Da una delle belle discussioni che facciamo nella nostra mailing list:
di Viviana Esposito
In questo link si parla del rapporto tra la donna e la maternità, in quanto argomento principale del libro di Elisabeth Badinter “Le conflit. La femme et la mère” (ed. Flammarion). L’idea che la maternità sia percepita come una realizzazione della donna nella società odierna è sicuramente condivisibile, come lo è evidenziare i limiti professionali (sempre per le donne) che la nascita di un/a bambin* comporta. Quello che mi ha lasciata un po’ perplessa leggendo l’articolo è che la soluzione a tutti questi disagi sia non avere figl*. Lo dice la stessa Badinter quando le si chiede se le donne non fossero corresponsabili della contraddizione, madre “perfetta” e lavoratrice in carriera, continuando a farsi carico in via esclusiva della cura dei figli: “È difficile fare altrimenti: l’ideologia dominante confina le donne in quel ruolo, colpevolizzando chi esce dai ranghi. La grande novità, a mio parere potentissima, è che oggi esiste una scappatoia: non avere figli”. Poi continua parlando delle childfree o childless, che definisce come “donne totalmente nuove, che prefigurano uno stile di vita e di coppia inedito. Mostrano alla società che si può avere un’esistenza pienamente realizzata senza figli. E questo è un vero shock”. Questo ragionamento di per se non è sconcertante, dato che la maternità è una scelta importante che và fatta in modo razionale, quando si è pronte, lo si vuole davvero e non per rispondere ad uno stereotipo che ci hanno imposto, per dimostrare di essere “vere donne”. Però poi alla fine dell’articolo si legge che il vero ostacolo alla parità non è il sessismo ma la maternità perché “se deve adempiere al ruolo di madre perfetta imposto dalla società – allattare a tempo indefinito, non affidare il bambino a una baby sitter, accettare un lavoro part-time per seguirlo nel quotidiano, insomma mettersi al suo servizio – non vedo come una donna possa trovare il tempo per realizzare altre aspirazioni. Indipendenza e parità non si costruiscono con le leggi: sappiamo che la radice delle diseguaglianze non è sul posto di lavoro ma in ambito domestico. Le quote rosa non hanno mai intaccato le differenze, meno che mai le disparità di stipendio”. Il discorso della Badinter quindi, anche se non lo impone, suggerisce alle donne di non avere figl* per preservare la loro libertà. Ma la libertà di averceli dove è finita? Mi spiego meglio. Se è vero che la maternità è da una parte un’imposizione, una dimostrazione di “essere vere donne” a cui noi tutte siamo chiamate a rispondere, se è vero che essere madri e avere un lavoro è per la maggioranza delle volte qualcosa di inconciliabile, dall’altra parte ci dovrebbe essere la voglia di lottare affinchè la maternità resti una scelta autodeterminata. Dico questo perché nel discorso portato avanti dalla Badinter sembra che le donne che decidono di non avere figl* siano libere, mentre a me sembrano egualmente schiave. Tutto parte dal dover capire chi decide per noi, chi o cosa ci porta a fare delle scelte. Se queste donne decidono di non avere figl* perché non ne sentono la necessità allora la loro azione è sacrosanta, se invece lo fanno perché non c’è possibilità di conciliare le due cose, perché la maternità ha delle ricadute sul loro percorso lavorativo, a quel punto mi viene da pensare che la tanto decantata libertà di scelta non ci sia neanche per loro. Se il problema è l’inconciliabilità dei due mondi, quello familiare e lavorativo, la soluzione, per quanto mi riguarda, non è nell’eliminare uno dei due ma lottare affinchè la società cambi e permetta alle donne di poter essere ciò che vogliono senza porre alcun limite.
