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Obama: casa bianca, ma non è una redenzione

http://farm3.static.flickr.com/2121/2279718287_1c865f6505.jpg?v=0Mentre una enorme quantità di persone si entusiasmavano per l’elezione di Obama, la stessa notte nella quale sono venuti fuori i risultati delle elezioni io non riuscivo a sabotare la mia tendenza allo scetticismo e il mio senso critico per lasciarmi andare in una estatica e festosa celebrazione del messia redivivo. Così quella stessa notte – non senza sentirmi molto in colpa per il timore di poter spegnere la felicità di tant* speranzos* compagn* – scrissi la mia breve e timida analisi, con il piglio della brava cassandra consapevole di manifestare una opinione che di certo la obbligava a mollare la festa sul più bello. Dire una bugia a volte aiuta a non autoinfliggersi una penosa solitudine sociale. Per fortuna non era questo il caso. L’america è in casa nostra ma se sono scettica nei confronti di Obama non credo ci sia qualcuno che mi toglierà il saluto.

Qualche giorno dopo la mia "rivelazione" (:P) scoprì invece che non ero sola e che a fare più o meno le stesse riflessioni a bocce ferme eravamo ben in quattro: io, Paolo Barnard, Ombra e, dall’altra parte dell’oceano atlantico, la più nota Judith Butler (Professora all’università di Berkeley, conosciuta per la sua teoria sul gender trouble, per le riflessioni sulla ontologia della fragilità e per le analisi sulle "vite precarie" – libro edito meltemi – scaturite dalla situazione post 11 settembre).

Mi rincuora dunque sapere di poter documentare le mie modeste intuizioni con le affermazioni di una persona che non solo ha titoli accademici, necessari a far passare la propria lettura del presente in certi contesti, ma ha anche un curriculum di opposizione politica a Bush talmente vasto che è assolutamente insospettabile e per niente credibile nel ruolo di detrattrice interessata alla denigrazione del neo presidente degli stati uniti Barack Obama.

Trovo che la sua analisi sia perfetta per la maniera con la quale ha posto dubbi e perplessità mentre esigeva di smascherare il messia per metterlo di fronte ad alcuni doveri che comunque tutti si aspettano che lui compia. Trovo efficace la sua maniera di dire quello che pensa senza apparire una menagrama, puntando alle cose concrete più che alle illusioni e decodificando una realtà mentre the american people, rincoglionito dall’estasi collettiva, non riesce a lasciare posto a qualche pensiero che parta dalla testa invece che dalla pancia.

La Butler, secondo me, appare eccessivamente ottimista solo su un punto: quando immagina che gli elettori delusi si ribelleranno ad Obama per puntare verso qualcosa di meglio. Ecco, quella è la parte che io invece leggo in tutt’altro modo. Di un popolo che si affida ai messia (o ai dittatori, tendenza di tanti/e italiani/e), l’ho gia’ scritto, penso che non si assume alcuna responsabilità di partecipazione reale. Penso invece sia più semplice per queste persone delegare. Perciò io immagino che la reazione alla dis-illusione post Obama sarà la elezione di un pronipote di Bush, bellicoso, irresponsabile, puritano, privo di una coscienza sociale più che tutti gli altri della sua famiglia. L’alternativa è sempre quella. Un popolo che non sa combattere finisce per assegnare una delega in bianco al messia o al dittatore. La via di mezzo resta nella nostra capacità di sentirci co-responsabili del nostro destino.

Vi passo quindi il lungo articolo della Judith Butler pubblicato stamattina su "Il Manifesto" [a proposito, ricordatevi di sostenerlo per evitarne la chiusura]. Buona lettura!

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Casa bianca

Ma non è una redenzione

Di Judith Butler

Pochissimi di noi sono immuni dall’euforia di questo momento. I miei
amici della sinistra mi scrivono che provano qualcosa che si avvicina alla
“redenzione”, oppure che “il paese ci è stato restituito” o che “finalmente
abbiamo uno di noi alla Casa Bianca”. Naturalmente, come loro, anch’io mi
scopro travolta dall’incredulità e dall’eccitazione, perché il pensiero che il
regime di Gorge W. Bush sia finito è un enorme sollievo. L’idea di Obama, un
candidato nero riflessivo e progressista, muta il quadro storico e sposta il
terreno politico. Proviamo però a ragionare attentamente su questo terreno
mutato, anche se adesso non possiamo conoscerne appieno i contorni.

