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E poi dite che non gli conviene?

http://femminismo-a-sud.noblogs.org/gallery/77/Bandaged_invisible_woman_by_misterdoe.jpg

Di Agnes Nutter

Qualche mese fa, grazie ai soliti passa parola di blog in forum, lessi un articolo che riguardava la
discriminazione delle donne disabili. Mi colpì enormemente perché è davvero difficile trovare un
articolo che ammetta una discriminazione non solo lavorativa ma anche emotiva ed affettiva
relativa soprattutto a noi donne.

Per chi si fosse perso la prima parte, mi ripresento: ho 27 anni, sono malata di sclerosi multipla,
nell’ultimo anno ho sviluppato una disabilità secondo ASL e INPS pari a 2/3. E non vorrei dirlo
troppo a voce alta, ma la mia disabilità sta piano piano regredendo. Per quanto si possa vedere
dall’esterno, ormai sembro quasi una persona normale. Quasi, ho detto.

Da quando ho iniziato ad avere problemi di salute, c’è stata un’evoluzione più che comprensibile nel
mio modo di vedere il mondo. Ora, per esempio, mi incazzo molto più spesso. Vedo le barriere
architettoniche, il menefreghismo di certi di fronte alle altrui limitazioni fisiche, l’ipocrita pietismo
di altri; vedo molte più discriminazioni di quante non ne vedessi già prima.

E non ho iniziato a vederle quando mi fu detto “Sei malata, e lo sarai tendenzialmente per tutto il
resto della tua vita, che da ora sarà all’insegna dell’incertezza più totale dell’oggi sul domani” –
come se non fosse così già normalmente, ma di solito uno non ci fa caso e dà qualsiasi cosa per
scontata. Ho iniziato a vederle quando ho cominciato ad ascoltare i racconti degli altri. E poi
quando il loro racconto è divenuto anche il mio.

In principio la cosa che più mi saltò all’occhio fu la quantità di donne che, neo spose, conviventi,
sposate da più di un decennio o due, venivano letteralmente abbandonate dai compagni con cui
magari condividevano un percorso di vita da 5, 10, 20 anni. Con cui magari avevano figl*, se non
nipoti. Non alla diagnosi, perché parlando di sclerosi è davvero difficile – nonostante ciò che dicono
in tv o sui giornali quando è ora dei vari telethon e raccolte fondi – che la disabilità che si sviluppa
all’esordio poi non rientri totalmente. Ma è una malattia totalmente imprevedibile, puoi conviverci
senza grossi problemi per 20 anni e poi nel giro di un anno sei in sedia a rotelle, o ipovedente, se
non completamente dipendente da qualcuno che ti deve aiutare anche a fare pipì o lavarti i denti.

Ma dettagli a parte, mi sono sentita terribilmente sessista quando ho iniziato a formulare nella mia
testa l’ipotesi che i maschi sono molto meno propensi delle donne a far fronte alle difficoltà che una
malattia qualsiasi comporta. In fondo, il giuramento matrimoniale non recita forse “in salute e in
malattia”? E quella dannata formula matrimoniale non è forse la base che dovrebbe avere ogni
coppia? Ma col tempo mi sono resa conto che la mia impressione non era così sbagliata. Ad un
certo punto persino la mia giustificazione più solida, quella secondo cui i maschi in genere non
parlano di queste cose, è andata frantumandosi. Perché li sento parlare di mogli, di compagne, che sì
sono magari stanche, sfiancate, ma restano comunque al loro fianco.

Non solo gli uomini sono meno propensi delle donne ad affrontare una disabilità che non riguarda
loro in prima persona, ma per una disabile single trovare un compagno che non la veda come una
malata ma come una persona è peggio che riuscire a trovare e a tenersi un lavoro. Facendo due conti
in base alle persone che ho conosciuto io personalmente, siamo a 1 uomo ogni 4 donne che se ne
fregano se la persona verso cui hanno interesse è disabile o malata perché la vedono come una
persona, appunto, e non come una tragica vittima di un destino crudele. Ad un certo punto penso sia
anche normale che noi donne malate ci mettiamo addosso una corazza che a penetrarla non basta
nemmeno una trivella. Perché magari mi freghi la prima volta, forse anche la seconda, ma alla terza
parto già prevenuta. Qualcun* può forse biasimarci?

