di Viviana Esposito
La ministra delle Pari opportunità Mara Carfagna e il leghista Roberto Calderoli hanno deciso che anche l’Italia avrà presto un provvedimento «alla francese» per vietare il burqa e il niqab nei luoghi pubblici. La Carfagna spiega che è «assolutamente favorevole ad una legge. Penso che se ne debba discutere nel dibattito più generale sulla cittadinanza che è già cominciato in Parlamento», perchè «vietare il burqa non significa togliere alle donne una libertà ma restituirla a coloro a cui è stata negata per troppo tempo».
La linea francese piace anche al resto della maggioranza: al capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri e ai leghisti Borghezio e Castelli. Tanto è vero che in Parlamento, in commissione Affari costituzionali, sono state depositate solo in questa legislatura già due proposte di legge della maggioranza, firmate, una dai leghisti guidati dal capogruppo Roberto Cota e una della deputata Pdl Souad Sbai, in cui si chiede l’estensione del divieto di usare passamontagna e caschi in luoghi pubblici anche al burqa, con una pena per chi viola il divieto, che va fino a due anni.
A questo punto non si capisce se il decreto si fa per “salvare” le donne o per poterle meglio identificare. Per rendere più “umano” questo decreto si ritorna al vecchio metodo, già usato per la violenza contro le donne, di strumentalizzare una situazione sicuramente spinosa come quella del burqa per continuare a fomentare l’odio verso la cultura musulmana (come se solo questa imponesse dei “burqa” alle donne, dimenticando invece quelli imposti dalla nostra cultura).
Di quello che accadrà alle donne musulmane che portano il burqa, se il decreto diventasse legge, a nessun* di quest* politici sembra interessare. Perché, nel loro modo di pensare, basterebbe una legge per eliminare secoli di violenza, di sottomissione. Credono davvero che queste donne cammineranno senza burqa, mettendosi contro l’intera comunità in cui vivono? Loro rischiano la vita e per evitare il peggio si rinchiuderanno in casa, o saranno rinchiuse, e così il problema non sarà risolto ma solo nascosto tra quattro mura. Queste donne saranno private della loro libertà due volte.
La questione del burqa non è sicuramente religiosa, tanto è vero che nel Corano non si accenna ad esso. Feminoska nella mailing list ne ha narrato la storia:
“Era l’inizio del 1900 quando Habubullah Khan, grande emiro dell’Afghanistan, impose alle duecento donne del suo harem una speciale copertura che scongiurasse ogni tentazione maschile che non fosse la sua. Più in generale, fuori dalla residenza reale, le donne dell’emiro non dovevano neppure essere guardate: e nacque il burqa, inquietante copertura che da principio contraddistinse le donne di alto ceto. Ma di religioso, appunto, non c’era nulla. Il Corano non ne parla, anzi, quando genericamente affronta l’argomento – al verso 59 della sura XXXIII – dice che le donne devono essere riconosciute come è possibile fare con tutte le coperture islamiche tranne una, o una e mezza: col burqa, appunto, e assai spesso col niqab, che serve a velare il volto lasciando scoperti solo gli occhi. Nel tempo, tuttavia, il burqa si diffuse in tutto l’Afghanistan: e mentre i ceti elevati lo abbandonavano, quelli poveri lo facevano loro. Sembrava dovesse sparire nel 1961, in Afghanistan, quando una legge ne aveva vietato l’uso alle dipendenti pubbliche: ma poi ci fu la guerra civile e il regime teocratico dei talebani giunse progressivamente a vietare a ogni donna di mostrare il volto. Il burqa divenne una regola che oggi resta discretamente rispettata anche in Iran, in parte della Palestina, del Libano, della Georgia, dello Yemen, dell’Arabia Saudita nell’entroterra meno acculturato – e in generale dove ci sono musulmani sciiti. Difficilmente vedrete un burqa in Egitto, Turchia, Emirati Arabi, Kuwait, Indonesia o India.”
