di Viviana Esposito
Leggendo il racconto “La comparsa” ho iniziato a riflettere su quanto la vita in fondo sia già un reality.
Vivo in una città che è la culla del teatro, del dramma, della tragedia, ma anche della comicità, della farsa, della commedia. A Napoli il teatro non è solo un’arte, ma è un modo di essere. Tutto è teatro, tutti recitano una parte, volenti o nolenti. Nella mia città se ti succede qualcosa di brutto è meglio che non lo fai sapere ai vicin*, perché per loro devi stare “fresca e tosta”.
Se vuoi urlare non puoi, perché chissà cosa i vicin* possono pensare, se discuti ad alta voce potrebbero pensare che tu e chi ti sta accanto vi odiate, se piangi fuori al cortile possono pensare che hai passato chissà “quale guai” e via discorrendo.
Bisogna munirsi di una maschera per non far trapelare nulla della propria vita, per far credere di vivere in una specie di idillio.
Nella mia famiglia come in altre ciò che conta è che gli altr* non vengano a sapere ciò che ti succede, perché l’immagine della famiglia deve restare intatta, integra. Su ciascun componente della famiglia grava questo fardello, e se si trasgredisce poi si viene additat* come “quell* che hanno messo lo squorno (vergogna) addosso alla famiglia” che di per se è un marchio indelebile.
Per questo motivo bisogna riuscire a tenere la calma, a non far trapelare emozioni, anche laddove c’è qualcosa di felice (perché ricordati a mammà, gli occhi addosso so peggio delle schioppettate).
Quando ciò non accade ci sono sempre dei motivi che riconducono al medesimo discorso: le famose “vaiasse” napoletane, ovvero le ragazze che parlano in dialetto, che hanno un atteggiamento molto aggressivo e diretto, che quando parlano fanno parecchio chiasso, lo fanno perché spesso sono ragazze che non vivono una vita “rosa e fiori”, che si fanno il “mazzo” al lavoro, e che hanno poco di cui gioire, ma nonostante ciò il buon umore gli resta, e quindi se ne fanno scudo.
E’ come se con il loro chiasso stessero sfidando il destino avverso, per dirgli che se anche la loro vita non sarà mai un idillio, loro non smetteranno mai di sorridere e divertirsi, di godere delle gioie della vita, seppur poche. E’ un bell’atteggiamento, ma è insostenibile a volte, perché non puoi sempre sorridere e allora ecco che nasce la farsa.
Le vaiasse sono poco sopportate perché quando sono felici lo sono eccessivamente, perché in realtà le persone preferiscono vederti soffrire che essere felice, e poi nelle loro “condizioni” di che cosa possono rallegrarsi? E quando le accade qualcosa di tragico e non possono nasconderlo, vengono additate come quelle che fanno “le sceneggiate alla Mario Merola”. In realtà queste sceneggiate hanno un loro perché: le donne sono “costrette” a farlo da una cultura che le ha sempre viste come vittime o carnefici.
Se analizzate le sceneggiate di Mario Merola vedrete che i personaggi femminili sono sempre gli stessi: la madre di lui che è vecchia, buona, malata, devota al figlio e a Dio (che a volte sembrano la stessa cosa), la moglie silenziosa, fedele, brava massaia, che cucina, stira, lava, tutto con il sorriso sulle labbra e senza mai lamentarsi, e poi c’è la cattiva, la fan fatal che con il suo fascino riesce a portare l’uomo sulla “cattiva strada”, dalla quale però poi si redimerà ritornando dalla moglie che puntualmente se lo riprende. Ecco quest* non sono solo “maschere”, ma stereotipi in cui o si rientra o se ne pagano le conseguenze. E in alcuni quartieri questa è “legge” ed è per questo che se ti succede qualcosa di tragico è meglio fare la vaiassa e passare per la vittima, che per quella che è carnefice.
Ma se da una parte ci sono loro, le vaiasse, dall’altra ci sono “le ragazze di buona famiglia” tra cui dovrei ritrovarmi anch’io, ma ahimè ho peccato, ho trasgredito e trasgredisco e per questo so di essere etichettata in modi diversi. Una ragazza di “buona famiglia” non può urlare in strada, non può parlare in napoletano (quello bello e verace), non può dire parolacce, non può mostrarsi troppo aggressiva (perché l’uomo vuole la donna dolce ed indifesa, il termine preciso è “femminile”), deve essere “femminile” anche nel modo di vestire, di ballare, di respirare, di ridere ed ecc…
Parecchie tra le mie amiche sono state rinchiuse in questi stereotipi e ancora oggi li accettano, dicono che in fondo la vita non gli cambia. Secondo me invece ti cambia. Se permetti a qualcun* di dirti che non puoi ridere a voce alta, che non puoi piangere così forte, che non puoi urlare allora gli permetti di gestire le tue emozioni che sono la parte più vera di noi, e allora non sei più te stessa ma diventi una maschera che recita una parte stabilita da altr*. Per questo motivo dico che la vita è già un reality show.