La politica fascista nei confronti della famiglia venne analogamente plasmata dalle continue pretese avanzate dal regime sulle risorse delle singole unità familiari. Gli ideologi lamentavano la crisi della famiglia italiana, le sue dimensioni sempre più piccole, la presunta perdita di autorità da parte del padre, il malessere delle casalinghe, il ricalcitrare dei figli. Le dimensioni delle famiglie, pur restringendosi in media da 4,7 membri a 4,3 fra il censimento del 1921 e quello del 1936, erano comunque ancora ampie: uno speciale censimento stimò che nel 1928 almeno due milioni di famiglie italiane (sull’insieme di 9,3 milioni) contassero sette figli viventi o anche più.
Quasi la metà delle famiglie viveva al di sotto dei 10 mila abitanti, e il 38% traeva la maggior parte dei propri guadagni dall’agricoltura. La percentuale di autoconsumo, cioè la quantità complessiva di beni e servizi prodotti da imprese familiari che non passava attraverso il mercato, era valutata pari al 30%. In ogni caso, la dittatura agiva fiduciosa che i legami della famiglia italiana fossero abbastanza forti da resistere alla pressione derivante dal taglio dei salari, dall’aver “scremato” i piccoli risparmi a vantaggio degli investimenti industriali e delle imprese coloniali, e ridotto le spese per i servizi pubblici, l’edilizia popolare e l’assistenza sociale. Tale pressione si fece più dura e ricevette un maggiore impulso propagandistico quando negli anni ’30 la dittatura lanciò la campagna per l’autosufficienza economica.
Questo programmatico sfruttamento delle risorse familiari fu palese soprattutto in due linee d’azione politica: la ruralizzazione e la politica dei bassi salari. La prima rivestì un’importanza particolare nel tentativo del regime di ridurre la dipendenza dalle importazioni di prodotti alimentari esteri, di grano soprattutto, e di fermare il flusso di contadini che si trasferivano nelle città e vi gonfiavano la disoccupazione e i registri degli istituti assistenziali, aggravando l’inquietudine sociale. L’intera campagna antiurbana, cui Mussolini accennò per la prima volta nel discorso dell’Ascensione parlando dell’influenza sterilizzatrice dell’urbanesimo e della necessità di tornare a condizioni di vita più rurali, dipendeva dalla possibilità di sfruttare le risorse delle famiglie contadine. I passi compiuti dal 1928 in poi per trasferire i disoccupati nei loro luoghi di residenza originari e frenare le migrazioni interne furono accompagnati dall’azione governativa a sostegno degli accordi di mezzadria, e dai progetti tesi a promuovere l’insediamento sui terreni assegnati dallo Stato nelle aree bonificate attraverso la concessione di contratti d’affitto a lungo termine. Il risultato finale fu di spingere le famiglie in zone di basso consumo, dove non erano protette dalla legislazione sociale e rimanevano spesso prive dell’assistenza municipale o parrocchiale.
Quindi la ruralizzazione sfruttò “l’ancora di salvezza” costituita da solidarietà di parentela. Ciò presupponeva e contemporaneamente rafforzava la coesione familiare, spingendo l’assillato capofamiglia ad aggravare in casa, nei campi e nelle piccole industrie rurali il lavoro non pagato delle donne e dei fanciulli. A differenza di quanto accadde nella Germania nazista non ci fu alcun tentativo di ripristinare i fidecommessi, cioè i lasciti ereditari inalienabili che mantenevano il patrimonio all’interno della famiglia trasmettendolo al figlio primogenito; una tale misura infatti avrebbe certamente costretto il fascismo a opporsi agli interessi agricoli e commerciali. Il regime favorì invece la ripresa di una forma di locazione vecchia di secoli, la mezzadria. Il cosiddetto “vergaro” o “capoccia” era un autentico patriarca; per poter contrattare con i proprietari terrieri in un periodo di prezzi agricoli calanti, egli esercitava uno stretto controllo sulle prestazioni lavorative fornite dalla moglie e dai figli. Con una media di 7,35 membri ciascuna le famiglie mezzadrili continuavano a essere tra le più numerose, e il lavoro della “massaia” o moglie del capofamiglia, pur essendo valutato pari soltanto a due terzi di quello compiuto dai parenti maschi anche nei contratti più favorevoli, superava in genere quello del capofamiglia stesso. Secondo gli investigatori dell’Istituto Nazionale d’economia agraria, all’inizio degli anni ’30 tre laboriosi agricoltori toscani di nome Giuseppe, Egisto e Faustino totalizzarono ciascuno 2926, 2834 e 2487 ore lavorative annuali, mentre le loro mogli Lucia, Virginia e Maria arrivarono rispettivamente a 3290, 3001 e 3655.