Il burqa dunque nasce come strumento di controllo del corpo della donna che essendo proprietà del marito non deve essere guardata/desiderata da nessun’altro (e mi viene in mente che per lo stesso motivo in Italia mia nonna doveva andare a mare con la sottoveste e le calze nere, tanto per non mostrare nulla neanche al sole). Il burqa è un’imposizioni atroce e orribile, e credo che tutt* auspichiamo che nessuna lo indossi, ma bandirlo, come si sta facendo in Francia e in Italia, non risolverà nulla.
Bisognerebbe infatti intervenire culturalmente, far capire a tutt* che questo è un sopruso, una violenza e che non c’entra nulla con la religione musulmana. Far capire a questi maschi che le donne non sono oggetti e che quindi non possono essere nascoste dietro metri di stoffa solo per il loro egoismo e permettere soprattutto a quelle donne di ribellarsi, di poter scegliere di non indossare il burqa senza rischiare di essere uccise, tutelando le loro scelte e non quelle che altr* fanno per loro.
La questione di una libera scelta è molto importante, non tanto per il burqa dato che è un’imposizione di cui le donne farebbero a meno, ma per il velo (che copre solo il contorno del volto e scende sul petto) e lo chador (che invece copre tutto il corpo tranne il volto, le mani e i piedi).
In Italia anche chi porta il velo viene discriminata, come è accaduto a Fatima, una bambina di 12 anni che avrebbe dovuto parlare davanti al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e al ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, nella «Giornata della legalità» organizzata al liceo artistico di Reggio Calabria, in Italia, nel paese in cui vive da diversi anni dopo la fuga della sua famiglia dal Libano, e che invece si è vista negare tale possibilità a causa del velo che indossava, per una questione di “suscettibilità”.
Per poter affrontare la questione del velo, bisogna, come per il burqa, capirne la storia e anche in tal caso Feminoska ci dà utilissime informazioni:
“L’uso del velo non è OBBLIGATORIO nel Corano, che in realtà consiglierebbe alle donne di indossare un fazzoletto da testa e di coprire il proprio corpo, a eccezione del volto e delle mani, ma non prescrive di coprirsi dalla testa ai piedi. Senza togliere comunque il fatto che, prescritto o consigliato, la prescrizione viene dal testo sacro di una religione monoteista e patriarcale, e già solo per questo mi sento liberissima di voler scardinare i precetti di purezza inarrivabile richiesti ad un essere umano di sesso femminile, a miglior gloria e maggior serenità del marito, il quale sottostà comunque a precetti sempre meno gravosi.”
Il velo con il passare del tempo ha assunto anche altri valori, oltre a quelli religiosi, come ci racconta Azar Nafisi in “Leggere Lolita a Teheran”, un libro che rende molto chiare la contraddizione dell’uso del velo. La Nafisi ci racconta che con la rivoluzione del 1979 l’ayatollah Khomeini aveva imposto a tutte le donne il velo come simbolo di rifiuto e lotta verso l’imperialismo occidentale. Lei dice che il problema non era il velo ma la perdita di scelta e l’imposizione di una trasformazione che le veniva imposta, rendendola ai suoi occhi un’estranea: “un ayatollah aveva stabilito il mio ideale di donna musulmana, di insegnante musulmana, e pretendeva che mi ci adeguassi in tutto, anche nell’aspetto esteriore.”
Poco dopo fu imposto alle donne di portare in pubblico lo chador o la veste lunga e il velo. Sulla perdita di scelta la Nafisi ritornerà più volte, e ribadirà il concetto che questo obbligo sarà sgradito anche a quelle che lo portavano già da prima, poiché il velo da simbolo religioso divenne un simbolo di potere. La Nafisi racconta di Mahshid, una sua allieva che aveva portato il velo ancor prima che fosse imposto, e che "prima della rivoluzione, poteva trarre una sorta di orgoglio dal proprio isolamento. Il velo testimoniava la sua fede. Portarlo era una sua decisione, un atto volontario. Quando la rivoluzione lo impose a tutte, il suo gesto perse qualunque significato".
Nel libro si parla anche di moltissime ragazze che invece subiscono il velo e che generano in se una specie di dipendenza dallo stesso, come Yassi, di cui la Nafisi scrive: "Era come il velo: per lei non significava più nulla, eppure senza si sarebbe sentita persa. Lo aveva sempre portato. Ma era lei a volerlo? Non lo sapeva(…) Disse che non riusciva a immaginarsi una Yassi senza velo. Che aspetto avrebbe avuto? I suoi gesti o il suo modo di camminare sarebbero cambiati? Gli altri l’avrebbero guardata in modo diverso? Sarebbe sembrata più intelligente o più stupida? Erano queste le sue ossessioni".
