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Donne sotto sequestro

[Autonomia sotto sequestro è un’opera di Fausto Ferri]

Mi
chiamo Ginevra
e non sono italiana. Ho acquisito la cittadinanza con il
matrimonio e vivo in italia da oltre 15 anni.

Sono
arrivata qui
perché all’estero ho conosciuto quello che poi sarebbe diventato
mio marito. Abbiamo provato a tenerci in contatto in modi differenti ma alla
fine, in questi casi, è sempre la donna che deve abbandonare casa, lavoro e
affetti per seguire l’uomo. Chissà perché.

Mi
sono ritrovata
in una città che non mi piaceva, in una casa nella quale nessun
angolo sembrava essere accogliente per me, chiusa in una incubatrice in attesa
che partorissi la prole che mio marito desiderava.

Mio
marito
era una persona triste, oggi posso dire che era e forse è ancora un
depresso cronico. Viveva rinchiuso nel suo mondo e nel suo sguardo c’era solo
il buio. Dopo qualche mese trascorso con lui avevo già assolutamente bisogno di
respirare.


Arrivare

in una città che non conosci, fidandoti dell’unica persona che dovrebbe farti
sentire compensata per la mancanza dei tuoi affetti, della tua vita, di tutti i
colori e i sapori dei quali sei stata privata, in special modo se non conosci
la lingua e non lavori, ti riduce in uno stato di isolamento e di totale
dipendenza dalla persona che hai sposato.

Al
mio paese
ero laureata a pieni voti e fu grazie alla mia determinazione che,
giorno dopo giorno, guardando la televisione italiana, imparai la lingua.

La
casa
di mio marito non mancava di libri classici e cominciai a leggere anche
quelli. Quando fui in grado di capire qualcosa di più di quello che mi stava
succedendo chiesi a mio marito perché io non potessi disporre di denaro mio, da
usare quando lo volevo. Perché lui non volesse mettere in comune niente e
perché, in alternativa, non accettasse di farmi provare a trovare un lavoro,
per crearmi una nuova vita e favorire la mia integrazione in quella che
sembrava dover essere la mia nuova casa.

Mi
disse
che non ce n’era bisogno. Che se avevo bisogno di qualcosa bastava che
chiedessi. D’altronde “ti faccio mancare niente?”- mi diceva, e il senso di
colpa mi impediva di dirgli che mi faceva mancare tutto a parte un tetto e i
pasti in orari regolari. Neanche fossi un animale domestico.

La
gravidanza
segnò definitivamente il mio isolamento sociale. Era l’occasione
perché lui mi dicesse che “stai per avere un bambino, non è certo questo il
momento di cercare *svaghi*” e per svago lui intendeva quel lavoro che mi
avrebbe permesso un po’ di autonomia.

La
mia pancia
ingrossava e il mio cuore si inaridiva. In quella casa e in
quell’uomo mancava tutto quello che può fare sentire viva una persona.

Perfino
le piante
– che mi ostinavo a curare – sembravano morire una ad una dopo pochi
giorni che avevano fatto ingresso in quella casa.

Prima
di partorire
dissi a mio marito che volevo tornare nel mio paese, andare
lontano da lui. Mi disse che dovevo partorire e poi potevo andare dove volevo.
Senza il bambino.

Mi
disse
che la legge italiana non mi avrebbe permesso di togliergli quello che
riteneva suo e non riuscivo a credere che in italia fosse possibile che un uomo
importasse un utero dall’estero per servirsene e gettarlo via.

Gli
dissi
che non sarei rimasta a lungo in quella prigione e che poteva anche
uccidermi. Non mi interessava. Tanto era come se fossi morta. Lui rispose che non
l’avrebbe mai fatto. Non era quel tipo d’uomo. E lo disse con l’orgoglio di chi
rivendica di non “toccare mai una donna neppure con un fiore”.

Ho
capito
solo molto tempo dopo quanto fosse ipocrita quella frase e ho capito
anche che certi uomini immaginano di non fare violenza alla donna con cui
vivono solo perché quella violenza è psicologica, economica, ossessiva, che
esprime un possesso fatto di ricatti, veleni, offese, mortificazioni e sensi di colpa indotti.

