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Donne e lavoro al tempo del biocapitalismo

http://www.ombrecorte.it/%5Cimages%5Ccop-morini.jpgDa
Liberazione
di oggi la recensione di "Per amore o per
forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo
" (noi lo stiamo leggendo e ne parleremo presto).

L’intera vita messa a produzione: nel suo ultimo libro Cristina Morini
indaga i cambiamenti nei processi produttivi

Donne e lavoro

al tempo del biocapitalismo

di
Adelaide Coletti

«Vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte» grida ancora
il Manifesto di Rivolta femminile del 1970 e l’ultimo libro di Cristina
Morini "Per amore o per forza.

Femminilizzazione del lavoro e
biopolitiche del corpo" (ombre corte/Uninomade, prefazione di Judith
Revel, pp.156, euro 15) raccoglie, riattualizzandolo, il senso di questa
sfida, che era e rimane la trasformazione sociale. Attraverso una
serrata critica ad «un’ortodossia femminista diventata istituzionale», immutabile nel tempo e nello storia, Morini rilancia il pensiero e la
pratica femminista a partire dalla condizione di vita delle donne, da un
contesto segnato da forme storicamente determinate dei dispositivi di
assoggettamento e sfruttamento, di fronte ad una variazione
antropologica generata dalle trasformazioni del lavoro.

In una crisi che – lungi dall’avere un carattere meramente economico – è
crisi di civiltà in cui molteplici sono le contraddizioni come diversi
sono i soggetti del conflitto, i femminismi della post-modernità
assumono un ruolo centrale nella trasformazione dei modi di analizzare
la realtà: la soggettività come molteplicità complessa e in divenire, la
critica ad un soggetto donna costantemente naturalizzato, l’esperienza
corporeizzata come fondamento di un nuovo materialismo, le alleanze come
strategie radicali di relazione tra le differenze.

Il libro, che fa parte della collana legata a quell’avventura
dell’intelligenza collettiva che è Uninomade, rete di ricercatori e
ricercatrici, studenti e attivisti di movimento che tenta di realizzare
una connessione delle intelligenze critiche, si compone di una serie di
testi in cui vengono indagate le modificazioni dei paradigmi produttivi,
quel "divenire donna del lavoro" che suggerisce la natura biopolitica
dei rapporti di lavoro attuali, complessivamente intesi. Il sistema
fordista di produzione era strutturato su una serie di dicotomie: tempi
di vita/tempi di lavoro, lavoro manuale/lavoro cognitivo, dentro/fuori;
categorie che oggi sfumano in un continuum biopolitico in cui è l’intera
vita che viene messa a produzione. I processi produttivi sono sempre
più legati a conoscenze, competenze, capacità relazionali, di
comunicazione, che vengono soprattutto acquisite fuori dai tempi di
lavoro, ed è proprio lo sfruttamento di queste capacità a rappresentare
oggi gli incrementi di produttività. La precarietà esistenziale diventa
il perno su cui attualizzare la questione del lavoro domestico non
retribuito delle donne che diventa il paradigma delle molte forme di
lavoro nella contemporaneità, a partire dal valore prodotto dal lavoro
che oggi eccede sempre la remunerazione.

Una lucida e materialistica analisi dei rapporti di potere attuali in
cui siamo tutte/i immerse/i che, come Judith Revel sottolinea nella
prefazione, condensa dieci anni di sperimentazione e analisi
evidenziando la drammatica urgenza di rifuggire da dogmi e tentazioni
identitarie per tracciare possibili vie di fuga rispetto al capitalismo
per come si dà nella contemporaneità, un biocapitalismo come sistema
paralizzante di tutte le attività del pensiero, della lotta, e del
desiderio, in cui le differenze sono funzionali all’accumulazione e il
patriarcato procede attraverso il depotenziamento del femminile «che non
avviene attraverso la sola repressione… ma anche e soprattutto
attraverso la progressiva femminilizzazione della società».

In un contesto segnato da una precarietà strutturale, il reddito
universale e incondizionato, collocandosi nel cuore del conflitto tra
capitale e vita, si configura come uno strumento di autodeterminazione.
Reclamare reddito per tutte e tutti dunque non significa arrendersi alla
precarizzazione del lavoro, né ad una visione assistenziale, ma rendere
possibili processi di ricomposizione di ciò che la precarietà ha
frantumato, rompere le catene dello sfruttamento, di nuove e vecchie
forme di disciplinamento, per liberare tempi, spazi e rendere possibili
processi di soggettivazione e autovalorizzazione, al di fuori delle
logiche mercantili e parassitarie di un capitalismo onnivoro che
pretende di sussumere la vita stessa.

Posted in Fem/Activism, Omicidi sociali, Precarietà, Scritti critici.