seconda della situazione, ma che servono esclusivamente per minimizzare o negare la violenza e allo stesso tempo di screditare la vittima.

L’intervento dell’avvocatessa è ricco di aneddoti e storie di donne e bambine/i vittime di violenza, con le/i quali lei stessa è restata in contatto per tutti questi anni. Tra le tante domande che queste persone, ormai adulte, le hanno posto una è sicuramente spiazzante. Le è stato chiesto: “perché le brave persone sono quelle che devono andar via e i violenti restano?”. Questa domanda si riferisce alle case rifugio, di accoglienza, in cui molte donne e bambini/e vengono portate per motivi di sicurezza, o alle città lontane in cui si è costretti a scappare per sopravvivere. Ecco, anche noi spesso e giustamente parliamo di luoghi che dovrebbero essere concessi alle donne, luoghi in cui potersi sentire sicure e dove poter avere i mezzi per ricostruirsi una vita, ma è altresì giusta la domanda di chi non capisce il perché la vittima debba andar via. Non è più giusto che sia il violento, il carnefice, l’assassino a essere cacciato? Non dovrebbe essere permesso  alla donna di poter restare nella propria città, circondata dai propri affetti e, allo stesso tempo, di  allontanarsi, proteggersi da un uomo violento? Non è forse ingiusto aggiungere alla violenza già subita quella dell’abbandono, dell’allontanamento dal proprio mondo?

Sappiamo tutte/i che ciò è necessario e indispensabile per la vita delle donne e dei bambini/e, ma è anche vero che è tale perché non c’è un supporto dalla comunità, dalle istituzioni, dalla cultura. Oggi come tanto tempo fa la vittima passa per carnefice. La vittima è isolata, denigrata, svilita, oltraggiata, offesa, mai creduta. Ecco da cosa nasce questa necessità, ed ecco da cosa deriva l’altra interessante domanda che è stata posta durante il dibattito.

Nelle istituzioni anglosassoni le donne che subiscono abusi agiscono legalmente non solo contro il violentatore ma anche contro la città o lo Stato in cui la violenza è avvenuta. Tale decisione è motivata dal fatto che la violenza è frutto di una cultura, di un ambiente in cui dominano il sessismo e  la misoginia. In Italia ciò è estremamente evidente, dato che la mercificazione del corpo femminile è l’humus culturale da cui nasce la violenza.  Per questo motivo e la connivenza in ciò delle istituzioni, non credete che queste ultime, soprattutto locali, debbano essere citate in giudizio come responsabili civili? Dato che loro alimentano tale cultura maschilista? Una delle obiezioni che sono state fatte a questa ipotesi è che la risposta che le istituzioni potrebbero dare per evitare una denuncia di tale tipo potrebbe essere la militarizzazione del territorio, o la messa in atto di codici che regolino e limitino la libertà di transito, di abbigliamento, di comportamento ed ecc. Il rischio di atti sconsiderati e fascisti da parte delle istituzioni locali, come possiamo constatare già ad oggi, è molto alto ma forse denunciare anche i comuni, le città, i paesi potrebbe dar inizio a quella famosa presa di responsabilità collettiva che noi tutte/i ci auspichiamo. E a tal proposito, vorrei sapere, voi cosa ne pensate?

Posted in Fem/Activism, Iniziative.