Il fatto che il regime radunasse le donne in un’ampia gamma di organizzazioni di partito può sembrare a prima vista in contrasto con il suo tentativo di escluderle dalla sfera pubblica. A differenza dei regimi conservatori, tuttavia, il fascismo comprese che le sue sociali e sessuali, proprio perché ambivano ad essere “totalitarie”, non potevano essere realizzate senza il consenso dei suoi sudditi sia femmine che maschi. Infatti, nella misura in cui la dittatura aggravò le già acute divisioni sociali e sessuali all’interno della società italiana, spettò al PNF promuovere uno svariato numero di organizzazioni femminili. Entro la fine degli anni ’30 esso aveva completato la serie, che comprendeva i fasci femminili – il primo nucleo dei quali era stato fondato nel 1920, rivolti principalmente alle classi medie urbane -, le massaie rurali (1934) per le contadine e il SOLD (1938) per le operaie, le piccole italiane, nonché le sezioni femminili dei GUF (gruppi universitari) e le giovani fasciste. Alla vigilia della II guerra mondiale circa 3.180.000 donne possedevano la tessera dell’una o dell’altra organizzazione del partito.
Inizialmente, tuttavia, il PNF aveva diffidato a tal punto dei movimenti d’emancipazione delle donne da rimandare a lungo la decisione di autorizzare organizzazioni femminili di partito. Si era mostrato francamente ostile alle richieste di appoggio provenienti dalle sue prime seguaci , e aveva schiacciato duramente le speranze d’emancipazione delle fasciste “della prima ora” trattando con disprezzo, ignorando o in qualche caso addirittura espellendo le loro dirigenti fondatrici, in gran parte donne settentrionali colte e di famiglia altolocata.
Fino all’inizio degli anni ’30 il numero delle aderenti ai gruppi femminili cattolici superava quello delle iscritte ai fasci femminili. Sino al 1931, quando fondò l’Accademia di Orvieto, il PNF non aveva elaborato alcun piano, neanche limitato, per la formazione di quadri femminili né lo fece in modo significativo fino a dopo il 1936. solo alla fine del 1937 il partito assegnò una Fiat 1100 alle fiduciarie delle sezioni femminili delle federazioni provinciali. Prima di allora esse devono aver viaggiato sui mezzi di trasporto pubblici; o più probabilmente, vista la posizione altolocata di molte di loro, venivano accompagnate in automobile da autisti di famiglia.
La mobilitazione femminile di massa cominciò solo all’inizio degli anni ’30. il primo appello per aumentare le iscrizioni ai fasci femminili fu lanciato all’inizio della depressione; le volontarie appartenenti alle classi superiori dovevano “andare verso il popolo” prestando la propria opera nelle cucine popolari e negli uffici dell’assistenza sociale, per nutrire o altrimenti assistere i poveri. Il successivo appello fu rivolto alle “donne d’Italia” al tempo della guerra d’Etiopia, allo scopo di rendere ogni famiglia “un fortilizio di resistenza” contro le sanzioni imposte dalla Società delle Nazioni. Nel 1935-37 il numero delle iscritte ai gruppi femminili fascisti crebbe rapidamente. Il terzo appello tentò di trasformare “l’amore di patria” delle donne in una più penetrante e attiva “sensibilità nazionale”; ciò avrebbe dovuto prepararle alla guerra totale e far crollare ogni distinzione tra dovere privato e servizio pubblico, tra abnegazione personale, interessi della famiglia e sacrificio sociale.
L’irreggimentazione fascista delle donne fu tuttavia assai tenue a paragone di quella nazista. In Italia non ci fu alcuna signora Fuhrer uber alles” come Gertrund Scholtz-Klinck, che esercitò la propria influenza attraverso la sezione femminile della NSDAP, venne infine ammessa nella gerarchia nazista e si vantò di regolari colloqui con Hitler. I fasci femminili erano diretti da comitati posti sotto il controllo del segretario del PNF. A differenza delle organizzazioni maschili che, grazie alla semplice forza numerica e all’accresciuta influenza burocratica a Roma riuscirono in qualche modo a costituire un mezzo d’espressione per i propri componenti, i gruppi femminili furono incapaci di dare voce ai problemi delle donne. Se pure i loro capi di elevata estrazione avevano qualche voce in capitolo era solo in virtù della propria distinzione sociale, o per il fatto di avere mariti altolocati. Il regime era infatti propenso a riprendere ai gruppi femminili il compito che originariamente aveva delegato loro, vale a dire l’assistenza sociale. I teorici dello Stato totalitario considerava l’erogazione dell’aiuto statale una tappa puramente temporanea verso la creazione dello Stato assistenziale onnicomprensivo. Quest’ultimo, si supponeva, sarebbe stato guidato dalle scienze attuariali, non dai sentimenti, e si sarebbe avvalso di personale maschile, non femminile. Le dirigenti dei servizi sociali, molte delle quali erano state un tempo femministe “pratiche”, difesero infine il diritto femminile di fornire personale a questa funzione pubblica tanto importante. Solo le donne avevano infatti la sensibilità per “penetrare i segreti dell’animo altrui e comprenderne i veri sentimenti”. Esse avevano inoltre nei confronti della società il dovere di essere attive fuori dagli stretti confini dell’ambiente familiare e, cosa non meno importante, soltanto loro avrebbero potuto “colmare le inevitabili lacune delle provvidenze statali”.
