Dalle Cassandre Felsinee (Grazie a Umanità Nova!)
Contro l’oppressione e l’autoritarismo maschile
1. Dal Fascismo al dopoguerra
Durante il Fascismo la politica femminile – come quella verso la
gioventù, del «tempo libero», dell’autarchia «strapaesana» – fu uno
degli strumenti di persuasione di massa con cui il regime cercò di
tenere sotto controllo le proprie contraddizioni interne. Per il
Fascismo era, infatti, necessario addossare il peso della violenta
politica di stabilizzazione sulle componenti più deboli della struttura
sociale: come regime reazionario di massa esso nasceva, infatti, per
reprimere i fermenti di trasformazione e per bloccare ogni processo di
ricomposizione sociale dal basso.
Vero è che tra Otto e Novecento il protagonismo delle donne all’interno
delle lotte operaie europee era stato determinante e così, negli anni
Venti, il nazifascismo subentrò alla Chiesa cattolica nel ristabilire
l’asservimento della donna, attribuendole un ruolo «originario» di
«madre» e «angelo del focolare» entro quella sorta di religiosità della
«nazione» su cui si reggevano i nuovi regimi totalitari. Accanto alla
mitologia regressiva delle «illustri madri prolifiche» della «stirpe»,
il Fascismo attuava però una politica «femminile» di duro sfruttamento
e discriminazione: il lavoro delle donne si collocava negli ambiti più
umili e subalterni; i loro salari erano inferiori del 50% rispetto a
quelli maschili, secondo le leggi corporative fasciste (in realtà
oscillavano addirittura fra il 33% e il 45%, a parità di mansioni);
dopo il 1929 una serie di decreti estromette le donne dai lavori
amministrativi e dalle professioni, imponendo che il loro numero non
superi la quota del 10%; si ostacola per legge l’accesso all’istruzione
superiore; esse coprono i buchi di un’economia in crisi, lavorano a
domicilio in forme precarie e marginali, suppliscono alle carenze di
servizi e dovranno poi piegarsi ai «sacrifici» imposti dello «sforzo
bellico».
Ma il tentativo di offrire alle donne una mitologia sacrificale ed
eroica («la famiglia, la stirpe, la razza») in cambio di effettive
libertà sociali non riuscì allora a dar forma concreta al «nuovo ruolo
della donna»: consapevoli del valore liberatorio del lavoro, molte
donne continuarono a lavorare fuori casa nonostante difficoltà e
decreti; la politica demografica fu fallimentare nonostante la
propaganda ossessiva per far figli; la vantata «protezione della
maternità e dell’infanzia» non incise affatto sui tassi altissimi di
mortalità da parto e di malattie da sottonutrizione. Ed era una realtà
di sofferenza aggravata dalla rigida discriminazione di classe: non era
la «signora» ad esser costretta fino allo sfinimento al doppio lavoro
in casa e fuori, in un mondo in cui tutto – dalla misura del salario al
tipo di mansioni e di carriera – ribadiva la «naturale inferiorità
della donna» teorizzata dagli intellettuali del regime.
Da una parte s’imponeva la mitologia reazionaria per cui la
«donna-madre» non deve lavorare (era questa la teoria ufficiale del
Fascismo e la tradizionale posizione della Chiesa cattolica espressa da
papa Pio XI: «il lavoro è una corruzione dell’indole muliebre e della
dignità materna, perversione di tutta la famiglia»); dall’altra vi era
invece una realtà di sfruttamento, discriminazione, oppressione,
asservimento. Proprio lo scollamento tra immagine materna idealizzata e
dura realtà sociale era destinato a generare via via una conflittualità
repressa che si esprime nella sottrazione alle richieste del regime e
sfocia nella partecipazione di massa delle donne alla lotta partigiana.
Richiamate al lavoro «per il bene della patria» al posto degli uomini
in guerra, operaie e impiegate cominciano a riflettere e a parlare fra
loro, non più isolate fra le mura domestiche, né zittite dai propri
mariti. Partecipano e animano i grandi scioperi industriali del 1943 e
’44 nel Nord Italia e molte di esse sostengono e si mobilitano nella
lotta armata partigiana.