Inoltre vanno ricordate le femministe islamiche che lo indossano, rivendicandolo come segno di unità tra sorelle della stessa religione. Arifa Mazhar, direttrice delle questioni di genere per la “Sangi Development Foundation” in Pakistan ha dichiarato al Congresso Internazionale sul Femminismo Islamico tenutosi a Barcellona nel 2008: “Invece di discutere sull’Islam, dovremmo discutere sulla cultura e il suo impatto…Ci sono molti tabù e tradizioni tribali che opprimono le donne e questi hanno poco a che fare con l’Islam.” La seconda sfida del femminismo islamico infatti è tentare di interpretare i versi del Corano – soprattutto in considerazione del contesto attuale – che sono stati fraintesi o troppo generalizzati. Il punto quindi è rileggere il Corano per quello che è, senza strumentalizzarlo.
Coloro che studiano il Corano sanno che l’islam ha elevato i diritti delle donne al di là di qualsiasi cosa conosciuta nell’era pre-islamica. Infatti, nel settimo secolo, alle donne musulmane erano concessi diritti non concessi alle donne europee sino al diciannovesimo secolo, come il diritto di proprietà, eredità e divorzio. [per chi volesse saperne di più posto questo link da cui ho tratto queste info]
Ma a questo punto qualcuna giustamente potrebbe obiettare dicendo che la religione di per sé crea gabbie, limiti, categorie in cui rinchiudere uomini e donne. E come darvi torto.
Sempre all’interno della mailing list Feminoska a tal proposito ci dice:
“Garantiamo alle donne di poter essere libere da pressioni sociali, culturali e religiose. Garantiamo loro di poter vivere dignitosamente nel proprio corpo, di non essere angelicate, nè trattate come mostri di lascivia, di poter godere ed esserne felici, di poter andare in giro come gli pare senza avere gli occhi degli uomini che effettuano loro una ecografia transvaginale. Liberiamo le donne da questi enormi fardelli, e gli uomini da tutte le loro convinzioni tragicamente machiste. Capiamo noi per prime e facciamo capire ai nostri padri, compagni, mariti, fratelli, che uomini e donne hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, le stesse possibilità e gli stessi desideri.
Se bisogna coprirsi per sentirsi libere e sicure, protette da certi sguardi e certi pericoli, allora si è più prigioniere che mai. Di una cultura sbagliata, che pervade uomini e donne.
La questione è crescere insieme, parlare, mettere e mettersi in discussione. Si dovrebbe parlare invece, e lo si fa poco, di abbattere le maledette barriere culturali, di confrontarsi, e di non limitarsi a dire "sii libera di fare ciò che vuoi" senza chiedersi se quella scelta sia davvero frutto di libertà. Il giorno che tutte le donne potranno essere se stesse, andare per strada come gli pare senza essere a rischio stupro perché "se l’è cercata", quando non saremo più sante o prostitute, quando la si smetterà di considerare
pure e di valore le donne fedeli, sposate e caste (salvo che a soddisfare i desideri del consorte) – e di conseguenza puttane tutte le altre – quando, insomma, il velo sulla testa non significherà null’altro che piacere, capriccio, o qualsiasi altra cosa che non possa essere letta con il bruttissimo significato che ha ora, credo nessuno lo noterà. “
Il dubbio sorge quindi dal fatto che molte scelte siano veicolate da altr*, e che quindi siano non del tutto “libere e consapevoli”. E da ciò scaturisce anche la difficoltà di poter stabilire se il velo non sia solo qualcosa di imposto, come non si può negare che per certi versi lo sia. Ma la scelta delle donne di poterlo indossare o meno, deve essere garantita, perché altrimenti ci ritroviamo tante Santanchè ovunque che cercano di imporre modi di vita, che in realtà rientrano in un’altra gabbia, diversa nella forma ma ugualmente illiberale, e allora come possiamo noi decidere per tutte quale gabbia sia buona e quale no?
