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La storia di S

Abbiamo ricevuto una mail di una ragazza che ha voluto raccontare la sua storia con le proprie parole. E sono parole dure, imbarazzanti per tutti quegli adulti e quelle adulte che continuano a blaterare tesi strampalate sulla vita degli adolescenti e delle giovani ragazze. Una giovanissima ragazza che sopravvive ai grandi e che reagisce e si ribella e racconta di sè dopo aver maturato coscienza di quello che le è accaduto grazie ad un film, è la più grande conquista che chi diffonde parole ed esperienze di donne possa aver raggiunto. Ecco perchè lei racconta la sua storia, per restituire ad altre la forza di una grande lotta che termina con un successo personale: narrarsi e narrare, per se stessa e per tutte le altre. Perciò grazie. Pubblichiamo la sua lettera facendole sentire l’abbraccio più grande che si possa dedicare ad una sorella. Buona lettura!

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E’ stato guardando “Un’ora sola ti vorrei” di Alina Marazzi che ho capito di dover raccontare la mia storia ora, a voi. Il motivo è che sin da quando fui vittima, capii che un giorno o l’altro, non sapevo bene a chi, queste cose le dovevo raccontare, per non farle accadere mai più. Mai più.

La mia non è una storia di quelle in cui c’è una ragazza che è vittima di un carnefice solo; non mi sono mai rispecchiata nei film, perché lì c’è una persona che usa violenza su un’altra. Invece io sono stata violentata dalle circostanze, dal mio paese indifferente. Dalle istituzioni. E per ultimo dalle persone che me l’hanno fatta fisicamente e psicologicamente.

Sono nata in un paesino del nord d’Italia, dove ho passato la mia infanzia. I miei genitori non si volevano bene, io lo capivo, mio padre aveva qualcosa che non andava. Aveva delle esplosioni di rabbia, sempre giustificate. La grandiosità mia, e di tutti i bambini, credo, fu nel capire profondamente questo suo problema, e sapevo inoltre che anche se tutti dicevano che era solo arrabbiato, in realtà erano gli occhi a dire la verità. Era come se la parte cattiva di lui prendesse il sopravvento in maniera del tutto inaspettata. Pertanto, decisi sin dall’età di tre anni, che non sarei mai stata più da sola con lui.

Questo portò ad altre esplosioni d’ira. Una volta mi riempì di calci, pugni, schiaffi. Mi feci la pipì addosso. Mia madre non era in casa, e quando ritornò e mi vide conciata com’ero, bè, si mise veramente paura. Il giorno dopo lui mi chiese scusa. Avevo lo sguardo severo, credo, e se ce l’ho ancora forse è lì che va ricercata la causa. Con quello sguardo ho ulteriormente rafforzato la mia idea: non gli devi volere bene, ha dei problemi. E ce li aveva. Solo che esplosero tutti insieme, quando mia madre chiese la separazione.

Iniziò a bere tanto, ad ubriacarsi. Poi non picchiava nessuno, anzi, faceva di peggio: piangeva. Io avevo undici anni. Avevo sempre il mio sguardo severo, e soffrivo, perché non capivo. Mi mancava il motivo dei suoi pianti disperati. Lo vedo ancora, e mi fa male (e un giorno, per continuare a vivere veramente dovrò assolverlo, ma non ora) : lui seduto su una sedia di vimini nella veranda di casa, in un angolo, che piange. Che minaccia il suicidio. Che torna una notte ubriaco e mia madre ed io scappiamo a dormire dai nonni. Sì. Non me lo posso scordare. Quand’era ubriaco non mi toccò mai, né me né lei. Ma io avevo paura che ci uccidesse. Perché capivo che la sua tristezza derivava da un grande egoismo. Lui voleva noi. Voleva vendicarsi.

Una volta, quand’ero piccola, mi aveva messo davanti un pesce crudo per cena, e io gli chiedevo: “Papà, perché è crudo?”, e lui: “Perché la mamma lavora e non te lo può cuocere.” Ecco qual era il problema. Mia madre aveva iniziato a lavorare, aveva fatto una piccola carriera, e lui questo non lo poteva sopportare. E si vendicava su di me.

L’anno dopo, con mia grande felicità, mio padre cambia casa. Ovviamente ero arrabbiata anche con mia madre, che non aveva fatto niente (ai miei occhi) per evitare certi comportamenti di mio padre, se non colpevolizzarsi o giustificarlo. Lei conosce un uomo, perde il lavoro, e parte per Roma. Io facevo le medie, non potevo partire con lei, e non volevo soprattutto. Vado allora a vivere dai miei nonni.