Secondo le cifre ufficiali, furono oltre 35.000 le combattenti in armi,
20.000 le donne che formarono reti informali di assistenza della guerra
partigiana, 70.000 le iscritte ai «Gruppi di difesa della donna per
l’assistenza ai combattenti» formatisi nell’ottobre del 1943. 4653 le
partigiane arrestate, 623 fucilate o cadute, 2750 deportate. Secondo la
storica Giulia Beltrami, però, i dati ufficiali sottostimano la
partecipazione effettiva delle donne alla Resistenza che fu assai più
vasta e forse addirittura superiore a quella maschile. Proprio la
Resistenza segna una prima rottura della subalternità delle donne e del
loro asservimento nei quadri della famiglia e dello Stato.
Non sorprende dunque che, all’indomani della Liberazione, i principali
partiti politici cercassero di inquadrare questa vasta spinta sociale
delle donne costituendo «sezioni femminili» per recuperarla nei quadri
gerarchici della politica istituzionale. Promuovendo la «parità» e
l’«emancipazione» della donna i partiti cercavano, infatti, di
riportare l’azione politica delle donne in un quadro normalizzato e
subalterno a una dirigenza e a valori politici interamente maschili.
2. Prima e dopo gli anni Settanta
Proprio l’esperienza della «Liberazione» e la controspinta
normalizzante dei partiti definiscono una questione storica che resterà
lungamente aperta e che riemerge con forza tra gli anni Sessanta e
Settanta come contrapposizione tra «emancipazione» e «liberazione».
Alle analisi precostituite che vogliono definire dall’alto il «ruolo
della donna nella società» si contrappone un’inchiesta sulle
contraddizioni reali e specifiche che opprimono la vita delle donne.
Per Carla Lonzi «la donna non va definita in rapporto all’uomo: su
questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra
libertà». Nasce allora una sorta di autoinchiesta attraverso la pratica
dell’«autocoscienza» come esame aperto, continuo, empirico delle forme
di oppressione che la società a dominanza maschile esercita sulla vita
e sulla sessualità delle donne.
Individuando una specifica contraddizione sessuale, il femminismo non
poteva che respingere la logica consociativa proposta dai partiti
istituzionali e lo scambio implicito fra voto (concesso alle donne nel
1946) e progressi emancipativi. Nei primi collettivi femministi si
impone così la pratica del «partire da sé» e la necessità del
«separatismo», cioè di momenti organizzativi separati e autonomi
rispetto a una «emancipazione» eterodiretta e appiattita sul modello
dell’emancipazione operaia.
All’interno del ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta il
femminismo è il primo movimento che critica l’idea marxista di una
«contraddizione principale» (quella tra capitale e lavoro operaio) a
cui si tratta di subordinare ogni istanza di «liberazione». Accanto
agli studenti del ’68 che gridano «uno cento mille Vietnam, una cento
mille Valle Giulia», proprio il femminismo definisce la pluralità non
gerarchizzabile delle contraddizioni (non solo economiche) e quindi la
necessità del moltiplicarsi di fronti di contestazione e di
organizzazioni specifiche. Lo slogan patriarcale «famiglia e sicurezza»
viene contestato, a parere di Carla Lonzi, sia da «la donna che rifiuta
la famiglia» sia dal «giovane che rifiuta la guerra» («Sputiamo su
Hegel», 1974). Ed è un’idea di mobilitazione plurima contro l’autorità
che non solo non vuole ridurre lo spettro degli antagonismi sociali
alla sola contraddizione tra capitale e lavoro, ma delinea forme di
organizzazione alternative alle organizzazioni gerarchiche dei partiti,
secondo una forma più fluida e diffusa che influenzerà i «movimenti»
degli anni Settanta.
Il movimento di liberazione delle donne fu il primo e il più
determinato nel considerare inadeguata alle proprie istanze la forma
partito, mostrando come nei partiti − sia riformisti che rivoluzionari
− le donne rivestissero un ruolo comunque subalterno ed esecutivo (da
«angelo del focolare» ad «angelo del ciclostile»). Del resto,
l’evidenza di una contraddizione uomo-donna non trovava nel patrimonio
concettuale di più di un secolo di lotte operaie strumenti adeguati per
una lotta femminile. Proprio il femminismo era allora nella posizione
migliore e anzi nella necessità di trovare nuovi modi d’intervento,
nuovi metodi di analisi e nuove forme organizzative.
È a partire da esperienze concrete − la marginalità delle studentesse
nella rivolta del ’68, la marginalizzazione delle donne nel sindacato,
la riproduzione di meccanismi di subordinazione nei gruppi della Nuova
Sinistra − che si moltiplica la presa di coscienza delle donne che si
scoprono negate e si fanno portatrici di nuovi valori.
