Sono
femminista dalla nascita. Credo che tutte le donne della mia famiglia siano
femministe, senza saperlo.
Non
puoi essere niente di diverso se cresci in un ambiente in cui ti vengono negati
un sacco di diritti. Provate voi a cercare una scappatoia quando all’età di 13
anni dovete scegliere il vostro percorso di studi e vostro padre vi dice che in
quella scuola non potete andare perché è a venti minuti di autobus.
Non
mi credete? Allora chiedete alle ragazze che ancora vivono nelle provincie
siciliane, calabresi, napoletane, pugliesi. Ma chiedetelo anche alle ragazze
che crescono nel nord, dato che dalle ultime notizie sui femminicidi, non mi
sembra che i maschi settentrionali siano più progrediti di quelli "terroni".
Volevo
frequentare un istituto che nel mio paese non c’era. Dalle mie parti potevi fare
solo la maestra o prendere un titolo di studio generico che non mi avrebbe
portato a niente. Io volevo un diploma. Mi piaceva sperimentare, volevo capire
di più di roba chimica, scienze, informatica. Nulla che avesse a che fare con
ruoli educativi o di cura collettivi.
Per
poter realizzare il mio progetto ottenni la complicità delle donne della mia
famiglia. Mia nonna disse a mio padre che aveva bisogno di me dopo la scuola e
che dunque sarei arrivata più tardi a casa. Mia madre firmò per l’ammissione.
Mia sorella, più grande, mi accompagnava ai bus ogni mattina con un motorino
scassato che si era fatto prestare da un amico.
Riuscimmo
a spuntarla per vari mesi finchè qualcuno, un deficiente che non poteva evidentemente
farsi gli affaracci suoi, non disse a mio padre che mi aveva visto entrare e uscire
dalla stazione degli autobus tutti i giorni. Mio padre reagì come reagiscono
gli schiavisti. Prima picchiò me, poi picchiò mia sorella, poi cacciò fuori di
casa mia nonna che in quel momento era lì, infine disse a mia madre che se
avesse ancora appoggiato quella scelta poteva fare le valigie e andarsene, da
sola, ripudiata, senza un soldo.
Mia
madre non lavorava perché mio padre l’aveva costretta a stare a casa a badare a
lui e ai figli. Non finiva mai di faticare e davvero non meritava una sorte del
genere. Così decisi di rinunciare.
Dopo
un paio di giorni di assenza mia madre tornò a casa da un giro dai parenti,
mise in un contenitore un po’ di soldi che si era fatta dare, fece le valigie,
mi disse di fare le mie, e andammo a casa della nonna. Mia sorella venne con
noi. Mio padre restò completamente solo. Quella stessa sera ricevette la visita
di una processione di parenti che gli vietavano qualunque avvicinamento a tutte
noi e il fratello di mia madre, il più grande della sua famiglia, mise sul
tavolo della trattativa la nostra
vertenza. Io dovevo poter andare nella scuola che avevo scelto e tutte noi
saremmo tornate a casa, altrimenti lui sarebbe rimasto non solo senza nessuno
di noi accanto ma non avrebbe avuto neppure il conforto dei parenti.
Mio
padre borbottò per qualche giorno, poi mio zio telefonò e disse che potevamo
tornare. Mia madre aveva imparato, per amor nostro, di noi figlie, ad essere
una buona mediatrice e non appena varcata la soglia cominciò a rassettare tutto
il casino che mio padre aveva lasciato in giro, come niente fosse stato. La sera eravamo attorno alla tavola a mangiare pietanze prelibate e a ridere e scherzare del più e del meno.
Cose
come questa in casa mia ne erano già successe e ne sarebbero accadute ancora.
Per il primo cosmetico in faccia, per la prima scarpa con i tacchi, per il
primo vestito scollato, per la prima uscita serale, per prendere la patente di
guida. In un certo senso era lui che preferiva essere preso in giro perché
doveva tenere alto l’onore maschile agli occhi della gente e voleva sempre
essere sicuro di poter dire che noi avevamo agito alle sue spalle. In realtà
volevamo soltanto crescere e diventare indipendenti ed è questo che un padre
dovrebbe desiderare per le sue figlie, no?
Quante
sono le donne che devono guadagnare piccole a grandi libertà, frammenti di
autonomia, schegge di indipendenza, rischiando ogni volta di essere punite? Con
la sensazione frequente di fare qualcosa di sbagliato, con grandi sensi di
colpa per aver trasgredito a chissà quale punto delle convenzioni sociali? E
chi sono quelli che hanno creato queste regole?
Di
donne, madri, come la mia ne ho conosciute tante. Compativano i propri uomini
come io non sarei mai in grado di compatire il mio. Da quando ho avuto
l’opportunità di scegliere: chi condivideva la mia esistenza doveva essere in
grado di sopportare la verità, quella vera, leale, sincera, schietta, a volte
dura ma necessaria, perché io non voglio compatire il mio compagno e perché lo
considero una persona che ha pari capacità di giudizio, di azione, di reazione,
di dissenso, di assenso, di condivisione, di scambio. Se lui mi obbligasse a
mentire lo lascerei. Se io dovessi sentire la necessità di mentirgli lo
lascerei. Eppure tanti chiedono
ancora quel genere di rapporti. Tanti nostalgicamente rimpiangono quel tipo di
donne che tentavano solo di sopravvivere e che facevano di tutto per proteggere se
stesse e le proprie figlie da uomini che tutto sommato non sono mai cambiati.
