Riceviamo
da "Articolo 3 – Osservatorio sulle discriminazioni", che opera a
Mantova dall’aprile 2008 e che ringraziamo per la collaborazione,
questa nota – pubblicata anche nella loro newsletter – che alle
immagini della nostra attualità associa "periodi ben più cupi" per
la (…)
L’aria
è resa fosca dalle parole che si intrecciano nel corso delle
trasmissioni televisive, sulle pagine dei giornali: guerra, stupri,
emergenza, espulsioni, ronde.
Nel malessere diffuso vien da fare associazioni,
forse un po’ azzardate ma istruttive, con periodi ben più cupi che
hanno insanguinato terre a noi molto vicine come la ex Jugoslavia, dove
guerre moderne e già dimenticate hanno devastato meno di vent’anni fa
una società evoluta attraversata da una grave crisi politica, economica
e istituzionale
Il Piano Ram
1991: Slovenia e Croazia
proclamano la propria secessione dalla Repubblica federale Jugoslava,
la Bosnia sembra non dover essere toccata dalla tragedia (che esploderà
invece in quella repubblica un anno dopo). In agosto l’ultimo
presidente del Consiglio federale, Ante Markovic, di fronte alle
sanguinose devastazioni della Croazia, rende noto il cosiddetto Piano
Ram: vi viene descritta nei dettagli l’organizzazione della futura
guerra serba in Bosnia Erzegovina; si prevedono le fasi della pulizia etnica che precederà la spartizione del territorio; in base a un’articolata analisi antropologica e geopolitica si valuta l’opportunità tattica della violenza sessuale ai danni delle donne per disgregare il tessuto multiculturale delle comunità bosniache.
Fu proprio in questo modo che iniziò, inattesa e
incomprensibile ai cittadini, la guerra in molti villaggi di quella
regione, con terribili, apparentemente inspiegabili, episodi di
violenza sul corpo delle donne. Una violenza che destava paura,
smarrimento, colpevolizzazione nelle donne stesse (quando non ne
morivano) e nei ‘loro’ uomini che non erano stati in grado di
difenderle. E poi rivalsa, e nuova violenza maschile, spesso contro le donne dell’Altro.
Il corpo femminile diventa così, letteralmente, territorio di contesa. Ma non è pura barbarie, è devastazione premeditata e ‘scientificamente’ fondata. Lo stupro, in Bosnia come in Ruanda, in Somalia, in Algeria e in ogni guerra moderna, non è ‘conseguenza’ della guerra ma arma che affianca tutte le operazioni di pulizia etnica.
Negli anni Novanta uomini armati violentavano il corpo
delle donne dell’Altro per farne terreno di conquista, luogo di
disseminazione e inseminazione etnica. Mentre i mass media sbattevano
vittimisticamente gli stupri etnici in prima pagina ogni giorno, i
centri antiviolenza di città come Belgrado e Zagabria si riempivano di donne che chiedevano ad altre donne aiuto contro l’esplosione senza precedenti della violenza domestica.
I movimenti antinazionalisti e pacifisti, quelli che lottavano perché le città e i paesi non si frantumassero in base alle appartenenze etniche, furono animati
soprattutto dalle donne del movimento femminista, dai giovani che si
rifiutavano di imbracciare le armi, dai movimenti di gay e lesbiche,
dalle radio libere, dai giornalisti e dai giuristi democratici.
Quando, a guerra finita, venne il momento della
ricostruzione partì da loro – in Serbia, in Bosnia, in Croazia, in
Slovenia, in Kosovo – quel minimo di società civile democratica che
mise in crisi i despoti nazionalisti e iniziò a riparare le ferite
cercando di riportare verità e giustizia.
Si poté ricominciare a vivere perché le vittime della violenza e della discriminazione più feroci si fecero presidio per il ripristino della democrazia.
Un fosco 2009
L’aria è fosca e pesante nell’Italia del 2009. Un’aria
infetta che respiriamo anche noi, nella tranquilla provincia padana.
Una brutta sensazione, qualcosa che evoca paura e arbitrio, arriva dalle notizie sulla retata contro una settantina di uomini e donne sudamericani, in prevalenza di nazionalità brasiliana, operata dalle forze di polizia della nostra città nella notte fra domenica e lunedì (La polizia sgomina la gang delle patenti false, "Gazzetta", 24 febbraio 2009; Tremila euro per un set di documenti falsi, "Gazzetta" 25 febbraio 2009, […]).
Il racconto del quotidiano è abbastanza rassicurante.
