[Madre e figlio – foto di Tina Modotti]
Mi
chiamo Vittorio e il mio nome mussoliniano vi da già un’idea della famiglia
nella quale sono cresciuto.
Ho
una sorella, o meglio ce l’avevo. Soffriva di una grave disabilità e ovviamente
era tutta “colpa” di mia madre.
Io
sono arrivato per compensare l’ego di mio padre. Doveva dimostrare a tutti di
poter avere un figlio maschio, sano e orgoglioso di seguire le sue orme.
Per
fargli un dispetto avrei voluto, a parte essere sano, cosa che non mi
risultava essere merito suo, non essere né così “maschio” e né orgoglioso di
seguire le sue orme.
Avere
a che fare con le donne, quelle oneste con se stesse e con gli altri, mi ha
aiutato molto ad esserlo altrettanto e a guardare la mia famiglia senza nessuna
ipocrisia.
Secondo alcuni miei colleghi i maschi sarebbero tutti affetti da una specie di
sindrome alla psyco (quello di Hitchcock) che li assolverebbe da ogni azione
cattiva che loro compiono contro il genere femminile.
Sono
convinti che i maschi siano inclini alla violenza perché le loro madri li hanno
allevati così. Io so soltanto che nella mia e in molte famiglie che ho
conosciuto era il padre, il finto-assente, che impartiva ordini e stabiliva
regole. Mia madre semmai tentava di arginare, dove possibile, per proteggere me
e mia sorella. Di madri così io ne ho conosciute e sono sicuro che ne avete
conosciute anche voi.
Mia
madre ha un diploma che non ha mai potuto utilizzare. Quando nacque mia sorella
non si parlava di amniocentesi e figuriamoci se la comunità, il prete e mio
padre avrebbero permesso un aborto terapeutico.
Di
fatto con la nascita di mia sorella morì mia madre.
La
sua vita ruotava tutta attorno alla bambina e qualunque cosa accadesse non
riceveva altro che insulti da mio padre e occhiate di rimproveri dai vicini di
casa.
Era
chiaro fin da subito che mia sorella non avrebbe avuto una “vita”.
Non
solo non compensava la necessità di dimostrare un livello superiore di virilità
di mio padre ma crocifiggeva mia madre, costantemente rinchiusa in casa, a
immaginarsi come utero incapace di partorire un corpo sano.
In
seguito mi sono ritrovato a studiare quante e quali misoginie sono state
pronunciate da personaggi storici, appartenenti al clero, alle classi
medico/scientifiche.
C’era
la convinzione che una donna che partoriva un figlio deforme era una specie di
strega, una creatura spaventosa che aveva rapporti segreti con il diavolo.
C’era la convinzione che facesse un dispetto agli uomini che invece erano,
neanche a dirlo, tutti notoriamente portatori di geni sani.
Mia
madre era dunque tenuta ad assumersi da sola la responsabilità di quella figlia
ed era tenuta a riprovare finchè non riuscisse a dare un corpo sano da
assegnare in proprietà a mio padre.
Questa
“punizione” le costò due aborti spontanei e un parto prematuro di un’altra
figlia che morì subito dopo essere nata.
Poi,
non contento, mio padre volle imprimere il suo seme ancora dentro di lei e la
costrinse a questo dilatarsi e restringersi dell’utero. Dopo raschiamenti,
operazioni e cicatrici terribili quella donna, mia madre, riuscì comunque a
partorire me.
Fui
la fine dei suoi incubi e l’inizio di quelli di mio padre.
Questo
figlio che mio padre aveva tanto voluto era (ed è tutt’ora) legatissimo a sua
madre. La aiutavo come potevo perché si vedeva lontano un miglio che era una
donna stanca, sfinita, senza un lampo di luce negli occhi.
Mi
faceva male vederla così e fin da bambino la incoraggiai a lasciarmi solo con
mia sorella così da lasciarla libera almeno di andare a fare una passeggiata.
Mio
padre diceva che dovevo fare cose da maschio e che non dovevo restare attaccato alla sua gonna perchè quelli erano
compiti da femmine. Mi disse che quella era la “croce” che doveva portarsi
dietro mia madre e che io invece dovevo crescere indifferente, come se la cosa
non mi riguardasse, come se quella donna fosse solo un accessorio inutile della
casa, costretta dalle circostanze a prendersi cura di un corpo completamente
inerme, a pulire, lavare, stirare, cucinare, apparecchiare, sparecchiare e
giurerei che fino ad un certo punto fosse anche obbligata a fare sesso.
Più
io crescevo e più lei si liberava da quelle costrizioni. La mia vita era
semplice. Andavo a scuola, un po’ giocavo, rompevo schemi e tabù perché portavo
a casa i miei amici e coinvolgevo mia madre in conversazioni di ogni genere.
