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La siciliana ribelle

E’ un film di Marco Amenta, ispirato alla storia vera di Rita Atria, la ragazza che dopo l’assassinio del padre e del fratello si decide a collaborare con il giudice Borsellino per rivelargli tutto quello che sa degli affari dei clan mafiosi del paese.

Ci sarebbero molte cose da dire su quel periodo e tante le abbiamo già scritte, poichè quel periodo, per alcune di noi, è stato fondamentale. Lo abbiamo vissuto direttamente, senza sconti, come tutte le persone che sono state impegnate in un modo o nell’altro nella lotta contro la mafia.

Non ci interessa la retorica sullo Stato buono e sulla giustizia uguale per tutti giacchè questo film compie una parziale mistificazione quando attribuisce la morte del magistrato ad un clan di rozzi malavitosi dove invece a distanza di anni ancora si parla di responsabilità politiche e di un terzo livello che coinvolgerebbe oltre la mafia, servizi segreti, militari, politici dei quali non si parla mai.

Non ci interessa neppure la consolazione delle sentenze che renderebbero giustizia, almeno in parte, al sacrificio di tante persone che sono morte fisicamente o socialmente in nome di una idea. Noi sappiamo che chi ha coperto l’omicidio di Peppino Impastato non è mai stato giudicato così come sappiamo che tanti mandanti di giornalisti e militanti antimafia non sono mai stati neppure nominati ufficialmente.

Non ci interessano queste considerazioni che culturalmente archiviano un fenomeno che invece è sempre presente nella vita di tutti noi. Ci interessano però dettagli che questo film ha rilevato e sul quale si è voluto legittimamente concentrare, facendo lo sforzo di rendere in immagini un fenomeno culturale, ovvero quello che poi è alla radice delle ammazzatine quotidiane che sporcano di sangue e di menzogne ogni pezzo d’italia, compresi i luoghi nei quali la mafia arriva a prendersi appalti e a guadagnare soldi pubblici.

Questo è l’altro errore che questo film fa: relegare la mafia ad un fenomeno siciliano, quasi campagnolo, paesano, con una scenografia che inserisce i personaggi in una società che noi sappiamo perfettamente essere diversa.

Negli anni ottanta noi c’eravamo. Le pallottole delle faide mafiose tra clan ci sfioravano ogni volta che violavamo il coprifuoco imposto da una guerra che faceva anche tanti morti civili. Sappiamo che la mafia campagnola era diventata imprenditrice negli anni settanta, che si arricchiva con il mattone e che negli anni ottanta grazie a traffico di droga e armi tutto diventò più spregiudicato. Poi arrivarono quelli che investivano in borsa, compravano banche, riciclavano i soldi sporchi con il denaro dei contribuenti, e molte altre cose ancora che se avete voglia e non avete paura di guardare in faccia la realtà potete approfondire in tanti libri e documentari fatti bene.

Negli anni ottanta perciò non esistevano le case all’antica alla Don Salvo perchè i mafiosi pacchiani avevano ville con marmo di carrara e rubinetteria d’oro. Non esistevano neppure le sfilate anni ’50 del mafioso del quartiere con famiglia al braccio al seguito della processione. Non nella maniera in cui il film mostra rinvigorendo stereotipi vecchi almeno di trent’anni prima.

Però azzecca la definizione di una mentalità misogina e maschilista e questo sforzo di lettura culturale degli eventi, per quanto rischi di essere vanificato dal fatto che a tanti possa sembrare un periodo oramai tramontato, vale la pena di una visione del film.

I mafiosi degli anni ottanta stavano dentro i comuni, nei palazzi del potere, mentre la manovalanza restava quasi invisibile e si prestava alla manodopera delittuosa spostandosi di regione in regione al servizio di mandanti che premiavano i killer con stellette di avanzamento in grado nelle famiglie mafiose.

Rita Atria cresce in una famiglia mafiosa. Sono assassini il padre e il fratello e in un regolamento di conti per il dominio degli affari sul territorio muoiono ammazzati.

