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La politica del lavoro (VII° paragrafo – da Il patriarcato fascista – La storia delle donne – Laterza Edizioni)

 A differenza della socialdemocrazia svedese, che nell’interesse della propria politica demografica tentava di conciliare il bisogno femminile di lavorare con gli oneri della maternità, il fascismo teorizzava una rigida divisione del lavoro: gli uomini si occupavano della produzione e del sostentamento della famiglia; le donne della riproduzione e del governo della casa. Anche i dirigenti fascisti erano però sufficientemente realistici da riconoscere che le donne lavoravano; secondo i dati forniti dal censimento del 1936 il 27% dell’intera forza lavoro era costituito da donne, e circa il 25% delle donne in età da lavoro possedeva un’occupazione.

La caratterizzazione sessuale favorì la femminilizzazione dei lavori impiegatizi e in conseguenza della legge Sacchi del 1919 le donne vennero riconosciute idonee alla maggior parte degli impieghi statali, tranne alcune eccezioni fra cui le principali riguardavano le forze armate e le carriere giudiziaria e diplomatica. Alla fine, il fascismo sviluppò la legislazione per impedire alle donne di competere con gli uomini sul mercato del lavoro e per tutelare le madri lavoratrici. Ma lo scopo era anche un altro, evitare che le donne considerassero il lavoro retribuito come un trampolino verso l’emancipazione. Mentre il lavoro era indispensabile alla costruzione di una solida identità maschile, l’occupazione femminile, come dichiarò Mussolini, “ove non è diretto l’impedimento distrae dalla generazione, fomenta una indipendenza e conseguenti mode fisiche-morali contrarie al parto”.

Alla metà degli anni ’30 esistevano svariate misure discriminatorie. Un primo tipo, dagli storici del fascismo di solito trascurato, riguardava la stessa riorganizzazione del lavoro all’interno delle istituzioni corporative. La legge fascista sul lavoro, vietando gli scioperi e centralizzando le trattative sindacali, danneggiò gli interessi dei lavoratori in generale. Ma colpì in modo particolare le lavoratrici abbassando i salari maschili a livelli competitivi con quelli delle donne e dei fanciulli, spingendo i sindacati – incapaci di difendere i livelli salariali o di controllare le condizioni delle maestranze – a negoziare concessioni non monetarie come le restrizioni imposte all’occupazione femminile, e favorendo infine i lavoratori più avvantaggiati, vale a dire quelli specializzati, quelli con maggiore anzianità e quelli impiegati in settori investiti di importanza politica; la maggior parte di questi ultimi era costituita da maschi. Nonostante gli appelli di Regina Terrazzi, Ester Lombardo, Adele Pertici Pontecorvo e altre influenti “lealiste” del fascismo, le donne non erano rappresentate nella gerarchia corporativa. Esisteva al massimo una mezza dozzina di consulenti donne, e un motivo non secondario era costituito dal fatto che meno di una quarantina di donne italiane possedeva la laurea in legge o scienze politiche necessaria per entrare nella burocrazia del ministero delle Corporazioni.

D’altronde le istituzioni femminili del partito si profilavano come una alternativa alle organizzazioni sindacali corporative. Quella delle “massaie rurali”, fondata nel 1934 per le contadine, e la Sezione operaie e lavoratrici a domicilio (SOLD), organizzazione dipendente dai fasci femminili istituita nel 1938, fornivano una parte dei servizi che i sindacati fascisti offrivano agli uomini, come ad esempio corsi di specializzazione o informazioni sul modo di ottenere l’assistenza sociale. L’erogazione di questi servizi si accompagnava in ogni caso all’esplicito messaggio secondo cui la “solidarietà” fascista rivestiva un differente significato per gli uomini e per le donne. I lavoratori maschi appartenevano a gruppi sindacali e si impegnavano in contrattazioni collettive, mentre le donne beneficiavano dell’attività di gruppi diretti dal partito e avevano accesso ai sussidi statali. Gli uomini beneficiavano del contratto di lavoro, costituivano una base da rappresentare e venivano interpellati dai fiduciari di fabbrica; le donne invece erano delle assistite, oggetti della beneficenza sociale, e i loro principali interlocutori erano le assistenti sociali addestrate dal partito (le “visitatrici fasciste”).

Una seconda forma di discriminazione era costituita dalle significative innovazioni introdotte dalla dittatura nel campo della legislazione protettiva. Nel 1938, le lavoratrici avevano obbligatoriamente dritto a un congedo di maternità della durata di due mesi coperti da un sussidio di maternità pari alla paga media percepita nello stesso arco di tempo, a un congedo non retribuito lungo fino a sette mesi, e a due pause giornaliere per l’allattamento finchè il bambino non avesse compiuto un anno. La dittatura rese inoltre più severe le norme che proibivano i lavori notturni a tutte le donne, e quelli pericolosi o nocivi alla salute alle ragazze di età inferiore ai 15-20 anni e ai maschi sotto i 15; vietavano invece ogni tipo di lavoro ai minori di 12 anni.