Fu in quell’anno che venni stuprata. Conobbi Massimiliano via chat. Ci uscii, di nascosto ovviamente. Lui aveva sedici anni, io dodici. Uscimmo un paio di volte, e poi mi obbligò a fare sesso con lui. Io non volevo. Certo, ero andata di mia spontanea volontà con lui, sapevo chi era. E fu qui la violenza istituzionale. Nessuno mi voleva riconoscere uno stupro, perché io lo conoscevo, non c’erano segni di violenza, e poi io un po’ c’ero voluta stare.

E’ tutto vero, fino ad un secondo prima, cioè il momento in cui lui tira fuori il suo coso. Io non lo volevo più fare. Lui capì, e infatti mi obbligò “solo” a fargli un pompino. La denuncia non la feci. Ho cercato di farla ora, ma non si può più fare niente, proprio perché non c’erano prove allora. Figurati sette anni dopo.

E’ lì che l’anima invecchia, che il mondo inizia a sembrare un buco dove a nessuno importa di nessuno. Insomma, dove muoiono i diritti umani, dove non c’è empatia, compassione. E io, allora, ho risfoderato il mio sguardo severo. Ma dentro c’era un’ombra, l’ombra della tristezza. E quella non va più via. Non la puoi cancellare. Nessuno lo può fare.

Dopo qualche anno mi trasferisco a Roma. Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Mia madre stava con un uomo peggio di mio padre. Perché se mio padre era violento, almeno era evidentemente debole, e io potevo in qualche modo salvarmi dalla violenza psicologica che esercitava su di me usando la sua debolezza. Quest’uomo invece la sua debolezza non la faceva vedere.

Avevo quattordici anni quando sono andata a vivere da loro. Sin dall’inizio capii che c’era qualcosa che non andava. Fortunatamente però avevo la scuola, studiavo lingue al liceo. E fu quello che mi salvò. Finchè non conobbi un ragazzo, e mi innamorai sul serio, forse per la prima volta. Facemmo l’amore, non mi arrivavano le mestruazioni, allora decisi di fare un test di gravidanza. Ovviamente era negativo, perché avevamo usato il preservativo. Ma feci un errore strategico: lasciare lo scontrino del test in bagno.

Il compagno di mia madre rincasò prima, quel giorno, e andò in farmacia a mia insaputa per informarsi su che cos’era quel prodotto. Non mi disse niente, lo disse allora a mia madre, a cui venne un colpo. Raccontai subito che non ero incinta, ma niente. Il punto era che avevo rischiato. Il punto, per me, fu che violarono la mia intimità, che niente può giustificare che un completo estraneo mette le mani nella tua vita, anche quando sei minorenne, e che poi ti strilla e ti urla. Fu la persona più scorretta che conobbi. E lo fu sempre.

I giorni passavano, e avevo dei divieti: non potevo uscire, non potevo portare ragazzi in casa (e avevo molti amici maschi). Dovevo “dare una mano in casa”, e mia madre non disse mai nulla. “Dare una mano” significava fare tutto, considerato che mia madre lavorava molto e lui non faceva nulla.

Una volta si presentò in camera mia col dito sporco di polvere, e mi disse che il suo comodino era sporco. Le violenze psicologiche continuarono: ogni volta che rompevo un piatto era una tragedia, si arrivò quindi che io non aprii più bocca. Ero io la stronza, l’ingrata, e sapete qual è il bello? Che riuscirono a farmici sentire. Ero un’ingrata perché lui mi aveva costruito una cameretta, e io non mostravo segni di gratitudine nei suoi confronti.

Non parlare era la mia strategia. Non potevo sbagliare, se non parlavo, pensavo. E invece no. Venni convocata in cucina, un giorno da mia madre e da lui, che mi dissero che a tavola dovevo sorridere. Che dovevo partecipare alla vita famigliare. (“Siamo una famiglia?”)

Io non cambiai carattere, non per orgoglio, ma perché ero fatta così. Avevo cercato, una volta, di spiegare il motivo di com’ero fatta, e quello che non mi stava bene di loro, ma non riuscivo a parlare. Paradossalmente, anche il problema di lui erano gli occhi. I suoi occhi non mi piacevano, non erano buoni. Si capiva chiaramente che era un uomo che odiava le donne, se mi passate la citazione.

Trascorsi solo tre anni in quella casa, come in prigione. Alla fine, però, ero riuscita a fare in modo di stare pochissimo a casa, avevo lo zaino di scuola dove tenevo tutte le mie cose, era una sorta di casa sulle spalle. Studiavo ovunque, e ringrazio i miei professori perché hanno sempre approfittato del mio interesse per consigliarmi letture, approfondimenti, che mi permettevano di allargare la visione del mondo, perché se per un solo istante mi fossi concentrata sul presente, sarebbe stato l’inferno.