Rita esce fuori da quel mondo senza avere chiaro il fatto che ogni volta che ti scontri con un potere devi prima verificarlo nel tuo privato. Come quando denunci una generica violenza contro le donne ma non riesci a vedere e denunciare quella compiuta da tuo padre, tuo fratello, tuo marito, il tuo fidanzato, il tuo amico, conoscente, collega di lavoro.

La madre di Rita è completamente succube della mentalità mafiosa che regala omertà e complicità agli assassini. Rita invece compie un processo di crescita che la porterà a fare delle distinzioni complesse e a vedere con grande difficoltà e sofferenza tutto il marcio che esisteva anche dentro la sua famiglia.

Questo la porta progressivamente ad una solitudine umana e sociale attenuata solo dalla presenza del giudice che fino alla fine la sosterrà.

Tutti gli altri, paesani, madre, clan, la chiamano “pazza” e “puttana”. Ogni donna che si ribella ad uno stato di oppressione  viene sempre giudicata “pazza” o “puttana”.

In questo, come abbiamo già scritto altre volte, c’è una contiguità culturale tra il fenomeno mafioso e il neomaschilismo contro il quale è necessario schierarsi. Il linguaggio è lo stesso, il metodo è lo stesso, la mentalità è esattamente identica. Mafiosi gli uni e mafiosi gli altri.

L’isolamento sociale, doversi nascondere, il mobbing, le intimidazioni, i ricatti, le minacce, le lusinghe, sono tutti metodi mafiosi che mirano al silenzio di qualcuno che rivela le mistificazioni e decostruisce significati e menzogne che vengono spacciati per verità.

Borsellino muore con l’esplosione di una carica che ammazza anche varie persone della sua scorta. Rita Atria è troppo fragile e giovane per reggere da sola il peso di una simile responsabilità, un intero processo, basato sulle sue testimonianze. Non vuole cedere, non vuole darla vinta a quelli che la vogliono “pazza” a ritrattare accuse confermate da tanti riscontri. Si suicida come ultimo gesto di libertà, dopo aver perduto tutte le certezze sulle quali aveva costruito la sua vita.

Il film rende quel momento come l’ultimo grande atto di libertà e ribellione di una ragazza che non voleva cedere ai potenti. E’ stata sicuramente una bella scelta. In generale Rita Atria è diventata un simbolo di una battaglia forte contro due sistemi di potere, la mafia e il maschilismo, la strumentalizzazione delle donne come elemento di ritorsione, ricatto e coesione del potere, la “famigghia” intesa come patto di complicità a tutela di uomini, criminali, violenti.

Se non fosse stata dalla parte dello “Stato”, o meglio se lo “Stato” fosse stato colluso, se non fosse capitata in una fase contingente e storica particolare, se fosse capitata qualche anno prima o qualche anno dopo forse la difesa dei mafiosi avrebbe fatto grandi sforzi per dimostrare che quella ragazzina fragile, perfino suicida, in fondo non poteva essere credibile perchè la nostra società, contro le vittime di mafia così come della violenza maschile, reputa affidabili gli arroganti, le bestie, i violenti e non concede tregua, credilità, legittimazione sociale alle vittime che pure dovrebbero sempre essere tutelate.

Quello che ci rende orgogliose è che la sicilia è sempre stata una terra di donne ribelli a partire da Franca Viola che da sola mise in discussione il matrimonio riparatore, poi altre che hanno combattuto per vedere garantito il proprio diritto a non essere stuprate, picchiate e vilipese dagli uomini con i quali avevano la sfortuna di vivere, alle donne contro la mafia e anche a quelle che sono in grado di reggere testa ad assassini di ogni specie.

Perciò noi sappiamo che la sicilia, quella vera, non condividerà mai la deriva reazionaria e discriminatoria che sta prendendo l’italia. Non lo farà perchè in questa terra sappiamo cos’è la lotta, incluse le conseguenze, e non ci nascondiamo dietro una tastiera per insultare in modo mafioso le donne. Capito maschilisti? Capito ominicchi e quaquaraquà?

Posted in Fem/Activism, Omicidi sociali, Pensatoio, Vedere.