Qualche giorno fa sono stata a Bologna dalle bellissime amiche del Sexyshock per parlare di "Madri Cattive",
un ottimo libro che vi consiglio di leggere che l’autrice, Caterina
Botti, ci ha presentato come fosse una confidenza spartita tra vecchie
amiche. Caterina parla veloce e con voce pacata. Si sente che quello
che racconta lei lo ha rimuginato per tanto tempo e pensa che ti
ripensa ne è venuto fuori un libro che parla di maternità stretta dalle
dimensioni obbligate, dagli "stili di vita" imposti a fare la
differenza tra una madre buona e una cattiva, dalle terapie che non
lasciano alcuna scelta.
Lei parla di gravidanza e parto e ci tiene a
specificare che il punto non è che ogni donna deve partorire ne’ che
essere madre debba essere l’esperienza fondante dell’essere donna come
troppe volte ci sentiamo dire. Sceglie però di parlare di parto perchè
le interessa e ha visto che nessuno se ne occupa. Perchè si parla di molte esperienze delle donne
senza però poi concentrarsi su quella che a noi stesse pare di dover
vivere come "natura" comanda. Non so voi ma a me è capitato di
partorire in una dimensione quasi surreale in cui non ho scelto nulla.
Arrivi con le doglie in ospedale e da quel momento, a meno che non
segui percorsi precisi e alternativi, non hai più diritto di parola su
quello che ti sta capitando.
La medicalizzazione diventa obbligatoria,
così come spesso accade – e so che in sicilia in molti posti ancora è
così – che l’unica risposta plausibile che ti viene data è che è un
fatto "naturale" e che tante donne lo hanno fatto prima di te e dunque
ce la farai anche tu. Però non ti spiegano perchè devono rasarti il
pube con la delicatezza di uno sciatore inesperto su un bel campo da
sci, perchè devono farti per forza – secondo procedura – il clistere
anche se gli dici che non hai più sostanze da defecare, perchè devono
imbottirti di ossitocina, perchè devono "romperti le acque" se non si
sono rotte da sole, perchè devono tagliuzzarti qui e la’ per far uscire
la testa del bambino piuttosto che aspettare la giusta dilatazione,
perchè imporre il parto cesareo se una proprio non lo vuole e perchè
imporre il parto naturale se una donna rischia l’infarto per viverselo.
Insomma, nel 2008 ancora, in un modo o nell’altro, si continua a partorire "con dolore" e soprattutto senza poter scegliere nulla. Ce lo hanno dimostrato le donne che si sono
lasciate intervistare nella prima bella puntata legata alla rassegna di
iniziative "Madri & Co", con lo zampino della complice Lucia Manassi, realizzata da Radio Città del Capo [trovate l’intera puntata da ascoltare online QUI]
alla quale ho partecipato anch’io. Una tra queste grandiose donne, con
grande consapevolezza di ciò che stava vivendo, raccontava come al
Sant’Orsola di Bologna ci sia una specie di quiz a premi con vincita
dell’epidurale.
Bisogna chiamare tutte ad un numeretto e se le donne
rientrano tra le prime tot allora vincono una epidurale gratuita,
altrimenti la pagano. Ingegnoso, non trovate? Di questo passo ci
ritroveremo delle opzioni premio per mamme fortunate sul gratta e
vinci. Caterina Botti invece ci racconta come in america si sia tanto
discusso della decisione legale di obbligare i familiari di donne cerebralmente
morte a mantenerle in stato "vitale" per fare crescere l’embrione che
all’atto della morte i medici hanno individuato dentro i loro uteri.
I parti post mortem sono descritti in ogni circostanza e Caterina ne
traeva fuori una riflessione etica, coraggiosa e sopra le righe di un
dibattito culturalmente oramai ridotto alle schermaglie sui testicoli
di ferrara piuttosto che sui divieti del clero. Caterina parla di
relazione tra la madre e il figlio. Una relazione che è vissuta in un
rapporto di scambio, in cui esistere è la conseguenza della relazione e
non la causa primaria. Se non c’e’ relazione non c’e’ esistenza, non
c’e’ vita e nessuno ha il diritto di imporre ad una madre una relazione
che non è stata scelta. Nessuno ha il diritto di imporre a chiunque
altro una relazione non scelta. I concetti etici e filosofici che
Caterina ha raccontato sono di sicuro più profondi, solidi e vi assicuro assai
più convincenti del mio banale resoconto. Perciò vi invito davvero
caldamente a leggere il suo libro e poi a ripensarlo perchè di
strumenti/stimoli culturali come questo al momento vi assicuro non ce
ne sono moltissimi.