Io
volevo tornare
a casa e non mi sembrava davvero giusto che dovessi sentirmi
usata per dare una discendenza a quella stirpe. E da quello che lui mi diceva era come se io non sapessi fare che quello. "Vedi di dare un senso alla tua inutilità!" – mi diceva, chiedendomi di dare una mano alla sua anziana mamma, come se avesse fatto il grande affare: utero+badante al prezzo di uno.

Trascorse
un altro mese e infine mio marito cedette. Non riuscì a contenersi e
immaginando di essere legittimato a farlo mi picchiò.

Diceva
che aveva provato di tutto con me, che mi trattava come una regina, che non mi
faceva mancare niente, che ero mentalmente instabile (io?), che avevo dei
problemi ormonali, che mi avrebbe fatto “curare”, che se solo avesse immaginato
di essersi portato in italia una squilibrata non avrebbe mai fatto una scelta
del genere e che mi avrebbe impedito a tutti i costi di portare via il mio bambino (che poi si rivelò una splendida bambina)
perché quel bambino non poteva stare con una madre come me.

Quelle
botte
furono la mia salvezza perché fu grazie ad esse che scoprii di essere in
un paese che in realtà – almeno così era allora – tutelava me e non agevolava
la follia di quell’uomo.

Nel
mio italiano
televisivo, saggistico, arcaico e dantesco spiegai in ospedale che
quei lividi erano la cosa meno importante di quello che stavo subendo. Dissi
che ero sotto sequestro e che avevo bisogno di aiuto. L’infermiera chiamò la
caposala, la caposala chiamò il medico, il medico chiamò la polizia e la
polizia chiamò una donna che avrebbe potuto aiutarmi.

Fui
trasferita
immediatamente in un altro ospedale e poi in una casa protetta. Lì
rimasi fino alla fine del percorso che mi portò a riavere la mia libertà. Mi
aiutarono a trovare un lavoro e ad essere indipendente. Adesso ho pure la
patente e posso accompagnare mia figlia a scuola e in tutti i posti in cui ha
voglia di andare.

Il
mio ex marito
ha tentato di rivendicare quello che riteneva suo: la moglie e la
figlia. Ci ha provato per un po’ e poi mi dissero che fu davvero sorpreso
quando qualcuno gli spiegò che quello che faceva lui era “violenza” a tutti gli
effetti perché privare della libertà e del diritto di vivere una vita dignitosa
un altro essere umano è come sottoporlo in uno stato di schiavitù. In italia,
mi dicono, la schiavitù è illegale e per fortuna è così.

Da
qualche anno
il mio ex marito è tornato a pressarmi perché vuole sua figlia,
vuole innanzitutto toglierla a me. Quelle volte che il tribunale aveva
stabilito di fargliela vedere lui non c’era quasi mai e quando c’era arrivava
con il suo carico di ostilità e buio interiore che si vedeva lontano un miglio
che mentre la sua bocca accennava un sorriso i suoi occhi continuavano a esprimere
uno spaventoso senso di morte e distruzione.

Quando
una persona
si sente così purtroppo ha la tendenza a capovolgere il senso della
realtà, a distruggere quello che attraversa e a trovare giustificazioni per il
suo stato esterne a se stesso. Quando una persona si sente così ha
profondamente paura di avere a che fare con la propria anima ed è più semplice
mettere tra l’anima e la persona un altro essere umano che diventerà
ossessivamente, compulsivamente, l’unico obiettivo da distruggere, come se
distrutto quello possa sparire il male.

Mia
figlia
è già una adolescente e con lui, che è così sgradevole, non vuole stare e francamente io ho paura che lasciarla sola con
lui significhi che decida di farle del male e poi suicidarsi.

Il
mio avvocato
mi dice che con la nuova legge la mia opposizione può costarmi
l’affido della figlia. Mi dice che potrebbero togliermela e mi chiede di fare "buon viso a cattivo gioco" e quello che non capisco è come possa l’italia,
che reputavo un paese civile, essere arrivata a tanto.