E non ho parlato di lavoro a caso. L’INAIL definisce quella verso le donne disabili una
discriminazione multipla” (non vogliatemene, ma ho apprezzato l’ironia di questa definizione per
la patologia che ho). Parlando di donne sane, ne lavora meno del 50%. Parlando di quelle disabili,
in riferimento per lo più alle categorie protette, la percentuale del 2003 scende a un drammatico
25%. E immagino che, nonostante il blocco delle assunzioni dello scorso anno non riguardi anche i
disabili, a causa della “crisi” la percentuale riguardante il 2009 sia ancora più bassa. Non sono,
purtroppo, riuscita a trovare dati più recenti. Di mio, sono iscritta alle categorie protette da poco
meno di un anno. E’ un anno esatto in questo periodo che cerco ossessivamente un impiego, ma la
situazione dalle mie parti è completamente immobile, probabilmente già attaccata al respiratore,
forse stanno già parlando se staccare la spina. Se voglio lavorare dovrò inventarmi con tutta
probabilità un lavoro. Essere dipendente di me stessa, il che a dirla tutta non mi fa nemmeno così
tanto schifo.

Quella percentuale mi ha fatta sentire sollevata solo per un breve momento, come a dire che allora
non è colpa mia. Perché è questo un altro argomento spinoso. Già le donne vengono relegate a ruoli
complementari nelle aziende, ruoli che normalmente sono i primi a venire silurati in tempo di crisi,
hanno il doppio delle difficoltà rispetto agli uomini ad avere aumenti di stipendio e a far carriera.
Vengono assunte con molta cautela perché potrebbero sposarsi e di conseguenza decidere di fare le
casalinghe, potrebbero avere un figlio da un momento all’altro, potrebbero volersi sacrificare per
qualsiasi motivo e far passare il lavoro in secondo piano, perché è questo che le donne fanno
secondo il modo di vedere comune (in un altro articolo, l’INAIL la definisce “scarsa propensione
per il lavoro
”!!!). Per le donne il lavoro è un passatempo più che una necessità, sembrano dire. E
quindi quando tu vuoi lavorare, vuoi impegnarti, vuoi dare il meglio per raggiungere un obiettivo e
non ci riesci, finisci per sentirti in colpa. Perché la natura ti ha dotata di un doppio cromosoma X, di
un paio di tette, di due ovaie, di un utero e di una vagina. Ti senti in colpa per essere nata donna, per
essere una potenziale casalinga nonché incubatrice, levatrice e crocerossina per vocazione naturale.
Se non una scansafatiche.

Quando sei anche disabile o malata, il senso di colpa è quadruplicato. Perché non solo mettono il
carico sul fatto che tu sia donna, ma ti fanno anche pesare un problema che di solito non ti sei
andata a cercare. E ad una donna disabile, oltretutto, non puoi far sfruttare il corpo come una merce.
Una paraplegica o un’ipovedente non è quel che si può definire il sogno erotico del maschio italico.
A una donna che sta in carrozzina o che usa delle stampelle non puoi imporre il tacco a spillo
perché è più sexy, o la minigonna, o qualsiasi altro orpello per farlo rizzare ai clienti piuttosto che al
capo, perché una donna disabile deve badare prima di tutto alla propria comodità. Non può per
definizione essere un oggetto da mettere in bella mostra. La mercificazione del corpo va a farsi
benedire. Il che da un lato sarebbe anche un bene, se non fosse che all’atto dell’assunzione è una
cosa di cui tengono conto. Come se una donna senza problemi mentali ma esclusivamente fisici
fosse ¾ corpo e ¼ cervello, e se non puoi sfruttare i ¾te ne fai davvero poco del rimanente .