Alla fine il sistema fascista di organizzazione delle donne fu messo alle strette da un paradosso. Il compito delle donne era la maternità. Come “custodi del focolare” la loro vocazione primaria era quella di procreare, allevare i figli e amministrare le funzioni familiari nell’interesse dello Stato. Ma per poter eseguire questi doveri occorreva che fossero coscienti delle aspettative della società. Se non fossero state tratte al di fuori dell’ambito familiare dai nuovi impegni sarebbero state incapaci di congiungere gli interessi singoli a quelli della collettività. In linea di massima, durante il fascismo la via che conduceva fuori dal focolare domestico non portò all’emancipazione ma a nuovi doveri nei confronti della famiglia e dello Stato, non all’autonomia ma ad obbedire a nuovi padroni. Amministrare il significato della partecipazione politica femminile costituiva inevitabilmente un compito difficile. Le dirigenti amavano descrivere le giovani affidate alle loro cure come fanciulle che combinavano “nobilissime tradizioni” con la “modernità dei tempi”, come “creature di virile ardimento, ma di squisita femminilità”. L’organizzazione politica comportava inevitabilmente il rischio di aumentare il desiderio d’emancipazione delle donne. Come minimo, le distraeva dal loro dovere principale di “madri di pionieri e di soldati”.
Concludendo, il patriarcato fascista fu il prodotto di un’epoca in cui la politica demografica si identificava strettamente con la potenza nazionale. Il fascismo affrontò il problema dal punto di vista di una coalizione sociale conservatrice e nel quadro di strategie economiche che imposero pesanti oneri sulle risorse dei lavoratori e delle famiglie. Attraverso il mercato del lavoro e le gerarchie d’autorità all’interno dell’unità familiare, esso scaricò il maggior peso possibile sulle donne. Allo stesso tempo, la dittatura mussoliniana costituì una specie di risposta alla politica di laissez-faire dei suoi predecessori liberali. Come nell’ambito della politica propriamente detta, il fascismo impegnò i poteri d’emergenza dello Stato anche nel campo della politica sessuale al fine di istituire un nuovo ordine morale che ripudiasse la trasgressiva politica in materia dell’era liberale. Esso riconobbe alle donne il diritto di cittadinanza pur negando a quest’ultimo qualsiasi significato emancipatorio. Sfruttando l’inquietudine di molte donne – e uomini – nei confronti di forze di mercato caotiche, e il rapido mutamento dei modelli di fertilità, costume sessuale e vita familiare, il regime fascista presentò se stesso come capace di proteggere gli interessi della famiglia e allo stesso tempo di riconciliare questi interessi con il suo grande sforzo di “rigenerazione nazionale”.
Il dominio esercitato sulle donne italiane dalla dittatura fu in tal modo caratterizzato da una complessa mescolanza di protezionismo paternalistico e di benevola noncuranza, di incentivi concreti e di meschine restrizioni. Non a caso, la concezione maggiormente totalitaria della politica familiare, formulata dal giovane cattolico Ferdinando Loffredo, arrogante ancorché brillante studioso di scienze sociali, invitava il regime a essere sia più riformatore sia più repressivo. Nel suo spesso citato “Politica della famiglia” (1938) questi invocava la costituzione di ciò che potremmo definire una “famiglia neopatriarcale”. Dominata dal padre e incentrata sulla madre, essa sarebbe stata devota alla razza più che a un singolo regime. Per darle impulso il fascismo avrebbe dovuto rinnegare le elargizioni di elemosina “manchesteriane”, i sussidi di maternità e i premi demografici, che assecondavano una logica individualistica; e anche le iniziative politiche che minavano la solidarietà familiare, come i circoli del dopolavoro promossi dal partito, i gruppi giovanili e le celebrazioni collettive della “Befana” fascista. Una vera riforma avrebbe voluto dire invece aumentare il salario familiare, tassare proporzionalmente al carico di famiglia ed erogare non sussidi ma servizi destinati alla famiglia in modo simile a quanto avveniva contemporaneamente in Svezia. Tali riforme, tuttavia, non solo non avrebbero risolto il “problema sociale” suscitato dalle donne a cui si riferiva Myrdal ma minacciava addirittura di aggravarlo. Le donne rischiavano di sconvolgere la stessa politica tesa a riconoscere la centralità femminile nella vita della famiglia, e di quest’ultima nella sopravvivenza della razza e della nazione. La natura le rendeva infatti sensibili alle filosofie individualistiche e particolarmente inclini ad associare queste ultime alle ideologie della famiglia. Oltre a realizzare le riforme, dunque lo Stato avrebbe dovuto esercitare un potere totale, in primo luogo per istituire la “autarchia spirituale della nazione” e arrestare così il corrompente afflusso di ideologie individualistiche dall’estero, e poi per incoraggiare la pubblica opinione a escludere le donne dalla forza lavoro e dall’arena pubblica. Per risultare efficaci le riforme avrebbero dovuto procedere di pari passo con la repressione; le donne, concludeva pertanto Loffredo, “devono tornare ad un’assoluta soggezione all’uomo, padre o marito che sia; sottomissione, e perciò inferiorità, spirituale, culturale ed economica”.