Durante la presentazione del libro in radio abbiamo attribuito il
premio "Tetta d’Oro" che la giuria ha insindacabilmente riconosciuto
alla bella amica Slavina.
Lei condivide con questa community strampalata la sua scelta di maternità in un
modo così consapevole e bello che mi fa ripensare a quando è toccato a
me con maggiore clemenza. Ero una ragazzina e pensavo quasi di non
avere il diritto di rivendicare nulla. Facevo la voce grossa
nelle assemblee studentesche e nel privato mi lasciavo massacrare. Poi qualcun* mi sussurrò all’orecchio che il
personale E’ politico e il politico E’ personale e allora cambiò tutto. Datemi retta:
l’equilibrio tra pubblico e privato è un obiettivo grandioso perchè
mentre tu cresci, tutto il resto del mondo cresce con te.
La stessa rassegna "Madri & Co", della quale si prevedono altre puntate belle toste, è stata pensata da una grande Betty
mamma e condivisa tra noi mamme cresciute [e molte splendide donne la cui vita si arricchisce di altre straordinarie esperienze] a partire dalla necessità di
condividere un percorso senza avere l’obbligo di narrare con parole
d’ordine imposte dalla brutta cultura dominante. Le mamme spesso si
sentono sole. Sono principalmente sole di se’ stesse. Qualche volta, tra un pannolino e una poppata, si perdono per
strada pezzi di se’ e se non c’e’ nessuno a ricordarglieli diventa
difficile non apparire un po’ dissociate. Condividere percorsi fatti di
incertezze e confusione è veramente difficile. Riuscire a inventarsi
una dimensione sociale della propria maternità confrontandosi con i
pezzi del proprio percorso personale e anche politico è una sfida bella
e necessaria da portare avanti. Non un modo per richiamare a
responsabilità non dovute, ma la esigenza di uno scambio su una
esperienza che è veramente difficile comunicare a chi non l’ha già
vissuta o non la sta vivendo.
Vi dicevo del premio "Tetta d’Oro", un premio prestigioso che è stato attribuito per i seguenti motivi di merito:
La tetta d’oro va consegnata alla donna…
– che si è distinta per popposità
– che in ospedale si è sorbita numerosi inviti a favorire la poppata "perchè le donne devono sentirsi naturalmente mucche"
– che ha dovuto rinunciare a fare cacchina perchè era sempre l’ora della poppata
– che non è riuscita a fare una comoda passeggiata perchè era sempre l’ora della poppata
– che non ha potuto fare neppure lo shampoo perchè… era sempre l’ora della poppatala
tetta d’oro va dunque consegnata ad un autentico ostaggio della tetta.
Consideriamo questo premio come un riscatto da consegnare con la
speranza che permetta il rilascio immediato della madre. Se ciò non
sarà possibile, vogliamo almeno sperare che la tetta d’oro possa
fungere da diversivo nel momento in cui la madre avrà bisogno di fare
pipì.
Detto ciò vi lascio un altro consiglio: Se non lo avete visto vi invito a vedere il film ambientato nella Romania comunista "4 mesi, 3 settimane e 2 giorni"
del regista Cristian Mungiu. Si tratta di due donne. Una delle due sceglie di
abortire. L’aborto, nell’epoca dittatoriale rumena che imponeva l’aumento
demografico, veniva punito come atto di disobbedienza e di sfida al
regime. Il regista narra che in quel periodo sono morte almeno 500.000
donne per aborto illegale. L’esperienza di cui si racconta nel film non
arriva a quel limite ma ne tocca un’altro.
Supera il tabu’ della finzione scenica politically correct e mostra
un feto appena abortito. Non so quanto questo mi sia piaciuto in
realtà perchè in parte svela una tendenza macabra tutta maschile. La cosa che invece mi ha colpito molto è la descrizione di
personaggi senza fronzoli in una dimensione in cui gli unici esseri
"giudicanti" sono: il medico che accetta di provocare l’interruzione
di gravidanza in cambio di soldi e delle obbligate prestazioni sessuali di
entrambe le amiche e le figure burocratiche di "regime" che imponevano
mille volte la esibizione di un documento per puro piacere di operare
controllo. Le due donne restano imprigionate in un senso di rabbia e
impotenza per lo stupro, le prevaricazioni, i ricatti e per la assoluta
solitudine con la quale devono viversi quella esperienza. In ogni caso
per me è da vedere.
