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Su Dl 133 e 137, pensieri femministi sull’autoriforma

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L’onda anomala è diventata Anna Adamolo e nel frattempo le femministe del collettivo bolognese Figlie Femmine hanno prodotto un documento che ragiona sulla questione da un punto di vista di genere. Buona lettura!

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Su DL 133 e 137, pensieri femministi sull’autoriforma

Come femministe che lottano, si muovono e creano saperi all’interno
dell’università crediamo sia fondamentale un’analisi dal punto di vista di
genere degli ultimi decreti legge in materia di istruzione e welfare. Prendiamo
parola come componenti del movimento sulla reale condizione delle donne nel
sistema universitario attuale, con la volontà di portare un contributo alla
critica dell’esistente e alla volontà di autoriforma espressa dalle studentesse
e dagli studenti.

Partiamo dalla pesante ricaduta che ha lo smantellamento del
welfare, di cui i decreti Tremonti-Gelmini sono espressione, sulle donne e sulla
nostra libertà di autodeterminazione. Oltre a delegare la nostra salute ad enti
privati, tagliando fondi ai Consultori e persino ai Centri Antiviolenza,
promuove una retorica familista neo-fascista, in cui il lavoro di cura si
riversa completamente sulle spalle delle donne, ancora una volta ricacciate in
casa a occuparsi di bambini e anziani. La famiglia è il luogo primario delle
violenze contro le donne e del controllo sui nostri corpi e sulle nostre vite.
Un’altra conseguenza è la gerarchizzazione femminile su linee razziali e di
classe del lavoro di cura che si traduce in una regolazione dei flussi migratori
sulla base dei servizi che il pubblico non vuole più garantire.

Il DL 137 riduce il tempo scolastico a 24 ore settimanali,
decretando la scomparsa del tempo pieno. Questo pone fine ad un progetto
pedagogico avanzato e decreta una  divisione di classe tra madri che possono
pagare per lasciare i bambini a scuola e madri che saranno costrette a pagare
col proprio tempo e progetto di vita, tenendoli a casa, visto e considerato che
ancora oggi  gli uomini-padri non sembrano condividere quanto dovrebbero il
lavoro di cura. Meno tempo a scuola e classi differenziali per migranti
significano precisa volontà di discriminazione e pongono le basi per
un’educazione razzista, xenofoba, sulla scorta di un "pensiero unico"
catto-fascista.

L’insegnamento nelle scuole primarie è tuttora demandato alle donne.
Questa femminilizzazione dell’educazione comporta il perpetuarsi dello
stereotipo che ci vuole inserite all’interno del mondo dell’istruzione solo nei
gradi più vicini alle funzioni materne. L’enorme presenza di donne nelle scuole
elementari e la decisione della Gelmini di imporre alle classi una maestra unica
comporta il futuro licenziamento di massa delle donne. La "razionalizzazione"
del personale ATA sancita nel DL 133 significa anch’essa licenziamenti per le
donne, che rappresentano due terzi dei lavoratori, e incide ulteriormente
sull’occupazione femminile che nel nostro paese non può vantare dati dignitosi.
Le modifiche all’iter di richiesta del part-time, che diventa una "concessione
dell’amministrazione" penalizzano ancora una volta le donne che in un numero
maggiore usufruiscono di questa modalità lavorativa.

La critica al DL 133, nella parte riservata alla "riforma"
dell’Università, che in realtà sancisce tagli economici, di personale e la
trasformazione dell’Università pubblica in fondazioni private, non può esimersi
da un’analisi delle nefaste condizioni del sistema universitario precedente. In
particolare è un sistema che per le donne rappresenta ancora un "tetto di
cristallo". Le donne laureate superano di gran lunga il numero di uomini
laureati ogni anno, il numero di ricercatrici di III Livello (precarie e
sottopagate) è in aumento, ma risulta in decremento il dato sulle ricercatrici
di I livello, il numero di docenti ordinarie è inferiore alla media europea, e
nel CRUI (Conferenza Rettori Università Italiana) ci sono solo 2 donne su 67
membri, che rappresentano il 2, 6% contro il 25% francese. Il sapere è di fatto
in mano maschile come in tutti gli ambiti economico-politici italiani, e si
traduce nelle tante forme di potere patriarcale.

Riteniamo che il blocco del turn-over al 20% penalizzerà
ulteriormente le donne, e le possibilità di ricerca sui saperi "non
convenzionali" per il sistema italiano e in particolare sui "grandi assenti"
Gender Studies. Con i tagli e senza una precisa volontà politica, la
sperimentazione nella ricerca non è ammessa, la razionalizzazione finisce per
limitare anche la ricerca tradizionale e a mercificare il sapere.

Da una parte in Italia, a differenza da tanti paesi europei e
extraeuropei non esistono Lauree triennali in Studi di Genere. D’altra parte
quando si traducono in insegnamenti all’interno di triennali o specialistiche
vengono trasmessi dal punto di vista metodologico come specificità, senza
metterne in pratica gli aspetti di messa in discussione della didattica
ufficiale e delle asimmetrie di potere (si ripropone la lezione frontale,
nozionistica…). I temi degli studi di genere si ritrovano a dover stare
all’interno di compartimenti stagni limitanti, e, dove esistono, vengono
relegati a nicchie di saperi che non prevedono la contaminazione con gli altri,
neutralizzandone la natura trasversale a tutti gli altri insegnamenti. Non è
prevista inoltre l’integrazione della didattica ufficiale con saperi che
provengano dal basso, da soggettività altre, come le espressioni di movimento
della società civile, in questo caso di donne femministe e lesbiche. Questo
provoca l’esclusione di temi che noi consideriamo fondamentali per la formazione
ma che il "sistema" non considera neutri, perciò sufficientemente scientifici o
razionali. Ad esempio sembra impensabile proporre tesi di ricerca o addirittura
corsi sull’autodeterminazione delle donne, sulla sessualità, sul sex work, sulle
esperienze e la storia dei movimenti lgbtqi o sul transessualismo. Sono temi
che, se portati dal basso all’interno dell’università possono aprire delle
brecce, mettere in discussione l’intera impalcatura patriarcale sulla quale si
regge il sistema di sapere-potere interno ed esterno all’università stessa.

Crediamo che la volontà di autoriforma non possa prescindere da
un’analisi di genere sul sistema universitario italiano. Se l’onda decidesse di
omettere questa critica, finirebbe per riproporre quel concetto di "neutralità"
che finisce per escludere le esistenze, resistenze e desideri di tutte e tutti.

Figliefemmine (Bologna)

Per adesioni: figliefemmine@inventati.org

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