Il comportamento della dittatura riguardo ai salari “di sussistenza” o “familiari” rivelò nei confronti delle famiglie operaie un atteggiamento altrettanto sfruttatorio. L’idea che un uomo dovesse mantenere la moglie e le altre persone a carico unicamente con i suoi guadagni era ampiamente considerata, in Italia come altrove, d’importanza cruciale per rafforzare la stabilità della vita familiare e operaia. Prima della marcia su Roma i riformatori borghesi avevano sostenuto una posizione simile. I cattolici continuarono ad articolare questo punto di vista e nel 1931 l’enciclica di Pio XI Quadragesimo anno riaffermò il pensiero espresso da Leone XIII nella Rerum novarum (1891), secondo cui la giustizia sociale imponeva che “l’operaio ricev[esse] un salario sufficiente a mantenere se stesso e la sua famiglia”. Il Gran Consiglio del Fascismo si impadronì del concetto nel marzo del 1937 allo scopo di promuovere la politica demografica del duce. Ma era tardi. Gli stessi dati del censimento indicarono chiaramente che le riforme economiche fasciste avrebbero dovuto essere radicali per raggiungere un tale scopo: fino al 1931 il 45 per cento delle famiglie italiane, vale a dire 4.280.000 su un totale di 9.280.000, dipendeva dai guadagno di due o più persone, mentre su 5.000.000 di famiglie dipendenti da un unico reddito il 16 per cento aveva a capo una donna.
Difatti gli assegni ideati per integrare i redditi familiari incrementarono la maggior parte dei salari. Erano stati concepiti nel 1934 per aiutare i lavoratori con famiglie a carico che avessero subito riduzioni dell’orario di lavoro tese a limitare massicci licenziamenti. Finanziati da contributi ripartiti fra lo Stato, i datori di lavoro e i lavoratori, e versati ai capifamiglia secondo il numero di persone a carico, alla metà del luglio 1937 essi riguardavano tutti i dipendenti pubblici e privati, i lavoratori agricoli e quelli occupati nel commercio e nell’industria. Altrove, misure del genere vennero violentemente avversate dai sindacati e limitate di solito a settori industriali depressi come quello tessile e minerario. Il fatto che il fascismo fosse in grado di attuarle in tutta la nazione rifletteva l’infelice situazione della manodopera organizzata. Il sistema degli assegni familiari, oltre a inibire i tentativi compiuti dai sindacati fascisti per negoziare aumenti salariali, metteva in campo gli interessi dei lavoratori con famiglia a carico contro quelli dei lavoratori che non l’avevano. All’interno della realtà familiare veniva favorito il capofamiglia maschio; la moglie e i figli o le figlie non sposati che vivevano in casa, pur lavorando, non avevano diritto agli assegni. Cosa peggiore di tutte, non si affrontava il problema principale e cioè il fatto che la sopravvivenza della famiglia dipendesse dal lavoro di parecchi membri, tra i quali c’era spesso anche la madre. A dispetto dell’ideologia fascista la percentuale delle donne sposate che svolgevano un’attività lavorativa salì dal 12% del 1931 al 20,7% del 1936. Nell’Italia degli anni ’30 esisteva una percentuale di lavoratrici sposate (circa il 40%) più alta di qualsiasi altro paese europeo ad eccezione della Svezia socialdemocratica. Ma qui, com’e’ ovvio, le donne beneficiavano di una gamma relativamente ampia di tutele e servizi.