Come
si può
accettare di dare ad un uomo evidentemente bisognoso di aiuto l’affido di una ragazzina che ha bisogno di crescere in modo equilibrato e tra soggetti
equilibrati? Come può un uomo del genere essere appoggiato mentre continua a voler distruggere la vita delle persone che hanno avuto la sfortuna di avere a che fare con lui?

Oltretutto
c’è il fatto che io ho altre origini e il mio ex marito sta cavalcando la
crescente xenofobia per fare credere che io lo abbia sposato per avere la
cittadinanza.

Davvero
non ci tenevo ad ottenere la cittadinanza italiana. Stavo molto meglio dov’ero.
E se sono rimasta è perché mia figlia è italiana, la sua vita oramai è qui, e perché la legge dice che
quella figlia deve restare nel suolo paterno anche se quel padre non la vede, non le passa un mantenimento e
anche se per esigenze personali e professionali dovrei potermi trasferire
altrove.

Sapete
che mia figlia ha conosciuto i suoi nonni materni solo perché sono venuti in
italia? Perché questo paese costringe le donne e i bambini a restare vincolati
ai padri anche dopo la fine del matrimonio.

E
non si tratta
del bene dei bambini ma di un principio di proprietà che nel mio
paese di provenienza, per esempio, non esiste.

Sapete
che se io avessi voluto, e non l’ho fatto per puro caso, andare a vivere con un
altro uomo il mio ex marito avrebbe potuto impedirmelo facendo sempre leva
sulla sua paternità?

E
anche
in questo caso non si tratta del bene dei bambini ma di un’arma di
ricatto che i padri hanno per impedire alle loro ex mogli di rifarsi una vita
mentre a loro tutto è consentito.

Quello
che succede in italia è che migliaia di donne sono comunque sotto sequestro e
non possono rifarsi una vita, trasferirsi per lavoro, andare in vacanza, vivere
come tutti gli altri esseri umani fino a che i propri figli non compiono 18
anni.

Così
ho
cambiato idea: l’italia non è un paese civile. L’italia è semplicemente un
paese che schiavizza le donne e le maltratta anche dal punto di vista istituzionale.

So
che
il mio ex marito, mentre conduce la sua crociata per dimostrare a se stesso
che la sua depressione dipende da me, ha intrapreso una relazione con un’altra
donna straniera.

Vorrei
dirle
di fare attenzione, anche se so che gli uomini dicono sempre alle donne
che non devono fidarsi l’una dell’altra. Lo fanno per tenerci lontane, per non
farci parlare tra di noi e per non farci rivelare i segreti che altrimenti li
svelerebbero fino in fondo.

Bisognerebbe
incontrarsi in ogni città per raccontarsi degli uomini che la vivono, per
evitare alle altre di incappare negli stessi individui molesti. Bisognerebbe
fare un passaparola costante perché quello sul quale loro contano,
principalmente è proprio l’omertà, il silenzio, che ci obbligano a tenere in
tutti i modi. Io mi fido delle altre donne e non vorrei mai conoscere un uomo che ha fatto del male a qualcuna di loro.

Così
spero
, raccontando la mia storia, di riuscire a mettere a fuoco dei dettagli
che ad altre possono essere sfuggiti. Non so come finirà la mia vicenda. Quello
che so è che sto combattendo la mia battaglia, da donna libera e orgogliosa di
esserlo. Comunque andrà per mia figlia io ci sarò sempre e non smetterò mai di
vigilare su di lei.

Grazie
per lo spazio e il tempo che mi avete dedicato. Grazie di avermi fatto sentire meno
sola e a casa, almeno per un po’, almeno in questo blog.

—>>>Noi abbracciamo e ringraziamo Ginevra (che non si chiama ovviamente così – ogni riferimento a fatti, cose e persone è perciò puramente casuale). Grazie per questo regalo. Noi siamo con te!

Posted in Fem/Activism, Misoginie, Narrazioni: Assaggi, Omicidi sociali, Storie violente.


One Response

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  1. Rossella says

    Grazie a te e a tutte le donne che, come te, lottano per i diritti propri e dei propri figli.
    Donna con la “d” maiuscola! 🙂