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Le priorità della polizia

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Nell’edificio
di fronte abita una ragazza. Avrà trent’anni. Forse qualcosa in più. Una bella
donna, bruna, a prima vista serena. Ha un bel sorriso e una parlata velocissima.

Sono
in questo paese da poco e non capisco perfettamente la lingua. Non capisco le
espressioni, le forme idiomatiche, lo slang. Anche i gesti sono diversi. E in
effetti questa gente non gesticola.

Una
sera
la vedo affacciata alla finestra. Io sono seduta alla scrivania e sto
lavorando. Mi fa ciao con la mano e io ricambio.

Poi
capisco
che quel ciao in realtà è un modo per attirare la mia attenzione. La
guardo meglio e le vedo qualcosa nell’occhio.

Il
riflesso
del faretto esterno la fa sembrare truccatissima, perfino bella.
Invece ha un livido pauroso e ora che sono sul marciapiede la vedo meglio.

Non
grida
ma con calma mi dice che lui sta dormendo e che non vuole svegliarlo. Mi
chiede di chiamare la polizia perché lui le ha fatto del male.

Chiamo
prima che posso. Cerco di spiegare nel mio straniero stentato quello che è
successo e la persona che è al telefono è veramente gentile. Mi chiede chi
sono, cosa faccio, perché sto telefonando.

Dopo
pochi
minuti arriva quella che in italia chiameremmo la “volante”. Si ferma a
chiedere le mie generalità. Vogliono un documento. Chiedono ancora cosa faccio nel
loro paese. Vogliono sapere proprio tutto, vedere se sono in regola, se sono
a posto con la burocrazia per l’assistenza medica.  Che lavoro faccio, perché non sono rimasta in italia.

Sono
gentile
più che posso anche se capisco come devono sentirsi tutti gli stranieri
che vengono rastrellati porta a porta in italia per essere deportati nei lager.

Provo
a spiegare
che la ragazza che vedono affacciata alla finestra non sta bene. Che
è lei che mi ha chiesto di chiamarli.

Decidono
che sia il caso di intervenire. Uno resta con me e l’altro va a trovare la
donna.

Quello
che resta con me continua ad assillarmi. Mi chiede come ho fatto ad avere un
lavoro se non conosco bene la lingua. Non vale dirgli che ne parlo un’altra ed
è con quella che comunico con i datori di lavoro.

Il
suo collega
esce dal palazzo con un uomo ammanettato. Chiamano l’ambulanza
perché il tizio era ubriaco e dormiva ma la ragazza era ferita e anche tanto.
Il suo “amico” le aveva tagliato un braccio intero con un coltellaccio mentre
lei tentava di pararsi la faccia. Quello che non vedevo era che lei perdeva
sangue e che non era esattamente il riflesso della salute.

L’altro
militare
continua a interrogarmi e mi chiede se non ho nulla in contrario a
firmargli una specie di verbale in cui dichiaro di aver chiamato e di aver
assistito all’arresto.

Non
è per
non assumermi l’impegno ma a quel punto divento un po’ diffidente e
allora chiedo di poterlo firmare il giorno dopo quando sarò andata da loro
con un amico che mi tradurrà il contenuto.

Quasi mi sputa in faccia. Gli leggo il disprezzo negli occhi. E quello sono
certa che non abbia caratteristiche diverse in nessun posto.

Quando riesco a parlare con la ragazza mi ringrazia a malapena e non mi racconta niente. Le chiedo se ha bisogno di qualcosa e mi lascia solo le chiavi di casa. C’è un gatto e ha bisogno di essere nutrito.

La
storia
finisce con la ragazza che torna dall’ospedale con il braccio ricucito e
il mio amico che mi dice che quel foglio effettivamente è una procedura
normale.

Quando
tutti sono sereni chiedo il perché dell’interrogatorio e con una calma serafica
mi dicono: “signorina, volevamo assicurarci che non fosse una clandestina…

E
io che pensavo
che fuori dall’italia, nella bella europa austro ungarica, ci fosse un po’ più di civiltà. Con la speranza che la spagna torni a rifare il regno delle due sicilie così me ne torno a casa, a questo punto anche contenta.

Posted in Corpi, Omicidi sociali.