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In Cecenia muoiono tutte

http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/esteri/russia-giornalisti/omicidio-cecenia/este_59489_15370.jpg Si chiamava Natalia Estemirova. E’ morta. Il suo nome è legato alla questione della cecenia. C’e’ sempre qualche soggetto che se indaghi su di lui ti manda un sicario.

Prima di lei era morto ammazzato Stanislav Markelov, avvocato di Anna Politkovskaja, morta ammazzata anche lei. Markelov è stato ammazzato per strada insieme ad Anastasija Baburova, giornalista venticinquenne della Novaja Gazeta, stessa testata della Politkovskaja. Era l’avvocato che si batteva contro il rilascio anticipato del
colonnello Yuri Budanov, l’ufficiale di più alto grado condannato per
crimini di guerra da un tribunale russo. Nel processo contro il
colonnello Budanov, Markelov rappresentava la famiglia di Elza
Kungaeva, la diciottenne cecena stuprata e uccisa a Khankalà da un
gruppo di soldati russi. All’episodio dello stupro e omicidio si ispira il prologo del romanzo “Il sangue degli altri“ di Antonio Pagliaro. Alla figura criminale del colonnello Budanov è ispirato il personaggio del romanzo colonnello Kovalev.

In questi anni, l’omicidio di Elza è diventato il simbolo degli abusi
commessi in Cecenia dalle truppe russe. L’episodio è raccontato in
molte pagine dell’indispensabile libro “La Russia di Putin” di Anna
Politkovskaja.

La Estemirova viveva a Grozny, stesso territorio della faccenda che ha riguardato la Politkovskaja, Markelov e la Baburova. Indagava sul governo ceceno che è un po’ l’ombra del governo russo calato sul territorio per sedare le lotte indipendentiste.

Non so dire molto perchè non so nulla o quasi di quello che succede in quel territorio però condivido, con il consenso dell’autore, il prologo de "Il sangue degli altri":

Khankalà, circa cinque anni prima

A Khankalà sono le quattro e dieci del mattino, fine marzo, uno spicchio di luna.

A Khankalà c’è freddo.


Sopra la cornice della porta c’è una placca metallica lunga e stretta. Su sfondo bianco, la scritta in russo: …….., Komandir. La porta è malmessa, l’ultimo strato di vernice si sta scrostando. Appena si varca la soglia, si sente l’odore del sangue, del sudore, delle lacrime.

Luiza ha diciassette anni.

Luiza l’hanno torturata per tre ore.

Era a casa, prima.

Era con mamma e papà, con i fratelli.

Otto miliziani l’hanno presa, stordita, avvolta in una coperta, portata in un prefabbricato militare alle porte di Groznyj. Sei sono andati via, due l’hanno picchiata.

Calci, pugni, schiaffi. Lei all’inizio reagiva, si dimenava, tentava di battersi. Aveva infilato le unghie nere nella carne di uno di loro. Lui aveva urlato dal dolore, ma si era incattivito. Aveva ripreso a
picchiarla ancora più selvaggio. Poi, era uscito all’aperto a chiamare i suoi uomini. Erano entrati in quattro, con l’ordine di legarla.

La luce tremolante.

Su quegli uomini un’aura spettrale.

Mani e piedi. Nodi così stretti che i polsi e le caviglie avevano cominciato a sanguinare. I quattro uomini erano usciti, Luiza era rimasta sola con i due aguzzini.

Infierivano su di lei con una violenza che Luiza, prima, non avrebbe saputo immaginare. Una violenza di cui non capiva la ragione. Fino a farla svenire.

A Khankalà sono le quattro e dodici del mattino, fine marzo, uno spicchio di luna.

Luiza è al suolo, colpita al volto. Mani e piedi legati. Adesso è innocua, le sue forze esaurite, la sua capacità di reagire annullata.

Prova a raggomitolarsi lì, sul linoleum, ma non ce la fa. Dalla bocca le esce un debole rantolo. Sono grossi e ubriachi. Le parlano in russo, lei non capisce. Ridono vedendola trascinarsi a terra. Una risata sonora e lunga.

I due uomini siedono al tavolino e riprendono a bere vodka. Finiscono la seconda bottiglia. Poi, si danno manate complici. Aprono un rubinetto, riempiono un secchio di acqua fredda. La gettano su
Luiza. La ragazza è intontita e sanguinante, ma sembra riprendersi.

Appena le vedono aprire gli occhi, le sono ancora addosso. La slegano. Via la vecchia gonna consunta, via la camicetta. Le strappano il reggiseno. Il seno sodo li fa ridere forte, a lungo. Si battono pacche sulle spalle e continuano a ridere. Puzzano come caproni.

Le tolgono anche le mutande. Luiza rimane nuda, il volto tumefatto, il corpo livido ma bellissimo.

C’è un bastone di legno poggiato in un angolo. Il primo uomo lo prende. Grida: «Apriamola da dietro».

Il secondo uomo lo ferma.

«Aspetta» dice.

Prima vuole penetrarla lui. Il suo membro è durissimo, non ce la fa più.

«Vai» gli dice il primo uomo «tu dietro e io davanti».

A Khankalà sono le quattro e trentotto del mattino, fine marzo, uno spicchio di luna.

La ragazza è inerme. La gettano sulla branda e si distendono con lei. Luiza è vergine. Il secondo uomo la penetra e viene in pochi secondi grugnendo come un animale. Il primo uomo non ci riesce.
Il membro gli si affloscia quasi subito, forse per il troppo alcol.

Luiza cade dalla branda. È sul pavimento di linoleum, semicosciente. Il primo uomo, con il membro floscio, la penetra con la mano. Prima due dita, poi quattro. Chiude la mano e la penetra
con il pugno.

Luiza sente un dolore lacerante, sente il corpo squassato. Tenta di divincolarsi, ma non ha più forza. Non riesce a muovere nessun muscolo. Inarca appena la schiena, è tutto quello che può fare.

L’uomo la penetra con il pugno e si eccita, ma il suo membro rimane floscio. È ubriaco. Tira fuori la mano dalla vagina. Bestemmia un paio di volte ad alta voce. Furioso, esce dall’alloggio. È buio, nel
campo sembra che dormano tutti. Torna con un bastone di ferro. Il secondo uomo ha già preso la bottiglia di vodka vuota e la sta infilando nell’ano di Luiza.

Il bastone è nella vagina, il collo della bottiglia si spezza nell’ano. Il vetro taglia la carne di Luiza. La ragazza è svenuta. Il primo uomo prende ancora dell’acqua fredda. Si divertono di più se è cosciente. Ma Luiza stavolta non si risveglia. Fra le palpebre si intravede il bianco degli occhi. Perde sangue dalla vagina, dall’ano, dal naso, dai polsi, dalle caviglie.

A Khankalà sono le quattro e cinquanta del mattino, fine marzo, uno spicchio di luna.

Il secondo uomo si allontana.

«La puttana non vuole più scopare» dice.

«Ci penso io a lei» replica l’altro.

La prende per la gola e stringe. Forte, sempre più forte, fino a sentirla morire.

 

Posted in Fem/Activism, Omicidi sociali.


2 Responses

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  1. luca says

    Leggendo queste cose mi dispiace che durante la guerra fredda il mondo non sia saltato in aria, la natura si sarebbe certamente ripresa, ma almeno sarebbe sparito anche l’animale più cattivo e spietato, l’uomo!
    Che mondo di merda… poi il cattivo era Stalin, alla faccia del bicarbonato di sodio!

  2. Saamaya says

    non mi capacito della barbarità cui arrivano certi esseri nati-come-pensanti e divenuti mostri.