Feminoska, da felice donna Childfree, invece legge l’articolo come una provocazione e porta il ragionamento un po’ all’estremo: “a volte mi soffermo a pensare, in linea del tutto teorica, a cosa capiterebbe se le donne rifiutassero agli uomini non solo dei figli, ma davvero il proprio corpo in massa… prima di rispondere, come farebbero molti uomini con aria spaventata "l’estinzione", penso più semplicemente che sarebbero svelati i rapporti di potere che si attuano sui corpi delle donne, penso che la violenza culturale e reale del patriarcato si farebbe concreta, tangibile,istituzionale. Le donne, in questo senso, volenti o nolenti, si fanno spesso, a mio modo di vedere, complici nel diventare il migliore campo di guerra per le peggiori violenze e crudeltà maschili non riuscendo, per educazione o per timore, a sottrarsi ad un’imposizione di ruoli che ci "reificano" sempre e comunque. A me pare che l’autrice di questo libro postuli semplicemente che, qui ed ora, in questo mondo così imperfetto, un modo efficace di sottrarsi ad una realtà molto opprimente – quella di trovarsi, spesso e volentieri, calate in un clichè mortifero per la donna (quello della donna che si fa evanescente all’apparire della "creatura") confezionato ad hoc dalla cultura dominante – esiste, ed è non avere figli. E non per forza per ricalcare un altro clichè, quello della donna in carriera mascolina etc etc. Porto il mio esempio personale: non ho figli, e ho molto tempo a disposizione: quel tempo lo uso per vivere, per dedicarmi alle cose che amo, libri, quadri, fotografie, ho il tempo per dedicarmi al volontariato, ho il tempo per passeggiare, se lo voglio, in mezzo alla natura mentre altre persone – e parlo anche di quelle che non hanno problemi economici – scelgono di stare chiuse in un cubicolo a "far carriera" o in casa a badare alla "creatura". Questa scelta – la scelta di considerare il tempo come bene primario – l’ho fatta tanto tempo fa, e non me ne sono mai pentita. Ovviamente sono ricca di tempo, e non di soldi! Quando qualche giorno fa qualcuna ha scritto: ma come fate? Riferito al dedicare tanto tempo a cose che si ama fare, la mia risposta, come suggerisce Rho qui sotto è: scegliendo. Io ho scelto di lasciare a margine la creazione di un altro essere per avere il tempo di essere quello che desidero: e che sia chiaro che le cose che faccio, non le faccio per "riempire il tempo" come spesso molte persone pensano di chi non ha figli (poverina, deve donare il suo amore a qualcuno/a qualcosa). Anzi è proprio il contrario: sentendo di avere tanto da vedere, vivere e condividere con le altre e gli altri.. mi spiace ma il tempo massacrante della maternità non fa per me. ”
Inoltre Feminoska si interroga sul concetto di conciliazione, chiedendosi/ci se sia sia realistico e possibile: “come esseri umani, scordarci la nostra animalità è un errore giacchè siamo alla fine mammiferi con un periodo di gestazione e di svezzamento lunghissimo, e con dei "cuccioli" che, a differenza di quelli di altri animali, dipendono per un tempo quasi intollerabilmente lungo dalle nostre cure; ma siamo anche umani, con aspirazioni e desideri anche totalmente avulsi dalla nostra animalità, e con la coscienza di avere un tempo limitato e fragile per raggiungere quei desideri. Spero di non essere fraintesa: se una donna – e un uomo – vogliono tantissimo un figli*, è giusto che lo facciano e lo crescano e lo amino con tutto il loro essere. Ma se non si è sicuri di vedere in quell’essere maggior motivazioni rispetto a una vita piena in sè stessa, bisognerebbe pensarci bene. Una via c’è, ed è quella tracciata dall’autrice… perchè quel lavoro di cura, stante che va fatto visto che i bambini non curati non sono in grado di farcela, qualcuno deve farlo: e a prescindere dal fatto che "lo stato", "la società", sono concetti astratti, non è detto che se tutt* riempissero il mondo dei propri pargoli sarebbe possibile badare "statalmente" alla cura degli stessi. E’ per me una questione di meri numeri, di sostenibilità: sembrerà una bella idea quella della conciliazione, ma a me sa di utopistica tanto quanto la crescita infinita.”
[La rivolta delle mamme contro la censura sull’allattamento in pubblico]
A tal proposito Rho si/ci pone alcune domande: “cosa facciamo finchè non è possibile? Quanto paghiamo il doppio-triplo lavoro e quanto ne fanno le spese i/le figli/e? Ci sono modi "sostenibili" per essere genitori oggi? Quali? Quali "strategie" genitoriali, di rete, collettive adottiamo? Perchè vogliamo (se li vogliamo) figli/e? Cosa ci aspettiamo? Quale esperienza vogliamo attraversare o da quale esperienza vogliamo "farci attraversare"? Quanto possiamo tollerare che anche in un modo perfetto tutto non si può fare (o cmq non si può fare come magari pensiamo andrebbe fatto)? Come ci relazioniamo ai nostri limiti? Scegliere è sempre lasciare a margine qualcosa. Cosa tengo e cosa lascio?”