L’elezione
di Baraci Obama è storicamente significativa sotto vari aspetti ancora da valutare,
ma non è – e non può essere – una redenzione: sottoscrivendo i modi enfatici di
identificazione proposti da lui (“siamo tutti uniti”) o da noi stessi (“Obama è
uno di noi”), rischiamo di convincerci che questo momento politico possa
superare quegli antagonismi che della vita politica sono costitutivi. Ci sono
sempre state delle buone ragioni per non abbracciare l’ideale dell’unità
nazionale
, e per sospettare di una identificazione assoluta e totale con
qualsivoglia leader politico. Dopo tutto, il fascismo faceva in parte proprio
affidamento su questa identificazione totale con il leader, e i Repubblicani si
sforzano anch’essi di organizzare l’effetto politico quando, ad esempio,
Elizabeth Dole si rivolge al suo pubblico dicendo “io amo ciascuno di voi”.

Diventa ancora più importante riflettere sulla politica dell’identificazione
entusiastica, se consideriamo che il sostegno tributato a Obama ha coinciso con
il sostegno tributato a cause conservatrici. In un certo qual modo, ciò spiega
il suo successo “trasversale”. In California, Obama ha vinto con il 60% dei
voti, eppure una porzione significativa di coloro che hanno votato per lui ha
votato anche contro la legalizzazione del matrimonio gay (52%). Come
interpretiamo questa apparente discrepanza? In primo luogo, ricordiamoci che
Obama non ha sostenuto esplicitamente i diritti relativi al matrimonio gay.
Inoltre, come ha osservato Wendy Brown, i repubblicani si sono accorti che
l’elettorato non è galvanizzato dalle questioni “morali” come nelle elezioni
precedenti; le ragioni per cui gli elettori hanno votato per Obama sembrano
essere di natura prevalentemente economica, e il loro ragionamento appare più
strutturato dalla razionalità neoliberista che da preoccupazioni di ordine
religioso.

Questo è chiaramente uno dei motivi per cui il ruolo assegnato a
Palin – galvanizzare la maggioranza dell’elettorato sulle questioni morali – si
è rivelato un fallimento. Ma se le questioni “morali” come il controllo delle
armi, il diritto all’aborto e i diritti dei gay non sono state tanto
determinanti come lo erano state in passato, forse ciò accade perché esse
prosperano in un comportamento separato della mente politica. In altre parole,
siamo di fronte a un nuovo configurarsi del credo politico che rende possibile avere
opinioni contrastanti nello stesso tempo. Questo ha assunto una chiara
rilevanza nell’emergere del contro-effetto Bradley, quando gli elettori hanno
potuto ammettere – ed hanno ammesso – esplicitamente il proprio razzismo, ma
hanno dichiarato che avrebbero votato ugualmente per Obama.

Aneddoti raccolti
sul campo comprendono affermazioni come la seguente: “So che Obama è un
musulmano e un terrorista, ma lo voto ugualmente, per l’economia è meglio lui”.
Questi elettori si sono tenuti il loro razzismo e hanno votato per Obama,
albergando le loro convinzioni scisse senza doverle risolvere. D’altro canto,
non possiamo sottovalutare, in queste elezioni, la forza della dis-identificazione:
un senso di repulsione all’idea che Gorge W. abbia “rappresentato” gli Stati
Uniti davanti al resto del mondo, un senso di vergogna per le nostre pratiche
di tortura e detenzione illegale, un senso di disgusto per il fatto che abbiamo
scatenato la guerra con motivazioni false e abbiamo propagato idee razziste
sull’islam, un senso di allarme e di orrore perché gli eccessi della
deregulation economica hanno portato a una crisi economica globale. E’
nonostante la sua razza, o grazie ad essa, se Obama è infine emerso come il
rappresentante preferito dalla nazione?

