di iO nOn pOrtO il reggisenO
Roma: una, e tante.
Tutte le mattine prendo l’autobus: il controllore a volte sale, e controlla se si è in possesso del titolo di viaggio, ma solo degli stranieri con la pelle un po’ più scura.
Dopo scendo, sul giornale leggo della morte di Stefano Cucchi, ragazzo di Tor Pignattara, un quartiere di Roma multietnico, il mio preferito, e delle dichiarazioni del coglione di turno.
Camminando per le strade, vedo cartelloni: il popolo della vita che imbratta i muri (altro che writers) con i suoi manifesti sulla uomo-fobia [che pe’ capilli devi annà a legge sul sito loro cosa volevano dì, che poi sai com’è ce stanno i fraintendimenti e nun sia mai!] e sulla RU486, ma anche la proposta del municipio X sul testamento biologico, su cui la virile voce dell’Alemanno sindaco si affretta ad intervenire: communisti!!
Ma una cosa, penso camminando, che mi piace proprio tanto di Roma, sono i municipi: autonomi. La periferia di Roma non è stantia, è sempre viva, e non parlo solo delle zone più popolari come San Lorenzo, ma proprio di quella Tor Pignattara attraversata in due dai binari del trenino, quel Quadraro che ha voluto indire, anche contro la viril voce di cui sopra, la notte bianca che così titolava “Più Cultura Meno Paura” [per parlare solo di Roma Sud].
Continuo a camminare, e vedo camionette della polizia: Roma è assediata, eh già, questo pochi lo sanno, ma da tempo è così, anche se non si sa bene perchè. Poi però vedo le auto della polizia intorno ad un parco, dove dentro ci sono dei rom: hanno sgomberato il campo nomadi. Ma come? E nessuno dice niente?
La politica di Alemanno è sempre stata quella della paura.
Il problema sono gli zingari e gli stranieri. Come già si sa, il fascista di cui sopra speculò sul corpo di Giovanna Reggiani, e venne eletto dopo aver vinto il ballotaggio come sindaco di Roma. Ha fatto chiudere svariati centri sociali, ma non quello salvato tra i preferiti, casapound.
Alla fine del mio percorso, entro in facoltà: mi prendo un caffè e poi vado in aula. Si parla, parole, parole e parole: cosa ne pensate di questo? E di quello?
Oltre ad aver notato che si parla di tutto tranne di ciò che merita [n.b. frequento scienze politiche, non mineralogia], sento che il modo in cui si discorre di tutti gli argomenti è acritico, asettico.
L’altro giorno, una professorona ben nota che si diletta nel raccontare di chi è amica tra una spiegazione e l’altra, ci ha parlato di un importante tema, l’immaginario, toccando ovviamente il punto del ruolo della donna nei mezzi di comunicazione, nella televisione in particolare: non una parola sugli improbabili ruoli che le vengono affibiati.
E’ di oggi, invece, l’affermazione di un altro professorone di questi qui che ci sono ora: “Nello stile formularistico, tipico delle società in cui non esiste la scrittura, troviamo espressioni come: E’ forte come una roccia, oppure E’ debole come una donna.”
Il sessimo presente all’università è ben nascosto da presunta saggezza ed esperienza, ma soprattutto dal sorriso saccente che accompagna questi modi di dire: nessun* replica, quando vengono dette cose come queste, e nessun* si dichiara contrario a ciò che dice il professorone o la professorona di turno.
Esco dalla facoltà, un po’ amareggiata, chiedendomi cosa sto facendo, in preda al disorientamento più totale.
Ma sapete che c’è? Che quando salgo sull’autobus per tornare, io, tra bengalesi, nordafrican* e rumen*, mi sento più veramente a casa mia, a Roma, più che quando sto da sola con una certa italianità, anche un bel po’ fascista per la verità.
Non ho che le parole: la sento come te. Viviamo in una città molto maltrattata. Non ho che la speranza che viene dalla sua lunga storia. Ne ha visti tanti, e anche peggiori di questo nanetto fascista picchiatore mai pentito – solo bugiardo.