In teoria, il sistema di previdenza sociale e di assistenza alle famiglie che la dittatura andava sviluppando calmò le insicurezze prodottesi quando la maggiore urbanizzazione della società italiana e il volgersi dell’economia alla produzione di massa recisero la solidarietà familiare basata sulle comunità rurali e di artigiani urbani. Con Mussolini, affermava la propaganda, quando una madre i piega sulla culla dei figli l’intera nazione vi si piega con lei. Alla fine degli anni ’30 esisteva un “minestrone” di sigle indicanti i vari organismi statali e di partito cui potevano rivolgersi le famiglie che avessero problemi: l’INFPS, l’IPAP, L’INA, la CRI, l’INFAIL, l’OND, la GIL, tanto per nominarne soltanto alcune, per non parlare della già menzionata ONMI. Spesso, tuttavia, la bizantina complessità della burocrazia assistenziale fascista aggravava l’incertezza invece di dissiparla. L’intero sistema era stato posto in essere per convenienza politica e si innestava sulla millenaria eredità degli istituti di beneficenza privati e semiprivati sia cattolici che municipali. Per ottenere i benefici le famiglie dovevano far funzionare i sistemi clientelari fondati sui vincoli di parentela. Di conseguenza i parenti stretti i stringevano assieme, e le strategie di sopravvivenza rafforzavano ciò che i propagandisti di regime denunciavano talvolta come il “sacro egoismo” della “famigliola”. Così, proprio mentre accentuava il carattere pubblico dell’istituzione familiare, la dittatura fascista consolidava involontariamente quei comportamenti privati e “familistici” comunemente associati alla cultura civica italiana.
Questa stessa politica spingeva le donne italiane ad assumere nuovi ruoli all’interno della società. In teoria il fascismo le ricollocò nel focolare domestico, dove contribuivano al buon funzionamento della sfera privata generando figli e allevandoli. Man mano che la dittatura assegnava un sempre maggiore peso alla famiglia e favoriva per quest’ultima nuovi modelli di gestione, essa costrinse le donne ad acquisire una maggiore consapevolezza della cosa pubblica. Cosa non meno importante, le donne dovevano preparare i fanciulli al doposcuola fascista e a trascorrere l’estate nelle colonie marine o elioterapiche organizzate dal partito e dai comuni; se erano di povera condizione, diventavano “specialiste della assistenza” per strappare i sussidi allo Stato. Per la realizzazione dei suoi programmi lo Stato assistenziale fascista dipese largamente dal volontariato femminile. Donne di ceto sociale elevato giunsero così a giocare un ruolo importante nella definizione delle nuove norme di condotta familiare e nell’aiutare le donne di condizione inferiore a farle proprie. I modelli familiari che esse trasmisero alle “massaie rurali” e alle donne della piccola borghesia e della classe operaia attraverso corsi per casalinghe, lezioni sull’allevamento dei figli e riunioni informali patrocinate dai gruppi femminili fascisti, erano permeati dai convenzionali concetti borghesi di rispettabilità e di amministrazione domestica “razionale”. Questi modelli però si potevano raggiungere solo grazie a un massaismo ossessivo, a un minor numero di figli e a egoistici calcoli sul modo in cui sfruttare a vantaggio della propria famiglia scuole, organizzazioni politiche e servizi sociali del regime. Il risultato fu un’accresciuta consapevolezza della dipendenza della famiglia dai servizi dello Stato, e ciò favorì senza dubbio un certo senso di gratitudine nei confronti del regime. La propaganda acclamava il duce come artefice di una straordinaria quantità di “primati” legislativi. Ma la dipendenza induceva anche a rendersi conto dei conflitti fra interessi familiari e dovere patriottico. “Giudichi Lei, professore”, disse a Luigi Maccone un’operaia torinese protestando contro le campagne demografiche del regime, “è giusto, è umano che noi popolane abbiamo numerosi figli, destinati alla guerra quando saranno adulti? Ah, giammai! Noi vogliamo bene ai nostri figlioli, li alleviamo meglio che possiamo, coi nostri miseri mezzi, per noi, pel loro avvenire sempre migliore, ma non per la patria”.