Non altrettanto le telefonate che ci sono giunte da amici e amiche che
con alcune di queste persone erano in contatto in quanto badanti,
addette alla pulizia delle scale, colf: molte telefonate a raccontarci
irruzioni notturne; a dirci di gente che non aveva mai avuto un
passaporto falso, anche se magari non era ancora in regola con i
documenti, trascinata via, interrogata e spedita immediatamente in un
centro di identificazione ed espulsione in attesa dell’espatrio.
Colpisce la relativa novità del metodo: la retata ‘etnica’, massiccia, operata in piena notte,
l’espulsione immediata soprattutto di chi, magari perché in possesso di
documenti veri, era subito identificabile; e poi, per ora,
l’invisibilità dei mercanti di identità fasulle (quanti italiani, tra
loro?).
E il senso di angoscia aumenta pensando ai ragazzini afghani inghiottiti dalle nebbie padane
di cui abbiamo parlato nelle nostre precedenti newsletter. Sappiamo per
certo che non sono più nella nostra città; che non sono state offerte
loro le opportunità e le garanzie che la legge prevedeva per tutelarli,
che le versioni delle diverse forze preposte all’ordine e
all’applicazione delle leggi contrastano tra loro. E questo ci
preoccupa, anche perché si trattava di minorenni non accompagnati e il
nostro territorio ha mostrato di essere impreparato a far fronte a
questo tipo di problemi.
Guerra
Forse è vera la pesante affermazione del sindaco leghista di Chiari, senatore Alessandro Mazzatorta, durante una recente puntata de L’Infedele: contro i clandestini il governo sta conducendo una vera e propria “guerra”. Così come è in guerra,
con il favore di un popolo che torna ad essere incline al linciaggio,
contro gli stupratori rumeni, tunisini, marocchini, albanesi. Molto
meno contro i branchi di maschi nazionali che danno fuoco agli
immigrati, violentano le amiche o le donne straniere, e ancor meno
contro i mariti e i conviventi che stuprano e picchiano le ‘loro’ donne.
E, come in ogni guerra, la stampa enfatizza le
emozioni: piovono notizie di stupri, drammaticamente veri o
caricaturalmente presunti. A Suzzara una giovane donna deve “cercare di
divincolarsi dai pesanti sguardi” di tre marocchini un po’ alticci (Tentano di molestare una ragazza, "Gazzetta", 22 febbraio 2009). La notizia non esiste, ma il titolo è a quattro colonne, ben visibile nella sua inconsistenza.
E in prima pagina, a sei colonne, a caratteri cubitali: Tenta lo stupro in centro, preso ("Gazzetta", 24 febbraio 2009) e Lo studente violentatore non era solo
("Gazzetta", 25 febbraio, […]). E qui la molestia c’è stata, eccome,
da parte di un ventenne (diciottenne nel secondo articolo) – studente,
regolare, magrebino – che ha assalito una donna in pieno giorno urlando
come un ossesso nel centro di Guidizzolo. Ma non c’è stato stupro e
forse in quelle circostanze nemmeno voleva esserci: lei è scappata, è
corsa dai carabinieri e lui è stato arrestato mentre vagava per il
paese con un amico ancor più giovane di lui.
Rabbia? Smarrimento? Disperata
nostalgia di un luogo capace di dare identità e accoglienza? Bisogno di
rivalsa su una società sempre più ostile? Con una prontezza sconcertante la Lega dà vita proprio a Guidizzolo a due immediate iniziative di risposta: la
creazione di una nuova sezione e il gazebo per la raccolta di firme a
favore della castrazione chimica e contro l’immigrazione clandestina. Autoproclamandosi “simbolo della guerra alla violenza”.
Stranieri inferociti si avventano sulle donne negli
spazi pubblici e italiani ebbri, spesso giovani e in branco, ubriacano
e violentano, in rituali dal gusto mortifero, le ‘proprie’ compagne,
magari filmandole. Ma certo con meno clamore. Sui pilastri della
statale che porta a Brescia, all’altezza di Montichiari, giganteggiano
due scritte: “albanesi puttane”; “rumene puttane”: deliri di maschi rabbiosi. Maschi italiani, probabilmente, forse quelli che in quell’area della Padania si offrirebbero per organizzare ronde.
Tutto questo mentre la crisi economica incalza, togliendo prospettive e sicurezza, e l’opposizione democratica è debole, divisa e confusa.
Di fronte a ogni collasso di un sistema democratico, di fronte a
qualunque logica di guerra, il corpo femminile viene investito di
simboli che ne fanno luogo di contesa e di controllo. Sparisce la cittadina, con la sua soggettività e l’inviolabilità dei suoi diritti, e compare la preda: quanto siamo coscienti delle trame di senso che legano quanto accade intorno a noi?
ARTICOLO 3 –
osservatorio sulle discriminazioni
osservatorio.articolo3@gmail.com
da womenews.net