Vi lascio infine con un po’ di appunti sparsi che ho portato a Bologna a
contributo della discussione sulle "Madri cattive". Si tratta di una
breve ricostruzione della maternità in due fasi distinte della nostra
storia passata: quella dell’impero romano e quella del cristianesimo. Seguono anche delle considerazioni personali. Buona lettura!
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Al tempo dell’impero romano le donne erano totalmente subordinate al
pater familias. La loro destinazione naturale era il matrimonio e per
raggiungere lo status di moglie rispettabile dovevano fare molti figli.
Le donne si sposavano verso i dodici anni. La loro vita media arrivava
al massimo ai trent’anni. Le più agiate riuscivano a sopravvivere fino
ai 40. Il livello di mortalità per parto era altissimo, e altrettanto
alto era quello dei neonati. Ogni donna veniva consegnata ad un uomo che percepiva anche una congrua
dote. Lo status di moglie di un cittadino romano veniva conseguito
attraverso il raggiungimento di una quota fissa di figli. Tre per le
donne di censo superiore e 4 per quelle di censo inferiore.
Non
riuscire a raggiungere quella quota di figli significava anche la
perdita dei beni che in caso di fallimento andavano a parenti già
“padri di famiglia” o allo stato (in caso di lasciti la famiglia non
aveva diritto di percepirli se non aveva raggiunto la quota di figli
stabilita per legge). Così le donne che non erano in grado di fare
figli venivano ripudiate e talvolta uccise. Il diritto romano inoltre
non dava alle donne alcuna autonomia di tipo economico. L’eredità
veniva passata di padre in figlio. Una donna ripudiata dal marito o dal
figlio praticamente non sapeva come sopravvivere.
Il loro ruolo pubblico quindi si basava sulla capacità di fare figli.
Accadeva di frequente che le donne venissero selezionate sulla base
della larghezza dei fianchi, della “presunta” purezza del mestruo che
veniva giudicato responsabile talvolta della morte dei feti.
Della donna non era interessante conoscere altro che le caratteristiche
utili alla sua produttività di madre. Storicamente è sempre stato un
segno di potenza dei regni e degli stati quello dell’aumento della
popolazione. Le donne avevano il compito di produrla. Perché questo avvenisse veniva anche attuata una politica di controllo
sui corpi che prevedeva il divieto di contraccezione e quello di aborto
[ricordo a chi non lo sapesse che in Italia il divieto sulla
contraccezione veniva definito fino al 1966 da un cosiddetto reato
contro la stirpe. sull’aborto come sapete non è stato depenalizzato ma
semplicemente regolato in periodi precisi e con modalità controllate a
partire dal 1978]. Lo stesso infanticidio era punito con grandissima severità.
La contraccezione nella storia è sempre stata presente. Il metodo più
frequente era il coito interrotto. In alcuni periodi le donne usavano
un po’ di bambagia imbevuta di un liquido a base di erbe. L’aborto
veniva praticato attraverso l’uso di veleni che finivano per uccidere
anche la madre.
Via via che passava il tempo le cose non cambiarono. Si arricchirono
invece di metodi che permettevano di salvare il bambino anche dopo la
morte della madre. Il primo parto cesareo fu infatti praticato su una
donna morta, così molti altri fino ad almeno il 1500, quando cioè si
iniziò a praticare il taglio anche su donne vive. Fino al 1800 circa però le donne sottoposte a taglio cesareo spessissimo morivano perchè i medici tiravano via il bambino assieme all’intero utero o richiudevano la pancia senza operare all’interno nessuna ricucitura. Pare quindi che la spinta maggiore della medicina dell’epoca fosse non
quella di salvare la donna quanto piuttosto di non perdere neppure un
bambino.