Secondo i gruppi femministi, proprio l’analisi marxista tradizionale
delinea un processo di emancipazione estraneo alle istanze di
liberazione delle donne e anzi − con il suo modello formalmente neutro,
ma sostanzialmente maschile − divide le donne: quelle che lavorano
fuori casa e quelle che continuano a esercitare le funzioni
riproduttive del lavoro domestico. È invece necessaria una solidarietà
fra donne che metta in questione la falsa «naturalità» del lavoro
domestico analizzandolo in termini di lavoro produttivo (in quanto
riproduce la forza-lavoro).
Prima degli anni Settanta le analisi sociologiche del mercato del
lavoro, pur dando visibilità al ruolo delle donne, si erano basate su
categorie apparentemente «neutre» senza considerare affatto il lavoro
domestico. Ma lungo gli anni Settanta il movimento femminista ha messo
in crisi le riduttive griglie teoriche del sociologismo marxista
mettendo all’ordine del giorno la dimensione sessuata dei rapporti
sociali. Era una decisiva rottura teorica che portava l’analisi su
terreni nuovi.
Nel 1974 questa problematica fu dibattuta per la prima volta da quel
settore del movimento femminista che si era definito «Comitato veneto
per il Salario al lavoro domestico». «In Italia – ricorda Maria Rosa
Dalla Costa – il lavoro domestico, oltre che un discorso e un momento
di vivacissimo dibattito all’interno del movimento, aveva costituito il
fulcro di un coacervo di lotte e mobilitazione in anni in cui si
muovevano con forza settori fondamentali della società». Fu un
dibattito che seppe collocare il lavoro domestico in rapporto al
capitalismo come nodo cruciale per analizzare la subalternità sociale
delle donne in termini di sfruttamento. Si imponeva allora la necessità
di combattere le strutture oppressive all’interno della casa e di
rimuovere le barriere discriminatorie al suo esterno.
Il fenomeno del lavoro part-time, del lavoro nero, del lavoro
sottopagato esiste proprio per la posizione contraddittoria delle donne
che si trovano tra la sfera della produzione e quella della
riproduzione e della famiglia, in quanto si presume che esse debbano
essere in relazione di dipendenza da un salario maschile. La difficoltà
di organizzarsi con successo contro queste forme di sfruttamento
capitalistico, insieme alla passività o addirittura alla resistenza del
movimento sindacale a maggioranza maschile, ha portato al perpetuarsi
delle pratiche discriminatorie contro le lavoratrici, che è oggi un
fenomeno nuovamente in forte crescita e risospinge le donne in
posizione di subalternità entro la struttura patriarcale della famiglia.
Così, in questi anni la prestazione gratuita del lavoro domestico torna
ad essere aggressivamente mistificata e pretesa da Chiesa e Stato come
«lavoro d’amore», «femminilità», «senso della famiglia», «maternità»,
«affetto». E che vi sia oggi una sorda ribellione delle donne, lo
testimoniano le tantissime donne maltrattate, violentate, uccise
proprio da mariti e fidanzati, tra le confortevoli mura domestiche.
Anch’esse, per noi, sono cadute in nome di una volontà di liberazione:
rappresentano oggi il sintomo drammatico di un desiderio negato di
libertà, di una conflittualità repressa e al limite inconsapevole, che
forse prepara una presa di coscienza e una nuova resistenza
all’oppressione e all’autoritarismo.
Cassandre felsinee
bellissimo post… un’analisi lucida e dettagliata sul processo di emancipazione della donna, sul femminismo e il tasto dolente del lavoro domestico, che ancora oggi è gratuito e preteso dai più come mansione naturale delle donne… ma naturale di che? mi verrebbe da dirgli. Secondo me il problema sta nel come far riconoscre il lavoro domestico come lavoro effettivo e quindi con salario, pensione ed ecc… su questo discorso ho molti dubbi, perchè per quanto lo si voglia paragonare ad un lavoro, quello domestico è anomalo in quanto non ha limiti di orario, ne di forze… inoltre su quali basi si definirebbe il giusto salario? Per di più, siamo sicure che riconoscerlo istituzionalmente come lavoro non porti ad aggravare maggiormente lo stereotipo della donna-casalinga? forse sarebbe meglio puntare su un’educazione che insegni agli/lle uomini e donne di dividersi i compiti, di contribuire equamente al lavoro di casa. Però poi alle casalinghe verrebbe tolta una possibilità concreta di autonomia economica. Ecco, io davvero non so come uscire da sto ingrippo @_@