Mi
ricordo una scena: un paio di miei compagni, un ragazzo e una ragazza, erano
con me a fare i compiti. Uno di loro si rivolse a mia sorella, le parlava come
d’altronde facevo io e mio padre arrivò dalla sua stanza stizzito.
Stavamo
ridendo con mia sorella che sembrava ridere anche lei. Mio padre si arrabbiò
perché lo avevamo svegliato. In pochi secondi riuscì a dire
“dov’è
tua madre? È lei che deve pensare a tua sorella invece di farti perdere tempo…
tu devi studiare”
“è
inutile che le parlate, *quella* non capisce”
infine
le prese un braccio e lo fece ricadere senza attenzione… “vedete? Non serve a
niente”.
Parlava
dell’uso che si può fare di una donna. Se era come mia sorella ovviamente non
serviva a niente. L’importante però era tenerla in vita per ricordare a mia
madre l’entità della sua colpa.
Su
di me gravava una forte responsabilità perché sapevo che se non fossi
arrivato io prima o poi mia madre avrebbe scelto di togliersi la vita assieme a
mia sorella. Libera lei e libera la ragazzina. La solitudine è un male profondo
e ho imparato presto che le donne sono le persone più sole tra tutti.
Ciononostante
mia madre fece di tutto per liberarmi. Non mi fece mai sentire in colpa per le
mie assenze e per essermi preso il diritto di esistere lontano da loro.
Mia
sorella morì un’estate che io ero tornato dall’università. Eravamo in campagna
e smise di respirare.
Quel
corpo senza vita finì di essere il collante di una coppia che non aveva niente
in comune. Dopo il funerale mia madre avrebbe voluto fare la valigia per
andarsene. Non aveva accettato di essere “felice” del suo ruolo in “santità”
quando mia sorella era in vita figuriamoci accettarlo quando lei morì.
La
punizione sociale era dovuta anche a questo. Mia madre non piangeva del suo
ruolo. Non si sentiva gratificata dall’insultante fatalismo mistico della
comunità ecclesiastica. Non le interessava ricevere la medaglia per essere
stata al capezzale della figlia fino alla fine.
Lei
non smetteva mai di restituire quella responsabilità a mio padre, alle
istituzioni, alla chiesa. E il giorno del funerale disse al medico dell’usl che
non sapeva che farsene della sua presenza giacchè non aveva concesso un
contributo per una carrozzina. Non sapeva che farsene della presenza dei vicini
che erano sempre e soltanto stati a guardare commiserandola senza mai
comprenderla, non sapeva che farsene di mio nonno che chiamava quella figlia
“sfortunata” non immaginando evidentemente che nei meccanismi di restituzione
dei ruoli patriarcali non si tratta di un terno al lotto ma di questioni decise
a tavolino per crocifiggere le donne. Non sapeva che farsene neppure del prete
e soprattutto non sapeva che farsene di mio padre che non le era stato utile
quando mia sorella era in vita e che non aveva nessuna difficoltà a dimostrarsi
sollevato per aver riacquistato potere e spazio in una casa dove le sue
esigenze erano confinate al secondo posto, dopo quelle della figlia disabile
che lui detestava.
Mia
madre mi ha insegnato a combattere sempre e con dignità. Mi ha insegnato ad
assumermi le mie responsabilità, quelle responsabilità alle quali molti uomini
e padri, specie in queste circostanze, sfuggono.
Non
è solo per questo che ho un cattivo rapporto con mio padre ma io e lui non abbiamo
niente da dirci e se torno a casa a trovarli, dato che mia madre ha deciso di
restare, è solo per lei.
Per
inciso, sono diventato un medico e quando ho chiesto come mai nella discendenza
familiare di mio padre vi fossero così tante nascite con gravi problemi di
deformità e disabilità lui andò a rinchiudersi nel suo rifugio, la stanza da
letto, quella in cui aveva trascorso metà della sua vita a nascondersi per non
diventare "adulto".
La mia
specializzazione? Non faccio parte di quella schiera di medici obiettori che per
fare carriera torturano le donne.
Dedicato
a mia madre.
Grazie!
—>>>Grazie a te. Ciao Vittorio e abbraccia forte tua madre per noi.
Mi ha commosso la tua lettera, la vita di tua madre i suoi insegnamenti. E’ stato duro per lei educarti al rispetto e alla compassione visto il padre padrone che hai. ma lei non ha perso le speranze e tu oggi sei il frutto della volonta’ di non arrendersi
un abbraccio a tua madre anche da parte mia
Clelia
Grazie, Vittorio. Meno male che esistono prove viventi, come te, a smentire l’adagio “tali pater, talis filius”.
Grazie Vittorio per questa tua testimonianza via e forte. Sì, bisogna ripartire dall’educazione.
Grazie, grazie di cuore, Vittorio!
Ammiro molto te e tua madre.