L’altro problema è che se assumi un* disabile devi normalmente aspettarti che si metta in malattia
più spesso che non una persona sana. Qua sta il problema del tenersi un lavoro. Vero è che le
aziende e gli enti pubblici per poter usufruire degli sgravi fiscali sono obbligati a certe modalità
contrattuali, ovvero niente contratti atipici ma esclusivamente a tempo determinato da un minimo di
6 mesi che alla scadenza se viene rinnovato deve esserlo necessariamente a tempo indeterminato
(per i più fortunati, periodo di prova e poi indeterminato), ma metti caso che in quel lasso di tempo
la metà lo passi a casa in malattia – vera, non a fare shopping – non penserai mica che te lo
rinnovino? Ufficialmente non possono non rinnovare il contratto per i troppi giorni di malattia, ma
ufficiosamente lo fanno a mezzo di altre scuse. E tu lo sai, ma non puoi farci molto.

È altrettanto vero che i furbi sono ovunque. Non avete idea delle volte che mi è stato detto di
lavorare una settimana e stare a casa le altre tre facendomi i fatti miei, e poi a fine mese portarmi a
casa il mio stipendio. Alcuni disabili, pochissimi comunque, lo fanno effettivamente, gettando fango
su un’intera categoria di persone che quando hanno diritto all’assegno di assistenza (una quota
ragguardevole, 260 euro al mese se il tuo reddito personale non supera i 4.300 euro l’anno)
sicuramente non gli basta per campare. E mi incazzo, perché io ho una dignità, perché io ho voglia
di fare, di dare, di impegnarmi.

E mi sento anche abbandonata dallo stato, perché le aziende che preferiscono pagare la penale per il
rifiuto di assumere un* disabile devono tirar fuori 14 miserissimi euro al giorno. Quando lavoravo a
tempo pieno ne prendevo 35, poi dite che non gli conviene?

Questa panoramica, che sicuramente scenderà più nello specifico anche con guide alla
sopravvivenza nel prossimo futuro, ha volutamente incentrato i problemi solo su donne con
handicap fisico e non mentale. Principalmente perché la mia conoscenza in ambito è limitata e non
mi va di fornire solo astrazioni, cifre e statistiche senza metterci del personale. Ma anche e
soprattutto perché vorrei evitare di essere io a provocare conati di vomito degni de “L’Esorcista”.
Potete comunque iniziare a farvi un’idea leggendovi qualche articolo, sempre targato INAIL, a
questo indirizzo. Consiglio davvero un antiemetico prima di cimentarvi nella lettura.

À bientôt!

—>>>immagine da Deviantart

Posted in Corpi, Fem/Activism, Omicidi sociali, Personale/Politico, Precarietà.


2 Responses

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  1. Massimo Parigi says

    Ho avuto occasione di leggere “E poi dite che non gli conviene ?” e raramente ho avuto occasione di leggere uno scritto così lucido, argomentato, amaro. Se è di suo gradimento mi piacerebbe comunicarte con la ragazza dell’articolo via e-mail: emmepi@quipo.it .
    Quello che mi ha stupito e che si aspettasse di più da uno stato che da un pezzo ha perso per strada valori etici (e non mi riferisco a quelli della chiesa: molto untuosi), solidarietà, giustizia. Eppure, riflettendo, ci vorrebbe poco ad introdurre nella legislazione “sani conflitti di intertesse”. Se per es: le ditte fossero costrette ha pagare 50 euro, anzichè 14, forse cambierebbero atteggiamento. Ma in Italia i conflitti di interesse che “interessano” sono altri.
    Tanto tempo fa lessi una cosa molto interessante sull’organizzazione del sistema sanitario cinese di qualche millennio fa: I medici venivano pagati dai propri pazienti per tutto il tempo che rimanevano sani, quando si ammalavano smettevano di pagarli, ma i medici erano obbligati a prendersi cura di loro. Io ho sempre trovato questa organizzazione praticamnente perfetta. Durante il tuo periodo di benessere, i medici avrebbero “l’interesse” a farlo protrarre il più a lungo possibile e quindi farebbero un po’ di medicina preventiva, cosa che attualmentge non fanno. Nel tuo periodo di malattia avrebbero l’interesse a farti guarire priuma possibile e difficilmente avvallerebbero una tua malattia fasulla. Sicuramente nemmeno nella Cina moderna esiste più una cosa così perfetta. Massimo

  2. federica says

    GRAZIE per questo post. non aggiungo altro.