Skip to content


Nemiche

Una madre e una figlia ci raccontano una storia che riguarda un’altra madre e un’altra figlia. E’ singolare come con semplicità e senza bisogno di commenti emergano infinite questioni che tante donne vivono in italia. Buona lettura!

Nemiche 

di iO nOn pOrtO il reggisenO

C’è un paese in Italia del nord, che non esiste nemmeno sulle mappe più dettagliate. E’ una cittadina piena di case popolari, di aziende, ditte, di supermercati, di centri commerciali. Ci sono anche un paio di discoteche, punto di ritrovo di molti giovani che decidono di non frequentare la parrocchia.

La cosa curiosa del paesello di cui vi sto per parlare è che la maggior parte degli abitanti sono calabresi e siciliani emigrati alla ricerca di un lavoro nella seconda metà dello scorso secolo: si può dire che questa cittadella è nata insieme all’emigrazione.

Qui si svolge una delle vicende più contraddittorie e tristi di cui io sia mai venuta a conoscenza, e ho avuto bisogno di mia madre, che mi ha raccontato i pezzi mancanti di questa storia quasi senza senso, per riuscire a rimetterla insieme.

Quand’ero piccola avevo un’amica, che chiamerò col finto nome di Miriam. Dato che d’estate non sapevamo dove stare perché suo padre e mia madre lavoravano insieme, spesso passavamo il tempo presso il loro posto di lavoro.

Insieme giocavamo tra le cosiddette “pezze”, rotoli di stoffa colorati che formavano una montagna, tantissima polvere, e i macchinari per tagliare e cucire.

Subito diventammo "migliori amiche". Il tempo passava e io ne passavo sempre di più con lei. Diventammo grandi. Il nostro periodo preadolescenziale lo trascorremmo al cosiddetto “circolo”. Era un luogo di ritrovo per tutti coloro che non volevano dedicarsi alla parrocchia, ma nemmeno bruciarsi i neuroni in discoteca. Una sorta di via di mezzo, additata però come il posto del diavolo perché c’erano dei ragazzi che suonavano la musica rock e si vestivano punk.

Passammo un bel po’ di tempo lì, finchè io non cambiai città e poi ci perdemmo di vista. Non divenne famosa come diceva da piccola quando giocavamo tra le “pezze”, non andò in America, rimase sempre in quella cittadina: andò all’università e divenne infermiera, perché voleva andarsene di casa il prima possibile.

La sua casa era un posto molto particolare: c’era qualcosa che non andava in quella famiglia che tentava in tutti i modi di apparire perfetta. Miriam odiava la madre profondamente, me lo diceva in continuazione: “A quella non le va di lavorare, dorme tutto il giorno, poi piange, poi mangia, poi dorme. Non fa niente. E’ mio padre a fare tutto. E poi non vuole bene a me e a mio fratello.”

Effettivamente la madre faceva proprio quello che lei aveva detto. Un giorno, ed eravamo già abbastanza grandi, la madre a cena disse qualcosa contro una certa politica di destra e Miriam si arrabbiò da morire, dicendo che solo quelli come lei potevano essere comunisti, quelli che non hanno voglia di fare niente. Le contraddizioni della mia amica, però, erano sempre più evidenti: voleva essere una dura, ma in realtà era molto fragile. Voleva essere fascista, ma i suoi comportamenti suggerivano tutto fuorchè quello. Se la prendeva con i più deboli, con sua madre, ma poi piangeva per averlo fatto. Non ho mai capito come mai, finchè mia madre non mi ha raccontato la sua storia.

Concetta, la madre di Miriam, trascorse l’infanzia e l’adolescenza al collegio: i suoi genitori non le volevano bene. Preferivano gli altri figli, non le diedero mai un briciolo d’amore né di gioia. Quando emigrarono al nord lei iniziò a lavorare come parrucchiera, diventando molto brava. Poco tempo dopo conobbe Giuseppe, anche lui emigrato dal sud, e dopo sei mesi si sposarono. Subito ebbero un bambino. Dopo quattro anni nacque Miriam.

Il sogno di Concetta, a detta di tutti, era fare la mamma, e solo quello. Siccome Giuseppe in quel periodo guadagnava molti soldi, le disse di non lavorare, di occuparsi solo dei bambini. La loro era una famiglia perfetta, invidiabile. Lei, da brava mogliettina, si occupava dei bambini, lavava, puliva, stirava, faceva pranzo e cena per il marito che non quasi non poteva credere di essere così felice, di avere una moglie così.

Nel frattempo lei iniziò a frequentare la parte “in” del paese in cui vivevano, e sfoggiò la sua ricchezza e i suoi soldi, perché nient’altro le avevano dato: i suoi genitori non le insegnarono cos’è l’amore, lei non fu mai libera. E tra indifferenza e sensi di colpa, in quel giro di persone conobbe un uomo con il quale tradì il marito. Giusto? Sbagliato?, verrebbe da chiedersi. Non è quello il punto, purtroppo. Ma le conseguenze.