Questi provvedimenti combaciavano con il più famigerato, se non più efficace, tipo di misure discriminatorie, vale a dire le leggi “di esclusione” vere e proprie. Dalla chiusura, all’inizio degli anni ’20, di quell’importante valvola di sfogo che gli Stati Uniti avevano costituito per l‘emigrazione, la cronica disoccupazione maschile era peggiorata. La situazione si aggravò ulteriormente durante la Grande Depressione. Invece di sovvenzionare i lavori pubblici come altre nazioni in quegli anni, e forse nel timore che la ripresa delle assunzioni industriali stimolata dal riarmo potesse favorire la manodopera femminile, nel 1934 il governo rafforzò in alcuni settori le limitazioni contrattuali imposte alle donne. Il provvedimento più draconiano fu il decreto legge del 5 settembre 1938 che fissò un limite del 10% all’impiego di personale femminile negli uffici pubblici e privati. Esso suscitò ansiose proteste da parte delle impiegate, anche se si cominciò ad attuarlo soltanto nella primavera del 1940, cioè quando la maggior parte delle restrizioni circa l’assunzione di personale femminile stava per essere eliminata per facilitare la mobilitazione bellica.

Riassumendo, la politica fascista nei confronti del lavoro femminile espresse una serie di paradossi. Il regime cercò di saziare la fame industriale di manodopera a basso prezzo, la quale avrebbe potuto essere soddisfatta ricorrendo tanto alle donne che agli uomini. Intendeva però assicurare il mercato del lavoro ai capifamiglia maschi per non rischiare di intaccare l’amor proprio degli uomini che si trovavano disoccupati e per non incidere sulla sanità della razza e la crescita demografica. I legislatori fascisti affermavano di volere escludere le donne dalla forza lavoro. Ma sapendo che ciò non sarebbe avvenuto, si misero a proteggere le lavoratrici nell’interesse della stirpe contando sui vecchi pregiudizi sessuali del mercato del lavoro e allo stesso tempo sull’inuguaglianza dei sessi favorita da “l’inquadramento” nell’ordine corporativo, la dittatura emanò norme protettive, diffuse atteggiamenti discriminatori e promulgò leggi “di esclusione”. Questi provvedimenti interagirono con le tendenze in atto nel mercato del lavoro facendo assumere alla forza lavoro italiana la sua caratteristica fisionomia sessuale. Il primo effetto fu di riservare agli uomini i posti di alto prestigio e sempre meglio retribuiti all’interno della burocrazia statale, frenando la tendenza verso la femminilizzazione dei lavori d’ufficio almeno nelle amministrazioni centrali dello Stato. La politica di governo rassicurò inoltre i sindacati fascisti sul fatto che il regime si stesse interessando della disoccupazione maschile, sebbene vi siano in realtà scarse prove che gli uomini venissero preferiti alle donne nelle assunzioni, ceteris paribus – salvo forse nell’industria dei tessuti sintetici, politicamente delicata nonché palesemente nociva alla salute. Cosa di non minore importanza, questa politica favorì la costituzione di una forza lavoro femminile a tempo parziale, discontinua e “in nero”. Lo dimostra il significativo aumento delle domestiche. Nell’Italia tra le due guerre esse passarono da 445.631 nel 1921 a 660.725 nel 1936, mentre il loro numero diminuì in tutti gli altri paesi dell’Europa industrializzata; persino le famiglie della piccola borghesia facevano assegnamento su personale di servizio.

Incapaci di difendere il proprio diritto al lavoro sulla base della parità sessuale, le lavoratrici ridimensionarono aspirazioni e rivendicazioni. Per giustificare il bisogno di lavorare addussero a pretesto la “necessità familiare”, o il fatto che si trattava solo di un ripiego temporaneo, oppure che i posti da loro occupati erano troppo umili o troppo segnatamente femminili per essere adatti agli uomini. Le professioniste stesse, che una volta avevano fatto causa comune con le donne della classe operaia e adesso erano organizzate in istituzioni fasciste del tutto separate come l’ANFAL – Associazione Nazionale Fascista Artiste e Laureate – legittimarono questi atteggiamenti. Esse difendevano il diritto femminile di accedere alle carriere purchè non contrastasse con i doveri familiari, e sostenevano la formazione professionale delle donne nei ruoli di assistente sociale, di infermiera e di insegnante, tutte occupazioni che oltre ad addirsi in modo particolare alle qualità femminili davano maggiore assicurazione di promuovere il progresso nazionale. Pur parlando di discriminazioni sul lavoro ne davano la colpa alla gelosia maschile, piuttosto che al sistema fascista.

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