Il ruolo della madre divenne connotato in chiave mistica dopo che la
storia della madonna fu imposta dalla chiesa come ulteriore elemento di
controllo sui corpi. La chiesa vietò la contraccezione anche quando
c’era il rischio di trasmissione di malattie veneree. Rispetto alla
sifilide l’unica soluzione approntata fu quella di costringere le donne
afflitte da malattie sessuali a portare un abito giallo canarino per
essere ben visibili. Si pensava che spesso la malattia risiedesse nel
mestruo della donna e che all’uomo bastava non venire a contatto con
esso per non essere contagiato dalla malattia.
Rispetto all’aborto il giudizio della chiesa era, allora come adesso,
unanime nel definire le donne che abortivano come assassine. Lo stesso
dicasi per l’eugenetica. La chiesa voleva anche i figli con gravi
malformazioni purchè fossero entità battezzate ad aumentare la
popolazione. In più, dopo la madonna, si descrissero le donne come connettori,
canali di comunicazione, corridoi dal cielo sulla terra. Ogni bambino
pareva avere una fonte divina e la madre che si rifiutava di assolvere
alla funzione di “corridoio” veniva punita in molti modi. Non solo: le
donne venivano giudicate malissimo se non mettevano al mondo tanti
figli quanti potevano. Agostino diceva che già per il solo fatto di non
generarli le donne commettevano una mole impressionante di assassinii.
Una donna sterile non aveva nessun ruolo sociale. Dunque era condannata
ad occupare una posizione di totale inferiorità e a non avere alcuna
fonte di sostentamento economico. La politica di controllo sui corpi che venne attuata sulle donne
passava anche attraverso definizioni di situazioni orribili come
fossero invece il destino migliore che potesse mai capitare loro. Veniva detto ad esempio che quando una donna stuprata restava incinta
significava che in fondo le era piaciuto perché era provato che le
donne restavano incinta solo se apprezzavano il rapporto sessuale. E
circa la sessualità è necessario dire che veniva vietata alle donne –
durante la gravidanza – per evitare che esse perdessero il bambino.
Quindi niente rapporti sessuali durante la gravidanza e niente neppure
durante l’allattamento perché secondo le teorie di allora favorivano
l’esaurimento del latte o lo rendevano guasto e quindi velenoso per il
bambino.
Agli uomini veniva suggerito di sfogare i propri istinti sulle serve
per lasciare tranquille e sole le mogli a svolgere la propria funzione
di madri. I rapporti quindi si limitavano allo stretto necessario per
produrre altre gravidanze, e pare certo che molte donne non avessero
proprio una grande passione per i rapporti sessuali con il coniuge che
finiva sempre per lasciarle incinta. Sin da tempi assai antichi le donne invece erano oggetto di cure,
terapie ed esperimenti per una malattia che poi si scopri’ essere
strettamente connessa ai problemi di sessualità inespressa. Si tratta
dell’isteria che veniva infatti curata attraverso massaggi inguinali
dai medici o dalle levatrici. I massaggi venivano alternati ad altre
terapie prescritte dagli stessi medici: lo stupro e la gravidanza.
Essere prese in maniera poderosa e lasciarsi ingravidare pare fosse
considerata una cosa veramente ottima per la cura di un problema che
altro non era se non la espressione della insoddisfazione sessuale. Il controllo dei corpi delle donne orientava ovviamente anche il suo
uso, ne definiva gli scopi e ne inibiva le esigenze. Così il bisogno di
vivere una sessualità non androcentrica, non dipendente dalla
penetrazione e dal coito, diventava una patologia.
Per rileggerla invece in chiave economica diciamo che il controllo dei
corpi, in periodi di crisi, ne garantiva la massima produttività.
Inibire i bisogni, gli anticoncezionali e punire gli atti di controllo
delle nascite diventava già di per se’ un motivo valido per la caccia
alle streghe. Secondo questa interpretazione allo stato attuale questo
è quello che sta accadendo. Il corpo delle donne diventa nuovamente macchina produttrice di forza
lavoro e di teste da sottoporre a battesimo perciò deve esserne
limitata l’autonomia.
Le donne vengono ridotte a puri contenitori senza
volontà e senza capacità decisionale. I medici fanno a gara per
definire le modalità di recupero dei feti in extremis anche senza
l’autorizzazione della madre. Quello che accade è la conferma di una
totale assenza di etica nella cura dei corpi femminili. Lo sforzo è
ancora rivolto a trovare metodi per utilizzare la capacità fecondatrice
delle donne senza curarsi di rendere loro meno doloroso il parto.