Ormai era diventato il regime del terrore. Non si poteva fare troppo rumore, usare troppa acqua per i piatti, mangiare troppo salame, tenere accesi per un’ora in più i riscaldamenti, fare la doccia per troppo tempo, rimanere a letto troppo la domenica… E ho così tanti esempi che non posso elencarli tutti per ragioni di spazio.

Ovviamente me ne strafottevo, perché comunque non ho mai abbassato la testa. Ho sopportato, quello sì, ma mai e poi mai mi sono fatta mettere i piedi in testa. Finchè, a diciassette anni e mezzo, una sera, accadde: stavo cantando mentre mi asciugavo i capelli dopo la doccia, e lui perse le staffe. Mi chiamò stronza, usò degli aggettivi poco simpatici nei miei confronti, e mi disse che non avevo rispetto, perché lui era ancora arrabbiato a causa di una delle tante litigate di pochi giorni prima. Al che andai a dormire, ma in testa avevo già l’idea di andarmene. Basta.

All’inzio venni ospitata da un’amica per un po’. Poi mia madre mi affittò un appartamento, dove vivo ancora e sono libera. Ora ho diciannove anni. Le paure non mi hanno lasciata. Ma le sto affrontando, consapevole di tutte le violenze fisiche e psicologiche che mi sono state fatte.

Da notare che l’uomo di mia madre non mi ha mai messo le mani addosso, ma è stato quello che mi ha terrorizzato di più, che mi ha causato attacchi di panico, crisi di pianto, sedute dallo psicologo (inutili, visto che il problema sapevo benissimo qual era, il punto era voler metterci una pezza sopra).

Nel frattempo ho anche sofferto di crisi epilettiche, che da quando ho cambiato casa non ho più. La causa di queste dal mio neurologo è stata individuata nella fotosensibilità, ma io non credo nelle coincidenze, visto che il mio ultimo elettroencefalogramma era come quello di una persona sana.

Non ho voluto fare nomi (a parte quello del mio stupratore) solo per mia madre: non vorrei mai e poi mai che lei si sentisse in colpa. Vorrei solo la sua felicità, vorrei vederla libera, vorrei che mi dicesse che non sta con un uomo solo per la paura di invecchiare e rimanere da sola. Ma non sta a me giudicare la sua vita, e quindi non ho voluto metterla in mezzo. Solo alla fine ha capito. Ma non mi sono mai sentita capita da lei. Non mi ha mai detto: “Hai fatto bene.” Ma le voglio bene. Perché è mia madre. Forse è per questo che è solo dopo Alina che ho deciso di parlare.

S.

Posted in Corpi, Omicidi sociali, Storie violente.


3 Responses

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  1. S. says

    Grazie a voi!
    Il punto, Vivi, è che anche quando io ho avuto questi casini, soprattutto col compagno di mia madre, mi dicevano tutti che era una situazione diffusa, capita, succede che non si va d’accordo…
    Poi quando ne sei fuori, e guardi la tua situazione, capisci veramente che non era una situazione sostenibile. Sono certa che anche la tua era così, perchè sennò non si spiega il tuo crollo. Cioè, una può anche crollare per una stronzata apparente, ma se per è stata la causa di un crollo… va presa sul serio. Io ho fatto così.
    Se dovevo stare a sentire certi consigli, a quest’ora stavo ancora da quel matto.

  2. nania says

    anch’io cara S. ti sn vicina e ti ammiro e ti ringrazio x aver condiviso, lasciati tutto l’orrore dietro e vai avanti, sempre + avanti, ti abbraccio forte!

  3. Vivi says

    Cara S. ho appena finito di leggere la tua storia e le parole mi sfuggono… nonostante ciò, però vorrei scrivere qualcosa per ringraziarti per aver voluto condividere tutto ciò con noi, ma soprattutto per esprimerti la mia ammirazione per la tua forza e il tuo coraggio. E’ incredibile che una ragazza così giovane riesca a far fronte a tutta questa violenza, fisica e psicologica. Personalmente posso dirti che alla tua età ho avuto un crollo emotivo, chiamiamolo così, per cose che sono risultano stupide al confronto con le tue… eppure non sono riuscita a gestirlei. Quindi come potrei non ammirare la tua tenacia, la tua grande maturità…. sei riuscita ad analizzare le tue paure, i tuoi problemi ,hai trovato il motivo che li scatenava e lo hai affrontato. Il tuo esempio è importantissimo per tutte le donne, perchè dimostra che reagire, se pur non facile ne indolore, è l’unica cosa da fare difronte alle violenze subite e al bagaglio di dolore e problemi che queste generano nel tempo. Ti invio un enorme abbraccio, pieno di affetto e ti auguro tutto il bene di questo mondo. Grazie ancora.