Oppressa dal senso di colpa per aver fatto una cosa simile, non disse mai al marito del tradimento. Iniziò ad impazzire lentamente. Rovini l’unica cosa bella che hai nella vita, e vuoi morire. Improvvisamente fare la mamma, cucinare, pulire, lavare, stirare, sono cose vuote, senza importanza: vuoi solo morire. E’ troppo tardi per salvarla dalla vocina dell’inadeguatezza che ha dentro di sé, quando Giuseppe interviene e decide di affidarla alle cure di un ospedale specialistico. Viene legata al letto.

Nessuno sa il motivo del suo esaurimento nervoso. Allora il suo psichiatra le consiglia di tenere un diario: man mano il suo inconscio si ribella, e decide di raccontare la verità. Aveva tradito suo marito, e lui non si arrabbierà quando lo verrà a sapere. Semplicemente, rimarrà deluso, deluso perché una cosa così senza importanza gli aveva rovinato una felicità senza prezzo.

Quanto poco quel marito aveva conosciuto sua moglie? Quanto poco quella donna sapeva di se stessa? E perché? E’ forse casuale che una bambina non amata diventi una donna la cui unica aspirazione è fare la moglie e la mamma, e basta? Annullarsi nella famiglia è davvero così naturale ed ovvio come certe istituzioni, certe televisioni, certa informazione ci vorrebbe far capire? No. Non lo è.

Concetta vive da quasi dieci anni come un vegetale: dorme, mangia, a volte cucina, ma viene comunque criticata dalla figlia per qualsiasi cosa faccia. Le medicine che assume e che la fanno dormire così tanto, l’hanno fatta ingrassare di venti chili. Giuseppe ha smesso di amarla, ma vive ancora con lei, per pietà, probabilmente. I suoi genitori e i suoi fratelli e sorelle non l’hanno mai aiutata. E’, ancora oggi, additata da tutti come una fannullona.

L’unica persona clemente con la madre è stato il figlio più grande, che nonostante non conosca il motivo per cui lei stia così, ricorda i momenti in cui lei stava bene, ed è cresciuto anche lui tra i sensi di colpa e una grande tristezza. Lui, con Miriam, non c’entra niente. Ma anche il modo di comportarsi della mia amica d’infanzia è una naturale reazione, anche se opposta e contraria, ad un problema sociale serio, di cui nessuno però vuole parlare.

—>>>immagine da hardcore judas

Posted in Corpi, Omicidi sociali, Storie violente.


3 Responses

Stay in touch with the conversation, subscribe to the RSS feed for comments on this post.

  1. iO nOn pOrtO il reggisenO says

    Ale, tu dici una cosa giusta, sottintendendo che le emozioni vanno vissute con piena responsabilità. Il punto è proprio questo: una donna vive la sua vita senza esser cosciente di sé e delle proprie emozioni: da qui scaturiscono le mie domande, ma ci potremmo anche chiedere: “se fosse stata cosciente di sé e delle proprie emozioni, si sarebbe sposata così presto, senza un minimo di ribellione nei confronti della famiglia d’origine?”. Il padre occupa la sua posizione nella gerarchia della famiglia piccolo-borghese, sicura e irremovibile.

    quello che volevo sottolineare è proprio questa mancanza di amore ed emozioni vissute consapevolmente (che non c’entrano nulla con la famiglia perfetta che uno vuole imitare) come causa del disagio psicologico della madre.

  2. Ale says

    Ma il padre dove sta? Voglio dire, è soltanto la madre a doversi occupare dell’educazione dei figli? Vorrei sapere dove sono le parole del padre verso i figli e quali sono, in riferimento alla moglie. Qui, più che mancanza di amore, scusate, vedo una profonda ignoranza in merito alle emozioni, ai sentimenti. L’amore sarà anche una componente, ma le emozioni (esserne coscienti, viverle con responsabilità) sono la base sulla quale si forma una personalità. In questa famiglia mi sembra manchino proprio le emozioni (la loro esternazione). Sembra che tutti cerchino di nasconderle (quando si comprimono, uno deve aspettarsi da un momento all’altro l’esplosione). La tipica famiglia “borghese”…
    Le vittime qui sono tutti i membri della famiglia, e credo che i carnefici siano gli esterni, invece.
    E credo pure che la malattia mentale sia un modo per rendersi liberi, alle volte, dagli altri, se questi altri non fanno che vedere soltanto i propri bisogni.

  3. cass says

    …..tanta tristezza per il marito, che non ha mai capito che la moglie poteva fare altro, tenerezza per il figlio che ama la madre anche se è così, perchè è sua madre, tanto dispiacere per una figlia che è arrabbiata con sua madre, che lotta per non diventare come sua madre, ma che le manca sua madre…..complimenti alla scrittrice…