Skip to content


Lo smalto nero

Avevo un brutto rapporto con mia madre.

Lei, quella che se ne fregava delle convenzioni sociali, che si vestiva come voleva, che si imponeva con la sua presenza in qualunque contesto, alternativo o tradizionale, che mi metteva in imbarazzo davanti ai compagni di scuola che avevano madri che sembrano più simili a quelle della pubblicità in televisione, che non si vergognava di indossare la gonna trasgressiva o la maglietta minimalista.

Io, quella che dava troppa importanza a quello che dicevano gli altri, che temeva i pettegolezzi, che odiava essere al centro dell’attenzione, che voleva apparire anonima, voleva essere invisibile, per soffrire di meno, per non soffrire mai.

Dovetti aspettare di crescere per capire che mia madre era quella che era proprio perché aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza soffrendo tutti i giorni e se eri troppo sensibile al parere degli altri, in special modo se venivi da una famiglia dove nessuno ti regalava la sicurezza che ti faceva forte contro tutto e tutti, avevi solo due alternative: soccombere o diventare una roccia, come lei.

Mia madre mi insegnò che l’omologazione non poteva essere una cosa buona e che ogni persona aveva diritto a esprimersi e ad essere come preferiva. Mi insegnò a essere sicura ed era il mio elemento di contraddizione permanente, dentro casa, a contrastare la mediocrità e la pochezza culturale che ogni giorno vedevo fuori.

La sua frase preferita era sempre: “vuoi una madre normale? Ma non ne hai abbastanza di normalità là fuori?”.

Quando si innamorò dell’uomo con cui rimase per qualche anno, i primi tempi pensai quasi che fosse la via utile per “aggiustarla”.

Dopo un primo periodo in cui andarono d’amore e d’accordo li vidi litigare spesso. La prima volta fu perché lei non voleva che lui venisse a vivere con noi. C’ero io e il mio diritto alla privacy. Lei su questo non transigeva.

Ricavavano la loro intimità in occasioni diverse e tutto sembrava andar bene.

Lui non era niente di speciale. Una persona spocchiosa, presuntuosa. Pensava di essere tanto intelligente ma in realtà era solo un egocentrico che si era attaccato alla donna trasgressiva per dimostrare al mondo quanto lui fosse moderno.

Mia madre era spiritosa, simpatica, ironica, intelligente, acuta, di una bellezza particolare, unica, disarmante. Capivo il perché lui si fosse innamorato di lei ma proprio non capivo perché lei si fosse sentita attratta da quello lì.

Ma l’adolescenza, sapete com’è, non porta mai buoni consigli a chi la vive e in quella situazione io scoprii tutto il vantaggio di poter finalmente sfogare su mia madre le mie infantili frustrazioni.

Qualunque cosa dicesse o facesse, qualunque fosse il motivo per cui lei e l’altro litigassero, per me aveva sempre torto lei.

Anzi, per un po’ giocai a mettermi perfino in competizione. Mi schieravo apertamente con uno sconosciuto per dare addosso a mia madre. Perché in fondo cosa poteva esserci di meglio che un alleato miserabile che mi faceva diventare strumento delle sue ripicche per ripagare mia madre di tutta l’inadeguatezza che mi aveva fatto sentire al suo fianco?

Del fatto che mia madre non avesse responsabilità per quella che era e per come mi sentivo io in sua presenza ho capito solo dopo. Ma fino a quel momento assistevo senza battere ciglio a giornate di violenze che ai miei occhi sembravano quasi meritate.

Gli uomini violenti fanno esattamente questo: prendono due donne che hanno conflitti da risolvere, relazioni da costruire, affetti da riconfermare, e le mettono l’una contro l’altra sfruttando ogni dettaglio per insinuarsi e indebolire la loro vittima.