Prima di affrontare la questione della scelta che reputo il centro della discussione, vi riporto alcune risposte date a tali domande:
Marta ci dice” voglio dei figli perché la mia vita, pur con i suoi alti e innumerevoli bassi, è fino ad ora stata un’esperienza straordinaria e ho il desiderio di far sì che qualcun altr* possa esperire tutto questo. Dal mio punto di vista probabilmente molto ha a che fare con la mia esperienza personale: per farla breve, vengo da una famiglia in cui gli uomini intesi come figura maschile tradizionale mancano da 3 generazioni. Io e mio fratello siamo stati cresciuti da mia madre, aiutata da mia nonna, mio padre non ha mai aiutato economicamente perché aveva già un’altra famiglia. Non siamo ricchi. Mia madre ha fatto tre lavori contemporaneamente per mandare avanti la baracca. Ma siamo cresciuti nel rispetto e nell’amore incondizionati. Per me questo è famiglia e probabilmente è per questo che voglio prima o poi fare dei figli. Ho visto molte donne "scomparire" dietro il loro ruolo di madri ed è una cosa che non vorrei che succedesse mai. Ma ne ho viste anche essere l’una e l’altra cosa, certo si fa fatica, bisogna imparare, ma chi l’ha detto che solo le esperienze facili sono quelle che ti arricchiscono e ti migliorano? Per l’ennesima volta chiarisco che sto parlando di maternità consapevoli in tutto e per tutto. Forse il mio percorso di vita, l’ambiente in cui sono cresciuta non mi rendono in grado di comprendere appieno l’esperienza chi ha vissuto in un ambiente più tradizionale e oppressivo e che porta perciò dei dubbi rispetto a una scelta di questo tipo. Ma, come dicevo all’inizio, tutto sta secondo me nella consapevolezza di quello che si è disposti ad affrontare per la vita che si vuole. Capire di volere dei figli e creare i migliori presupposti per essere (tu e loro) felici è una scelta, come quella di avere più tempo per se stessi, e che nel momento in cui viene presa consapevolmente credo meriti lo stesso rispetto (non sto dicendo che sia mai mancato, però ho visto molti nasi storcersi un pò). Non è solo giusto, è doveroso continuare a battersi affinché il corpo femminile non sia più visto come oggetto per la riproduzione o atto a compiacere il maschio. Ma ribadisco, non credo che la strada per vincere questa lotta sia negare che alcune tra di noi un figlio lo vogliono perché e’ un loro desiderio, non inculcato da ruoli prestabiliti, non determinato dalla società, tantomeno deciso dalla religione (non sono nemmeno battezzata, ci manca solo che faccio un figlio perché lo dice la chiesa).”
Sandra invece è una madre quarantaduenne, che ha avuto due figlie e dice: “li ho voluti nello spirito di cui parla Marta. E’ stato bello avere una famiglia, voler bene a mia madre, alla mia nonna, e anche ai maschi di casa mia. Certo ci sono varie trappole in cui si può cadere, cose di cui non ci rendiamo conto e che riproduciamo in totale contraddizione con le cose che profondamente sappiamo essere politicamente importanti, ma ci si può buttare un occhio e mi sembra un buon impegno, un buon esercizio per fare politica quotidianamente. Molte donne che hanno fatto politica negli anni ’70, seguendo il moto di ribellione che aveva fatto loro scoprire un nuovo mondo di rapporti, di relazioni, di costruzione di sé, si sono perse per strada l’esperienza della maternità, c’è un bellissimo articolo su questo in un volume su Storia della maternità, un bellissimo articolo di Anna Scattigno. Vale la pena di leggerlo e vedere cosa cambia fra le donne da una generazione all’altra.
Serbilla invece si dichiara d’accordo con la Badinter, perché “la maternità è oggi un ostacolo alla realizzazione della parità, perché la paternità non si assume realmente le proprie responsabilità, perché non c’è vera condivisione né un sistema economico lavorativo e sociale a misura di esseri umani, è solo a misura di se stesso. C’è poi che la maternità è anche un mito, quando sto con dei bambini sono felicissima, mi piacciono, li adoro, poi torno alle mie cose e sono felice uguale, non sento adesso, e non ho mai sentito la necessità di avere un figlio, intendo come esperienza fisica, emotiva, di vivere una gravidanza, prendermi cura dei bambini non è un peso, ma non è neanche un desiderio, se poi la società non mi da nemmeno l’opportunità di provare, ma continua a dirmi che quella è l’unica vera forma di realizzazione per me, allora non posso che rigettare completamente quest’esperienza, rifiutare persino l’opportunità di "creare", perché la posta in gioco è altissima, il mio corpo, la mia vita, l’incontro con la vita di un altro, la responsabilità di qualcun* in questo mondo, ma perché dobbiamo sopportare tutta questa pressione? anch’io vorrei tutto, anche l’impossibile, ma a che prezzo e perché lo devo pagare da sola?