L’unica soluzione che mi viene in mente è quella proposta da Amparo Rubiales “dobbiamo farla finita con tutti i burka del mondo, sapendo affrontare con la stessa decisione le vecchie questioni e queste nuove – e più sottili – del neomaschilismo."
Mi spiace, io non sono affatto d’accordo né con l’uso del burqa, anche se avesse un significato religioso (ma in questo mi fido di voi perché io il Corano non l’ho letto e quindi non lo so), così come non sono d’accordo con il patriarcato cattolico che impedisce alle donne di raggiungere le alte sfere mentre sono sempre beatificate per essere vicine agli ultimi, e così gentilie generose nel fare da badanti ai preti.
Non sono d’accordo nemmeno con tutti gli altri burqa e (anche grazie a voi e aquesto blog) sto facendo dei passi avanti anch’io, contro i miei burqa… e non è mai facile.
Tuttavia -al di là della bellissima riflessione del post- continua a non essermi chiara la situazione: quale può essere una soluzione? Andiamo come i testimoni di geova casa per casa dai musulmani che vivono qui a spiegargli che non devono retendere che le loro donne indossino il burqa? Organizziamo dibattiti, proiezioni e workshop? E anche se a farlo non fossimo noi (che se sono convinti che il burqa sia cosa buona e giusta penso che ad essere molto ottimisti ci sputano in faccia in quanto donne che osano fare di queste cose, senza velo, senza permesso, e per aiutare le loro donne a “scappargli via”), pensate veramente che in altri modi sia fattibile far passare una cultura di diritti anche per le donne, specie in chi vede l’occidente come la culal della depravazione (e specie con gli esempi istituzionali che abbiamo a tutti i livelli, dal presidente del consiglio al più piccolo comune)?
Non so, sono molto scettica e incapace di vedere luce.
C’è una mamma che porta il bimbo alla stessa scuola dei miei, e la incrocio quasi tutte le mattine (la incrocio perché lei va via mentre io arrivo – sono sempre in ritardo).
Ha per mano un bimbo più piccolo, porta un abito molto lungo, un velo nero sui capelli, e un velo nero semitrasparente sul viso, che mette in evidenza due occhi come i miei: scuri, con ciglia e sopracciglia folte e nere.
Non so se sia un niqab: come detto, è trasparente, ma sempre velo è. Ma se non la lasciamo uscire con quello addosso lei che farà? Uscirà senza? Manderà il bimbo “grande” (in prima) da solo a scuola? E come porterà il piccolo ai giardinetti e a fare la spesa?
Per ora continua così. Ormai ci conosciamo di vista come tante altre mamme, ci diciamo buongiorno e ci sorridiamo. Questo l’ho scoperto: i sorrisi si vedono dagli occhi, anche se la bocca è nascosta da un velo.
Beh articolo nel complesso abbastanza interessante, ma si fa necessaria una precisazione per evitare che anche qui l’ignoranza si trasformi in intolleranza. In Libano il burqa e il niqab sono totalmente inesistenti. Paragonare un paese come il Libano all’ottusità dell’Arabia Saudita o dello Yemen solo perché è un paese a maggioranza Sciita è di per sé un atto di discriminazione religiosa! E ribalta la tesi per cui i burqa e i niqab non sono un abbigliamento imposto da una religione, bensì da una cultura purtroppo arretrata. Informatevi gente informatevi!!
Che il “no” al burqa sia una forma di violenza sulle donne, siamo sostanzialmente d’accordo.
[ http://ilpensieroselvaggio.blogspot.com/…qa.html ]
Su una cosa, però, non sono d’accordo: il fatto che il burqa sia nato (e sia spesso) una forma di “tutela oppressiva” della donna, non implica che l’unico significato possibile (oggi e nel futuro) sia quello (così come il velo ha molti significati, anche “femministi”). La posizione per la quale “sono sempre oppresse”, che pure istintivamente verrebbe naturale anche a me, mi sembra un pò affrettata.
[ http://www.petizionionline.it/…ana.blogspot.com/ ]
grazie, finalmente una discussione seria sulla questione del velo e non l’ennesima prepotenza parafemminista di tante donne “occidentali”