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Una donna fra i pro-life

di Flavia Amabile [da Diritto di Cronaca]

Un giorno Flavia si rende conto di essere incinta.
Vive a Roma, è separata, ha un figlio di sei anni, un lavoro di quelli
così di moda di questi tempi: un contratto di collaborazione che non
prevede malattie o maternità e per il licenziamento nei casi migliori
concede un preavviso di una settimana. Stipendio netto: mille, mille e
duecento euro al mese. Potrebbe essere un’istruttrice di nuoto, una
dipendente di un gruppo editoriale, un’assistente sociale. Potrebbe
essere decine di migliaia di donne e avere tra i trenta e i
quarant’anni.

Dopo anni di solitudine con un figlio da crescere,
nella sua vita è passato un uomo. Flavia ha pensato che tutto sommato
non c’era nulla di male. E invece ora è qui, un tampone positivo in
mano e il mondo che le sta crollando addosso.

L’istinto le suggerisce di correre, cancellare
tutto in fretta e tornare alla vita di prima. Le analisi, il
consultorio, l’appuntamento per l’interruzione di gravidanza. «Venga
giovedì 20», dicono. Mancano dieci giorni, Flavia è quasi alla settima
settimana di gravidanza ed è un lunedì. Se solo fosse sicura di avere
un asilo nido, se solo potesse avere un aiuto durante i primi mesi, se
le garantissero il lavoro, quel figlio lo crescerebbe volentieri.

Il mio viaggio fra i centri per la vita di Roma
inizia così, con questa storia da raccontare. Chiamo il Consultorio
familiare della Pontificia Università Salesiana. Un po’ di imbarazzo,
poi spiego che cosa cerco. «Noi mandiamo tutti a via della Pigna».

In via della Pigna c’è il Consultorio «La Famiglia».
«Vuole un appuntamento? Mi lasci il nome e il numero di telefono e la
richiamiamo», mi chiedono. «Mi scusi, fra quanto tempo?», rispondo.
«Non meno di due settimane, forse un mese». Sorrido: «Grazie, ma
l’appuntamento per l’interruzione è la prossima settimana, sa, la
legge…». A quel punto salta fuori come per incanto un incontro alle
18,40 del mercoledì. «Chieda della dottoressa Pagliuso», dicono.

Obbedisco. Alle 18,40 entro nel cattolicissimo Palazzo del Vicariato
in via della Pigna. Salgo al terzo piano, chiedo della dottoressa
Pagliuso. Mi fanno entrare in una stanza minuscola, claustrofobica. La
dottoressa mi presenta un suo collega, presente non si sa bene a quale
titolo visto che non spiaccica parola per tutto l’incontro, si limita a
fissarmi, tanto per rendere meno inopportuna ai miei occhi la sua
persona. Mi siedo, gli altri due sono di fronte a me: l’atmosfera è
accogliente quanto quella di un interrogatorio in Procura.

Parlo del lavoro che dovrò lasciare, della
prospettiva di rimanere senza stipendio per almeno un anno, se non di
più. La dottoressa ascolta, ogni tanto interloquisce con un «ma lei a
Flavia ha pensato?». La guardo, senza capire. «Si è chiesta che cosa
potrebbe capitare dentro di lei in caso di aborto?». Provo a spiegarle
che in questo momento l’unico pensiero è mio figlio di sei anni e come
mantenerlo. E siccome non ne ho la minima idea, sto pensando seriamente
di abortire. «Ma lei sa che un aborto è qualcosa che rimane dentro per
sempre?»

Mantengo la calma. Lo so, certo, che l’aborto non
si cancella, ma in questo momento il mio problema è un altro: fare in
modo che le conseguenze di questo mio errore non devastino la vita di
mio figlio, quello già nato. La dottoressa annuisce ma non ha altri
argomenti. Mi alzo, saluto anche l’altro dottore che continua a
fissarmi in un imperscrutabile silenzio, poi me ne vado.

Se fossi davvero incinta forse a questo punto mi arrenderei:
ci vuol poco a decidere che cosa fare quando dall’altra parte hai solo
una manciata di parole. Io insisto. Chiamo il Consultorio
dell’Università Cattolica. Ottengo un appuntamento per il giovedì
pomeriggio con la dottoressa Bassi. Affronto il traffico romano fino al
Policlinico Gemelli, l’ospedale dove vengono ricoverati i papi. Il
centro è lì vicino. La dottoressa mi terrà più di un’ora per costruire
due scenari. In uno c’è il bambino nato e tutto quello che potrebbe
accadere ma detto in modo da ammorbidire le difficoltà. In un altro c’è
l’aborto e di nuovo il fantasma dei sensi di colpa e delle sofferenze
che dovrei sopportare. Fin qui ci arrivavo anche io. E gli aiuti? «Di
questo dovrà parlare con il Movimento per la vita. Le do il numero,
chiami a nome mio».

La mattina dopo, chiamo. La persona con cui dovrei
parlare arriverà tardi. Stia tranquilla, la richiamerà, mi assicurano.
La telefonata arriva alle sei del pomeriggio, lei si chiama Patrizia
Lupo. Ha avuto una giornata difficile, due colloqui lunghi, precisa.
Precisa anche che dovrebbe finire alle cinque, e ora sta facendo tardi
per ascoltare quello che ho da dire. Lo so, so tutto, le dico, è anche
venerdì, ci sono le elezioni e Ferrara continua a straparlare, e però
anche lei deve sapere una cosa: mi aspetta un intero fine settimana
senza nessuno con cui parlare, due giorni di vuoto, con mio figlio da
far giocare e quest’altro dentro di me a cui – a momenti alterni
chiederò scusa o che abbraccerò.  Deve sapere che da cinque giorni
cerco di sapere da un centro per la vita se e come mi possono aiutare
in concreto. 

Patrizia si fa convincere. Continua a chiamarmi
Roberta, non so perché, e mi parla del Progetto Gemma, 150 euro al mese
(o anche 160, dipende) per 18 mesi consecutivi a partire dalla
gestazione. E poi? Patrizia risponde che mi può dare una mano per avere
anche dei sussidi da parte dei municipi. Ma dobbiamo parlarne a voce.
Mi da’ un appuntamento per il lunedì mattina. 

Riattacco. Vado a controllare: i soldi li mettono
delle persone che adottano a distanza il mio futuro figlio. Per ragioni
di riservatezza, non conoscono la madre e il bambino, ma sono tenuti al
corrente della gravidanza, conosceranno il nome del bambino, la sua
data di nascita e, se la madre acconsentirà, avranno anche una sua
foto. Bellissimo, peccato che non sempre arrivino offerte di adozioni a
distanza e il sistema a quel punto si blocca, mncano i soldi. E che si
fa allora? Spengo il computer: se tutto fosse vero, mi preparerei a un
lungo, lunghissimo fine settimana.

—>>>Leggendo lo splendido pezzo mi veniva in mente un’ideuzza: ma se andassi in un centro per la vita a dire che sono lesbica e incinta e a
chiedere cosa potrebbero fare per me, secondo voi cosa deciderebbero di consigliarmi? Secondo me quello che gli verrebbe da dirmi varierebbe da un – "diventa
etero", "rifletti sul tuo stile di vita", "se scegliessi di farti una
famiglia le cose sarebbero andate meglio", "sposa il padre del bambino" –
a un "dai tuo figlio in adozione perchè tu non sei una madre adatta". Pensate che potrebbero arrivare a consigliarmi di abortire?

Posted in Corpi, Fem/Activism, Omicidi sociali, Precarietà.


One Response

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  1. kkk says

    uao!