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Chi si sente più sicura alzi la mano. E chiami un taxi rosa

Per ragionare ancora di sicurezza e violenze ospitiamo un intervento di Stefania che fa parte del collettivo bolognese Guai a chi ci tocca! A bologna ultimamente si discute dei taxi rosa che il comune ha istituito come misura antiviolenza, con carnet di sconto (3 euri) per le donne che prendono il taxi (da ritirare in comune o alle sedi di quartiere) e della proposta di un noto gruppo fascista di mettere a servizio delle donne dei taxi rosa gratuiti gestiti da loro. Chiami e ti fai dare un passaggio da un neofascista di casapound. Carino no? Pare che non ci sia alternativa. Potete scegliere tra lo stupratore, la "sicurezza" motorizzata "offerta dal comune" e il fascista squadrista, non siete contente? Chissà perchè tutti si ostinano a trattare le donne come fossero incapaci di prendere una patente di guida. Mah…

Buona lettura!

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Chi si sente più sicura alzi la mano. E chiami un taxi rosa.

di Stefania Voli

“Finalmente” le “misure urgenti
in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale,
nonchè in tema di atti persecutori” sono state approvate (Decreto legge
n. 11 del 23 febbraio 2009). E di certo non è la sicurezza quella che
d’ora in poi sentiremo, ma solo un po’più di rabbia.

Provo a partire dal rapporto tra sfera pubblica e
privata così come questo si esplicita contraddittoriamente e
autoritariamente da parte del governo quando parliamo – e lo si fa
molto spesso da alcuni mesi a questa parte – di violenze sessuali,
stupri, “pacchetti sicurezza”.

Viviamo in una fase in cui tutto è/si fa Stato: uno
Stato paternalista che arriva fino alla gestione/invasione delle nostre
esistenze, nelle scelte più intime di vita e di morte, di sessualità,
di socialità. Dei corpi, perché sono i corpi i principali soggetti
(volutamente) impliciti nel discorso che parla di vita morte sessualità
socialità.

Al contrario però, per i corpi di donna rappresentati
da quei corpi di donna violati di cui abbiamo notizia ogni giorno è in
atto anche una riconsegna (dal fuori al dentro – le mura domestiche –
perché questo è l’effetto desiderato) come proprietà privata ai
“nostri” uomini, eterni custodi dell’onore che un corpo di donna
intatto e posseduto (legittimamente dal “proprio” uomo) significa. Le
stesse donne (lo abbiamo visto nel video delle ronde “rosa”) si
rimettono alla protezione dei “loro” uomini, siano essi padri, mariti,
fratelli o forze dell’ordine (bianchi, italiani, padri di famiglia).
C’è un corto circuito che si innesca proprio sul nostro corpo di donne,
tra le due sfere (pubblica e privata appunto) che regolano da sempre le
società.

C’è e si sente nonostante i media il governo i politici
le istituzioni urlino all’allarme stupro e immigrazione cercando – pur
essendone consapevoli artefici – di ignorarlo.

Noi invece lo sentiamo perché, come tutti i corti
circuiti, può produrre un black out. Una paralisi che è provvisoria e
che ha senso solo nella misura in cui corrisponde a un tempo di
reazione.
Cosa ci interessa dire. Lo stupro diventa strumento per
tracciare le sembianze dei nemici di Stato, con identità precise,
tendenze criminose, devianze specifiche. Da identificare ed espellere.
E viene usato per omettere la causa reale di quanto accade (non da
mesi, da secoli): esiste una cosa che provo a chiamare cultura della
sopraffazione (che mi sembra dica più del termine stupro che ne è una
conseguenza drammatica e di femminicidio, la più tragica delle
possibilità). Cultura della sopraffazione. Maschile. Sulle donne. Che
si articola e dirama e tramanda – con le donne stesse spesso prime
complici e perpetuatrici – trasversalmente all’età, all’appartenenza
sociale, etnica, geografica. È maschile. L’unica definizione che
possiamo dargli.

In questo momento mi chiedo inoltre quanto realmente ci
serva – a noi donne, noi femministe –continuare a ripetere all’infinito
che il 70% delle violenze avviene in casa e che “solo” il 30% ha luogo
all’esterno delle mura domestiche. Ok, ma andiamolo a dire a quelle
tot% che son finite dalla parte minoritaria della percentuale delle
stuprate da sconosciuti, magari migranti, per strada.