Guardo le giovani donne che mettono al mondo dei figli e penso che ci voglia una certa dose di superficialità per farlo, più che maternità cosciente, mi sembra che a fare i figli siano più gli/le idealist* e incoscienti che quell* che ragionano razionalmente. Lasciarsi andare all’incoscienza mi sembra un lusso.”
Personalmente credo che i limiti non debbano mai mettere freni ai desideri, in questo caso alla maternità. Però non posso non dare ragione a chi dice che non si può avere tutto, che arriva sempre il momento in cui bisogna scegliere. Ed è qui il punto. Le scelte sono alla base della vita umana e ognuna di esse comporta delle rinunce, ma quanto possiamo definire le nostre scelte consapevoli? O meglio quale peso ha l’influenza di quegli elementi esterni ed interni che ci portano a fare una scelta invece che un’altra? Personalmente credo che esistano dei modi sostenibili di genitorialità e che si possano attuare. E’ ovvio che nulla sarà perfetto, che ci saranno anche in quel caso scelte da compiere e cose da lasciare, ma quelle scelte potrebbero essere più consapevoli. Il punto per me sta nel poter essere messa in condizione di prendere una decisione (in questo caso avere o no dei figli), di poter scegliere consapevolmente e non perché c’è quella o l’altra cosa che mi impedisce di farlo.
Mi spiego meglio: io vorrei avere un figli* tra molti anni, non so spiegarvi il perché ma immaginarmi madre mi piace, a volte penso a cosa farei io se avessi un figli* in quella o l’altra occasione… l’idea di avere un figli* mi piace così tanto che sono disposta ad averlo pure da sola, ma a parole tutto sembra facile. Poi mi accorgo che sono un’incapace anche nel gestire la mia vita, figuratevi quella di un/a bimb* che per molti anni dipende da te, per non parlare delle condizioni economiche che, per la carriera di insegnante disoccupata o se tutto va bene precaria, non saranno di certo floride. E allora penso che se delle determinate condizioni non saranno raggiunte, io un figli* non lo metterò mai al mondo. Ma sono quelle condizioni a decidere per me, non io e questo non mi piace. Preferirei poter scegliere di essere madre o meno senza tutti questi limiti.
I limiti si sa ci sono sempre, ma è la loro quantità che mi spaventa. Perché la scelta di essere madre deve comportare una specie di abnegazione della mia persona (o almeno questo è quello che vedo nelle donne che conosco)? Perché non posso avere lo stesso tempo libero che hanno i mariti di queste donne? Perché devo restare io a casa se il bimbo ha la febbre e lui può uscire e fare quello che vuole? Perché il mio stipendio deve essere inferiore a quello di un collega maschio solo perché sono donna? Le ore di lavoro sono le stesse. Perché se sono incinta ho una buona probabilità di vedermi licenziare? Questi per me non sono limiti accettabili, perché non sono dettati da una necessità ma da una cultura che mi vuole sfruttare fino all’osso. I limiti sono altro, per es. l’accettare di ridimensionare, ma non annullare, il proprio tempo libero per accudire un figli*, quello sì che sono pronta a farlo. E proprio su questo argomento Fasse ci segnala l’ultima notizia su una donna che viene lasciata sola a vivere un obbligo talvolta insostenibile, con effetti devastanti.
La questione della maternità è molto complessa perché su di essa gravitano innumerevoli fattori che possono renderla consapevole o meno, una effettiva scelta o un obbligo, una esperienza splendida o un incubo. Proprio per questo motivo è importante continuare a riflettere, discutere, approfondire tale tema.
Una buona occasione per farlo ci è segnalata da luciana:
Il 12 marzo faremo un incontro/dibattito sul desiderio di genitorialità e le nuove forme di famiglia "parapigliosa", cioè sempre più distante dal modello della famiglia nucleare eterosessuale, discuteremo di modelli di genitorialità sostenibile ma anche della scelta di non essere madri.
Ti senti più barbie o gioconda?
Sogni la famiglia o combini il parapiglia?
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h 20 @INTHERFERENZE sala da tè/csoa FORTE PRENESTINO – Roma
via Federico Delpino Centocelle Roma
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contatti: intherferenze@forteprenestino.net
Sulla maternità.