Quello che di noi interessa è l’utero. Lo stesso utero che un tempo, per
platone, era una cosa che si spostava allegramente per il corpo
provocando vari problemi compresa l’isteria.
Quello che di noi
interessa è la nostra capacità di generare, con dolore, perché il
dolore del parto, secondo la chiesa, ci ha sempre permesso di
avvicinarci a dio. Non perché si pensasse che dio avesse un particolare
interesse per noi, no. Solo perché in quanto corridoi bisognava ci
avvicinassimo il più possibile per favorire il passaggio delle creature
divine dal cielo alla terra.
La cosa che mi viene in mente rispetto a questo non è molto seria:
“speriamo che stavolta ci consentano di usare almeno un ascensore!”
Rispetto ai contesti che ho descritto, facendo una sintesi stringata di
varie letture, il problema fino ad un certo punto non era quello di
stabilire se una madre fosse buona o cattiva. In un certo senso bastava
che partorisse. Guardando da vicino poi in realtà si vede che così non
è. Oggi essere buone madri significa essere disposte a fare trenta
ecografie e ventotto amniocentesi (a proposito di medicalizzazione
invasiva) e ieri probabilmente era appunto quella di negarsi una vita
sessuale. Oggi è l’assoluta rinuncia a ogni "vizio" (come il fumo per
esempio) e ieri forse era la rinuncia alla passeggiata a cavallo per
chi aveva un cavallo.
Il concetto di maternità responsabile allora era compreso tra
pregiudizi e una morale non dissimile a quella attuale. La maternità
era un obbligo descritto nel diritto romano e poi in quello canonico.
Non essere madri era già una trasgressione grave.
Noi veniamo da quel contesto e aver acquisito la consapevolezza che le
nuove società ci hanno imbrigliato in modo alternativo alle leggi di un
tempo attraverso regole morali, giudizi e pregiudizi difficili da
scrollarsi addosso è un bel passo avanti.
C’e’ da camminare ancora moltissimo. Già, credo, lo stiamo facendo.
—>>>La foto in testa viene da QUI [grazie a Vaticano per avermela segnalata]
bella Slavina,
il potere taumaturgico delle tette è fenomenale 🙂
la tua mamma è stata grande!
io ancora la patagonia me la sogno… 😛
Bimbovic cara,
ogni epoca si porta appresso i suoi pregiudizi avallati dal solito gruppo di medici e santoni clericali che qualunque cosa si inventino decidono che deve essere per forza così.
certo anche a me ha fatto bene smettere di fumare per un po’ ma insistere sulla mia responsabilità di madre senza che nessuno si ponga domande su quali responsabilità sociali vanno attribuite a chi dovrebbe creare le condizioni per farmi stare meglio è una cosa veramente atroce…
ingiusta, come ingiuste sono tante cose.
un bacione
grazie per il premio care consorelle!
volevo dedicarlo… a madre, ovviamente 🙂
che non mi ha dato la tetta ma mi ha cresciuto con tanto amore, dedicandomi tempo e sogni; a mia madre che ha dovuto aspettare che i figli fossero grandi per cominciare ad andare alle manifestazioni e per prendere il primo aereo della sua vita – che la portava in Patagonia, mica cazzi.
per quanto riguarda le mie tette, al momento ho scoperto il loro potere taumaturgico (per la serie *non solo mucca*)
e mia figlia, che incomincia ad avere controllo sulle sue manine, mentre ciuccia me le accarezza…
Mia mamma quando io scroccavo il cibo da dentro, siccome qualcuno le aveva detto che il vino non si doveva bere ma in compenso la birra faceva il latte buono, e a lei, da buona sarda, le piaceva il vino ma non la birra, smise di bere il vino. E incominciò con la birra. E quanto se ne beveva! Le prendeva benissimo. Mio nonno voleva organizzarle una gara con gli alcolizzati di birra del paese.
E insomma non tutti i mali vengono per nuocere, in questo caso se nessuno le avesse rotto le palle con la paranoia del vino e l’elogio della birra, non avrebbe mai scoperto che la birra le piaceva e come.
O forse il tutto è dipeso da me. Perchè a me la birra piace ma il vino no (lo bevo ma non mi entusiasma…), forse sono stata io da dentro a farle cambiare gusti alcolici…
Chi lo sà…
Carina la mia mammina homer. 🙂