Adempiendo a questa funzione
rappresentativa, egli è allo stesso tempo nero e non nero (alcuni dicono “non
abbastanza nero” e altri dicono “troppo nero”), e di conseguenza può piacere
agli elettori che non solo non hanno modo di risolvere la loro ambivalenza su
questa questione, ma non vogliono risolverla. La figura pubblica che consente
alla popolazione di sostenere e mascherare la sua ambivalenza appare nondimeno
come una figura di “unità”: questa è certamente una funzione ideologica. Tali
momenti sono intensamente legati all’immaginario, ma non per questo sono privi
di una loro forza politica. Via via che le elezioni si avvicinavano, è
cresciuta l’attenzione nei confronti della persona Obama: la sua
sobrietà, la sua determinazione, la sua capacità di non perdere la calma, il
suo modo di mantenere una certa posizione di equilibrio di fronte ad attacchi
perniciosi e alla retorica politica di basso conio, la sua promessa di
ricostruire una versione della nazione che vada oltre la sua attuale vergogna.

Naturalmente la promessa è allettante, ma se l’abbraccio di Obama ci portasse
al convincimento che possiamo superare ogni dissonanza, che l’unità è veramente
possibile? Quante possibilità abbiamo di andare incontro a una certa
inevitabile delusione, quando questo leader carismatico mostrerà la sua
fallibilità, la sua disponibilità al compromesso e persino a tradire le
minoranze? Dopo tutto, Obama è a malapena un uomo di sinistra, nonostante i
richiami al “socialismo” indirizzatigli dai suoi avversari conservatori. In che
misura le sue azioni saranno condizionate dalla politica di partito, dagli
interessi economici, dal potere statale? In che misura sono già state oggetto
di compromesso? Se cercheremo attraverso questa presidenza di superare il senso
della dissonanza, allora avremo gettato a mare la politica critica in favore di
un entusiasmo le cui dimensioni fantasmatiche si dimostreranno decisive.

Forse
non possiamo evitare questo momento fantasmatico, ma stiamo attenti a quanto
esso sarà temporaneo. Se ci sono razzisti dichiarati che hanno detto: “so che è
un musulmano e un terrorista, ma lo voto ugualmente” , sicuramente ci sono
anche persone nella sinistra che dicono: “so che ha svenduto i diritti dei gay
e la Palestina, ma è comunque la nostra redenzione”. So molto bene, e tuttavia:
è questa la formulazione classica del disconoscimento. Attraverso quali mezzi
sosteniamo e mascheriamo convincimenti contrastanti di questo genere? E a quale
prezzo politico? Senza dubbio il successo di Obama avrà effetti significativi
sul corso economico della nazione, e sembra ragionevole supporre che vedremo
una nuova logica della regolazione economica che somiglia alle forme europee
della social-democrazia; in politica estera, vedremo senza dubbio un
rinnovamento delle relazioni multilaterali. E senza dubbio ci sarà anche un
trend generalmente più liberal sulle questioni sociali.

Ma non c’e’ molta
ragione di sperare che formuli una politica giusta per gli Usa in Medio
Oriente, anche se è certamente un sollievo il fatto che egli riconosca Rashid Khalidi
(il docente di storia araba della Columbia University, noto per le sue
posizioni pro-Palestina, che Obama è stato accusato dai repubblicani di
frequentare, ndr). Il significato indiscutibile della sua elezione ha
interamente a che fare con il superamento dei limiti implicitamente imposti ai
traguardi degli afro-americani; allo stesso tempo, essa farà venire a
precipitazione il cambiamento del modo in cui gli Stati Uniti si
autodefiniscono. Se l’elezione di Obama segnala la volontà della maggioranza dei
votanti di essere “rappresentati” da quest’uomo, allora il “chi noi
siamo” si costituisce ex novo: siamo una nazione fatta di molte razze, di razze
mescolate; Obama ci offre l’occasione di riconoscere chi siamo diventati e cosa
dobbiamo ancora essere, e per questa via sembra essere superata una certa
spaccatura tra funzione rappresentativa della presidenza e popolazione
rappresentata.