Quindi partiamo pure dalle percentuali per costruire un
discorso culturale e una battaglia politica più ampia, ma andiamo
oltre. Perché di “quei” numeri me ne faccio poco se poi non riconosco
che la sopraffazione sul mio corpo di donna la subisco comunque da un
marchio di abiti – italiano, la Relish – e la sua campagna promozionale
(ma è così per quasi tutto quello che dà piacere ed è in commercio…).
Dalla militarizzazione messa in atto dal pacchetto sicurezza. Con il
presidente del consiglio che mi promette – se non sono una racchia – un
bel maschio italiano in divisa che presidia il mio spazio e preserva la
mia incolumità. Dalla lega che mi fornisce ronde perché – loro sì – ce
l’hanno duro e quindi hanno il diritto e il dovere di proteggermi
(perché la competizione sul piano della potenza – sessuale – è un altro
dei punti più saldi della nostra cultura che dobbiamo saper
rintracciare e scardinare). Da forza nuova che assedia il territorio
con le sue squadracce per difendere la purezza della razza da
perpetuare attraverso le donne italiche. Da casa pound che urla allo
stupro etnici e dichiara e decide che è per me, per tutte le donne è
arrivato il “tempo di essere madri”. Italiane di italiani. (Sono,
questi, gli stessi “fascisti del terzo millennio” che mentre a Palermo
lasciano scritte intimidatorie sui muri del centro sociale del
collettivo Malefemmine a Bologna lanciano il taxi rosa gratuito…).

E al di là del fatto – di per sè già inquietante – che
la legalizzazione delle ronde altro non è che la rimessa in scena del
regio decreto che istituì le milizie volontarie per la sicurezza nel
1923, l’istituzionalizzazione di un altro corpo di sorveglianza e
controllo diventa, in questa fase di crisi e di tagli per le spese
dell’istruzione, i centri antiviolenza, la sanità, licenziamenti (in
maggioranza subiti da donne) anche un’opportunità di lavoro per
centinaia aspiranti city angels…

Ecco perché il nostro corpo serve. Sui nostri corpi si
consuma uno scontro che è insieme politico ed economico. E le violenze
sul nostro corpo servono nella misura in cui si possono piegare e
tradurre intanto negli ormai liberati desideri viscerali primordiali di
prevaricazione e affermazione dei più e, immediatamente dopo, nei
disegni autoritari razzisti del governo che ci comanda (vedi alla voce
pacchetto sicurezza). Quello che sfugge, che pone l’asse del discorso
altrove non ha importanza, viene omesso. Non viene riconosciuto come un
problema radicato, una cultura di sopraffazione sessista nella quale
siamo immerse/i fin da piccole/i.

Le madri italiane consegnano alle loro figlie femmine
una raccomandazione preliminare dal momento in cui possono camminare da
sole: non parlare con gli sconosciuti, potresti essere violentata. È
una possibilità che ogni donna, lungo tutta la sua vita, deve
considerare (e con il tempo anche estendere, aggiungendo agli
sconosciuti anche i “conosciuti” tra i possibili aggressori). Non come
rassegnazione, ma come presa di coscienza dei limiti che la società ci
impone, e delle possibili di vie di fuga che ci dobbiamo creare.

Da molte, tra donne e femministe che si stanno
interrogando sulla questione, ho sentito invocare una presa di
coscienza maschile. Forse sbaglio ma in questo momento non sento il
bisogno di un mea culpa maschile, di essere rassicurata dalla presa di
parola o coscienza di tot uomini “normali”, “buoni”. Tutto ciò di cui
ho bisogno in questo momento è, anzi, una sottrazione: sottrarre il
terreno del discorso ai maschi, a tutti i maschi, e occuparlo con le
pratiche, gli scambi delle donne, delle lesbiche, trans, queer …

Credo che sia urgente che siamo noi a parlare di
sicurezza. Che ci mettiamo sul campo di battaglia che altri – la
società, che solo per un’ironica sorte della lingua italiana è
sostantivo femminile – hanno creato e dal quale non posso/voglio
sottrarmi. Pena l’invisibilità come soggetto esistente, vivente,
desiderante. E lo possiamo fare con ciò che abbiamo – i nostri corpi –
con TUTTI i significati che su di esso si esprimono, affinché non siano
“solo” corpi resistenti, ma corpi di donna affermanti, circolanti.

Partendo dal riconoscimento, ovvio, che una maggiore
restrizione degli spazi di espressione, di pensiero e di movimento,
corrisponde una maggiore restrizione dello spazio dell’esistenza,
soprattutto per noi donne. Che a partire dalle mura di casa, fino alle
strade, alle piazze, ai parchi, sono degradati tutti quegli spazi
sottratti alla pratica della socialità, l’unica parola che in questo
momento mi evoca e procura sicurezza. Perché la sicurezza si dà
prioritariamente attraverso la rimessa in circolo, contatto e
corrispondenza delle tante realtà che compongono il corpo sociale della
nostra città. Non frammentandole nè reprimendole.

*collettivo Guaiachicitocca! Bologna e dottoranda in storia delle donne e delle identità di genere presso l’Università "L’Orientale" di Napoli

Posted in Corpi, Fem/Activism, Omicidi sociali, Pensatoio.