L’unica
cosa che è cambiata, per alcuni, e purtroppo sono assai pochi rispetto alla
maggioranza, è che hanno imparato a guardarsi dentro e non hanno difficoltà ad
ammettere la propria debolezza e le proprie contraddizioni senza affibbiare colpe fasulle alle donne con cui vivono, con autoironia, senza vittimismo e senza livore nei confronti di nessuno. Questo è l’unico
modo per costruire una relazione che abbia la dignità di potersi definire tale.
Oggi
sono laureata, ho un lavoro, non mi piace ma almeno ce l’ho, sono andata via di casa prima che ho potuto, mio padre mi
guarda con orgoglio e io mi chiedo come abbia fatto a dimenticare tutte le
volte in cui mi ha picchiata, a volte quasi fino a volermi uccidere, per
imporre la sua volontà sulle mie scelte. Lo guardo, gli voglio bene, ma non
posso dimenticare perché le figlie che vengono maltrattate, picchiate, vessate,
possono solo imparare a volere tanto bene a se stesse per pretendere lo stesso
amore da chiunque voglia condividere la vita con loro.
Quante
sono le figlie che riescono a crescere malgrado i padri? E quante sono quelle
che non ce la fanno? Quante solo le figlie che diventano donne in gamba, brave,
intelligenti, forti e quante invece quelle che non riusciranno a riprendere il
filo della propria esistenza?
Dimenticavo:
mi chiamo Evelina e sono solo una donna qualsiasi. Una come voi.
Leggi anche:
La schiavitù delle donne dura tutta una vita
Chi volesse leggere altre storie e testimonianze di donne e uomini che hanno vissuto direttamente la violenza maschile può cercare tra i post della categoria Narrazioni-Assaggi, Disertori, Storie violente
condivido quanto detto da Nadia e Natla. Ho vissuto qualcosa di simile, con la differenza che il problema non era mio padre, ma mia madre. Anni di gelosie, ripicche, vessazioni, divieti insensati che hanno condizionato la mia vita molto pesantemente. Quando ho potuto sono scappata lontano, all’estero, ma sempre troppo tardi. Beato chi perdona.
Condivido lo straniamento di Nadia. Io so solo che o riesci a perdonare e dimenticare, oppure non ci riesci, perchè se dedici di dimenticare poi dovrai esserci per quella persona quando avrà bisogno di te; non potrai rivangare anni dopo. Questo vuol dire sedersi sulla sponda del fiume che non è certo meno violento, solo meno onesto (oltre che autolesionistico).
Evelina dice “sopportare la verità, quella vera, leale, sincera, schietta, a volte dura ma necessaria”
Appunto. Inclusa quella che ci sono cose che una volta rotte, non è proprio possibile rimettere insieme.
Poi certo, le persone possono cambiare. Ma non è affatto detto che lo vogliano. Quindi perchè offrire una mano a chi non saprebbe che farsene? Perchè “adesso”, bontà sua, finalmente ci stima? Ma va a c…
Simbolicamente. Tangibilmente. Definitivamente.
Voglio esprimere tutta la mia ammirazione per te e per le donne fantastiche della tua famiglia: ci vuole tanto coraggio, ma è bello leggere un lieto fine ogni tanto.
Invece a me sembra che Evelina non ammorbidisca nessun giudizio nei confronti del padre e tanto meno abbia mai espresso desideri di vendetta violenta rispetto ai suoi gesti…
questa la differenza che rende il suo affetto davvero sincero e sentito nei confronti di un padre che non odia,non disprezza ma compatisce…
Evelina dice ad un certo punto che compatisce il padre che deve farsi prendere in giro per poter salvare l’onore maschile e poter dire che le donne di casa agiscono non col suo consenso ma dietro le spalle…una sorta di compromesso che il padre ha stretto con se stesso e con la famiglia.
Le considerazioni di Evelina rivelano una certa maturita’ e una saggezza interiore che le hanno permesso di andare oltre il muro della violenza e potersi quindi costruire una vita,riprendere il filo dell’esistenza in una direzione opposta…ha saputo prendere le distanze dalla violenza cosa che,anche per esperienza personale,non solo gli uomini armati del pensiero maschilista,ma diverse donne armate di rancore biliare non riescono a fare…restando imbrigliate in quella stessa trappola che condannano…alcune donne sono simbolicamente violente…il commento qui sopra e’ simbolicamente violento..cosi’ la vedo..
“Lo guardo, gli voglio bene, non posso dimenticare”
Ecco, mi devo complimentare, e senza ironia. Non riuscirei a voler bene a una persona, uomo o donna, che ha cercato in ogni modo di impormi la sua volontà. Non ho motivo per dubitare di questo affetto, ma in quanti casi si afferma qualcosa del genere in vicende molto simili per avere una sorta di ammorbidimento del giudizio proprio e/o altrui?
“Sì, è stato/a uno stronzo/a, mi ha picchiato per tutta la vita fin da quando ancora portavo i pannolini, mi ha maltrattato ed offeso in ogni modo possibile lo/la vorrei vedere in galera per tutta la vita (o anche, perchè negarlo, sottoterra), ma gli/le voglio bene eh, intendiamoci… “
Scusate se sono dura, ma la vedo così.
Grazie mille… Condivido in tutto e per tutto ciò che hai scritto, in parte anche io ho vissuto con questo “problema”,
ti auguro ogni bene.