Un giorno mia madre disse che quello che le faceva più male non era quell’uomo, un estraneo, che lei avrebbe potuto mandare a quel paese in poco tempo se la questione non si fosse un po’ complicata. Quello che le faceva più male era il fatto che rischiava di perdere me. Rischiava di non vincere una battaglia nella quale lei era la preda da sconfiggere, mentre perdeva credibilità e autorevolezza nei miei confronti, giorno dopo giorno, mentre io smettevo di trattarla da madre e quasi la consideravo una sorella nemica, di quelle alle quali puoi dire qualunque cosa brutta o dalla quale puoi permetterti di non recepire alcun consiglio perché la senti troppo umana e imperfetta per permetterle di ricordarti che hai delle responsabilità e che devi crescere.

Quando tornando da scuola trovai mia madre riversa sul pavimento, con il sangue che le ricopriva i capelli e il volto sfigurato da un bruttissimo taglio, pensai fin da subito che un po’ fosse stata colpa mia.

Se io non l’avessi lasciata sola. Se non avessi considerato quell’uomo un alleato per togliere credibilità a quella donna che mi aveva amato alla sua maniera, unica, irripetibile, che mi manca moltissimo, perché il mondo senza di lei è opaco, grigio, senza anima.

Perché il mondo osservato attraverso i suoi occhi era un sogno, una meravigliosa poesia ritagliata tra una orribile realtà e l’altra.

Qualche tempo prima lei mi aveva detto “ho solo te… se mai dovessi ammalarmi, dovessi essere attaccata a macchine d’ospedale che si ostinano a tenermi viva anche se non lo sono più… ti prego, se te la senti, se ne hai voglia, fammi andare via con dignità”.

Non avevo ancora diciotto anni ma custodivo quella sua richiesta da tanto tempo, fino a capirne il pieno significato, perché una donna così viva, che amava sentire e vedere, toccare, pensare, amare, che respirava ossigeno e passione, che rappresentava bellezza e autonomia, autodeterminazione, non puoi condannarla a essere ostaggio di gente senza scrupoli che vuole usarla soltanto per toglierle il diritto di gestire la sua vita, il suo corpo, la sua morte.

Sono maggiorenne da due anni e ho minacciato di denuncia tutti quelli che esercitavano accanimento terapeutico. Ho incontrato una barriera di ignoranza e pregiudizi e perciò ho portato mia madre in una nazione più civile, dove tutto ciò è possibile.

Hanno minacciato di denunciarmi per sottrarmi la tutela di quel che resta di mia madre. Hanno minacciato di rinchiudermi, me l’hanno detto con parole lascive, le stesse che usano certi integralisti cattolici “ti comprendiamo per la sofferenza… ma la sofferenza rende ciechi…”, e nel frattempo infierivano su una donna inerme, senza difese, annegavano mia madre nell’acqua benedetta, proprio lei che odiava le benedizioni in nome di santi che sovente furono assassini, e proponevano di rinchiudermi in un reparto psichiatrico per togliermi ogni possibilità di agire per realizzare la volontà di mia madre.

Parole e gesti di una violenza inaudita, contro due donne, per la prima volta sorelle, l’una assieme all’altra, in cui per chiedere garanzia di rispetto per lei bisognava innanzitutto esigere rispetto per me stessa. La lezione più grande che mia madre mi abbia mai dato in assoluto.

Oggi è il giorno in cui mia madre torna a essere quella che è sempre stata: una donna libera!

La preparo per il suo momento. Le metto addosso il vestito che le piaceva tanto. Le scarpe non le vanno più perché i suoi piedi si sono deformati. Ne ho recuperate un paio quasi identiche ma di qualche taglia più grande. L’ho pettinata e truccata.

Non posso non metterle il suo smalto nero. Nero brillante come il colore di chi spezza il biancume sordido dell’ipocrisia virginale e di chi frantuma l’aureola pallida della schiavitù monacale.

Metto lo smalto anch’io. L’ultimo bacio. L’ultimo saluto.

Ti voglio bene, mamma. E grazie!

T.

Posted in Anticlero/Antifa, Corpi, Narrazioni: Assaggi, Omicidi sociali, Storie violente.


One Response

Stay in touch with the conversation, subscribe to the RSS feed for comments on this post.

  1. enr1ca says

    senza fiato. senza parole. Grazie per questa lettera.