No, non lo so che significa avere passioni comuni, fare tutto assieme, dividere l’aria, i respiri, il cesso, i pasti caldi. Ci siamo visti da lontano per mesi e tutto quello che riuscivamo a fare era salutarci con la mano.
I nostri battiti si insinuavano tra le pareti e muro dopo muro giocavano di empatia. Io sapevo come stavi tu e tu sapevi come stavo io.
Non era certo qualcosa che volevamo ed era chiaro che le nostre vite ci avrebbero portati altrove. Ma io sapevo che quando le mie mani accarezzavano il mio corpo c’eri anche tu ed io con te quando tu accarezzavi il tuo.
Il nostro era un linguaggio speciale e lo avremmo usato per sempre se solo non me lo avessero impedito.
So che un giorno la mia collega di stanza era più rincoglionita del solito. L’avevano sedata per il suo bene, così dicevano. Quelle pillole la facevano diventare più matta di un cavallo. Quando terminò di sfogarsi aveva distrutto ogni cosa e quella cella era diventata un letamaio.
Poi si dedicò a me e io la abbracciai forte perchè sapevo cosa le facevano giacchè avevano fatto lo stesso anche a me. Mentre la tenevo stretta non mi rendevo conto che la sua calma non era un assopirsi quieto di chi vuole riposo. Sopraggiungeva la morte e lei mi sorrise infine proprio mentre se ne andava.
Le guardie non sopportavano i sorrisi. Li disturbava il fatto che qualcuno potesse essere felice anche se in punto di morte. Non sentii niente. Pensavo a te. Temevo di ferirti con il mio dolore.
Quando finirono mi dissero di prendere le mie cose. Mi trasferirono all’alba e fu quella l’ultima volta che ti vidi. Quella mano grande, piena di segni della fatica, con le dita arrossate dal freddo.
Non ti dimenticherò mai perchè sei l’unic@, in trent’anni di prigione, che mi ha fatto sentire amata.
Per sempre,
Anna