Questo è un momento entusiasmante, certo. Ma può durare? E deve?
A quali conseguenze porterà l’aspettativa quasi messianica di cui quest’uomo è
investito? Per avere successo la sua presidenza dovrà produrre qualche
delusione, sopravvivere alla delusione: l’uomo diventerà umano, si dimostrerà
meno potente di quanto potremmo desiderare, e la politica cesserà di essere una
celebrazione senza ambivalenza e cautela; insomma, la politica si rivelerà, più
che una esperienza messianica, una sede di dibattito intenso, di critica
pubblica, e di necessario antagonismo. L’elezione di Obama significa che il
terreno del dibattito e della lotta è mutato, ed è un terreno migliore, senza
dubbio. Ma non è la fine della lotta, e sarebbe molto sprovveduto da parte
nostra vederla in questo modo, sia pure provvisoriamente. Senza dubbio saremo
d’accordo o in disaccordo con le varie iniziative che prenderà o non prenderà.

Ma se l’aspettativa iniziale è che Obama sia e sarà la “redenzione” stessa,
allora lo puniremo senza pietà quando ci tradirà (oppure troveremo il modo di
negare o sopprimere la nostra delusione per mantenere viva l’esperienza dell’unità
e dell’amore non ambivalente). Se vuole evitare una delusione drammatica, Obama
deve agire rapidamente e bene. Forse l’unico modo che ha di impedire uno
“schianto” – una delusione di gravi proporzioni che gli rivolterebbe contro la
volontà politica – è assumere iniziative importanti entro i primi due mesi di
presidenza. La prima dovrebbe essere chiudere Guantanamo e trovare il modo di
trasferire i procedimenti dei detenuti in tribunali legittimi.

La seconda,
predisporre un piano di ritiro delle truppe dall’Iraq e iniziare ad attuarlo.
La terza, ritirare le sue dichiarazioni bellicose su una escalation della
guerra in Afghanistan e cercare soluzioni diplomatiche multilaterali in
quell’area. Se non compisse questi passi, il sostegno da parte della sinistra sarebbe
destinato a deteriorarsi nettamente, e si riproporrebbe la spaccatura tra
falchi liberal e sinistra contro la guerra. Se nominasse personaggi come
Lawrence Summers in posti chiave del governo, o se continuasse le politiche
economiche fallimentari di Clinton e Bush, allora, a un certo punto, il messia
sarebbe rigettato come un falso profeta. Piuttosto che di una promessa
impossibile, abbiamo bisogno di una serie di azioni concrete che comincino a
ribaltare le terribili abrogazioni della giustizia commesse dal regime di Bush;
se ciò non avvenisse, la delusione sarebbe pesante e drammatica. La domanda è:
quanta dis-illusione è necessaria per poter ricordare che la politica attiene
non tanto alla persona, all’impossibile e alle belle promesse che Obama rappresenta,
quanto piuttosto a quei cambiamenti concreti che potrebbero iniziare a
produrre, nel corso del tempo e non senza difficoltà, condizioni di maggiore
giustizia.

[traduzione di Marina Impallomeni

—>>>L’immagine è tratta dal Blog: E’ Barack Obama il Messia? [in inglese. raccoglie la produzione esilarante di questa campagna elettorale orientata a fare paragoni tra obama e martin luther king o a descrivere obama come un cristo trasfigurato. dateci un occhio, ne vale la pena]

Posted in Anti-Fem/Machism, Pensatoio, Scritti critici.


2 Responses

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  1. me says

    non sarà solo un pò di stizza perchè non c’è andata la clinton alla casa bianca? ricordiamoci che la lotta per le primarie è forse più aspra della lotta fra i due partiti in america e pur essendo contro i repubblicani la professoressa poteva essere molto indispettita dal fatto di non vedere la propria candidata preferita di nuovo alla casa bianca ma in veste di presidente questa volta anzichè di first lady?

  2. Spettatore di provincia says

    Ciao, ti/vi vorrei segnalare questo articolo di Paolo Barnard, che credo troverai/ete interessante: http://www.paolobarnard.info./…tra_go.php?id=52.