La stessa contraddittorietà del patriarcato fascista aprì inevitabilmente le porte al dissenso. Subito dopo il decreto legge del 5 settembre 1938 un gruppo di impiegate presentò a Mussolini una petizione: come poteva il fascismo voltare le spalle alle “donne italiane”, che avevano aderito con “zelo” alla sua richiesta di sacrifici durante la guerra d’Etiopia? Le giuriste celebravano il decennale della rivoluzione fascista ma i loro commenti alla legislazione familiare misero in risalto che i costumi erano progrediti assai più di quanto non ammettessero le nuove leggi. Le scrittrici, colpite dalla svolta misogina della politica dopo il 1925, popolavano i loro romanzi di eroine sottomesse; il loro fervore masochistico le faceva apparire fataliste circa il proprio destino quando invece se ne vendicavano sul mondo. Le donne del popolo iniziarono “scioperi delle nascite”, in flagrante violazione dell’ordine di proliferare impartito dal regime. Al pari dei giovanotti appartenenti alla “generazione del Littorio”, alla fine degli anni ’30 un numero crescente di studentesse universitarie, vedendo nel regime sempre più invecchiato un ostacolo alla realizzazione delle proprie legittime ambizioni di carriera, iniziò ad abbracciare il marxismo e le ideologie sociali cattoliche.
Ciò che univa assieme rivendicazioni tanto diverse non era tanto una qualche sensibilità femminile comune, quanto piuttosto il fatto di reagire tutte ad un unico sistema di dominio. Nel corso di due decenni la dittatura formulò riguardo le donne nuovi concetti di cittadinanza, e tuttavia ne frustrò la realizzazione. Il fascismo decise fin dal principio di trattare le donne come un entità unica legando il loro comune destino biologico di “madri della razza” alle ambizioni dello Stato nazionale. Inasprendo le differenze di reddito e di privilegi lo Stato fascista divise le donne in base alla casta e alle funzioni. Le leggi, i servizi sociali e la propaganda affermavano la suprema importanza della maternità; e tuttavia la povertà, il magro sistema di assistenza sociale e infine la guerra resero l’essere madre un’impresa eccezionalmente ardua. Il fascismo definiva la famiglia il pilastro dello Stato; ma le strategie familiari di sopravvivenza accentuarono le tendenze antistatalistiche all’interno della società italiana. La politica di massa impose la partecipazione delle donne alla vita pubblica. E tuttavia le esigenze familiari, i costumi sociali e la stessa ambivalenza mostrata dai dirigenti fascisti riguardo al coinvolgimento delle donne nella sfera pubblica impedirono alla vasta maggioranza di esse di essere coinvolte nell’entusiasmo ritualizzato della politica di massa.
Allo stesso modo, il sistema fascista condizionò profondamente il modo in cui le donne – e gli uomini – immaginarono il proprio destino, espressero il proprio malcontento e videro le conseguenze delle loro proteste. Le donne italiane furono spiccatamente attive nella Resistenza. Questa si sviluppò da Napoli in su alla fine dell’estate del 1943, dopo che con l’appoggio del re Vittorio Emanuele II il 25 luglio il Gran Consiglio ebbe esautorato Mussolini in una rivoluzione di palazzo; si diffuse poi nelle regioni centrosettentrionali, quando il vile governo provvisorio del maresciallo Badoglio fuggì il 9 settembre dopo aver firmato un armistizio con gli Alleati, abbandonando il paese all’occupazione tedesca. All’inizio del 1945 la Resistenza contava circa 250.000 attivisti. Per quanto riguarda le donne, 70.000 erano nei Gruppi di difesa della donna e 35.000 operavano come forze combattenti. Altre decine di migliaia di donne, inoltre, offrivano nascondiglio e assistenza ai partigiani, aiutavano soldati sbandati italiani e stranieri, proteggevano gli ebrei in fuga dalla polizia nazifascista e salvavano uomini italiani dalla coscrizione per il lavoro coatto in Germania. Ben 46.000 vennero arrestate, torturate e processate, 2.750 furono deportate nei campi di concentramento tedeschi, e 623 giustiziate o uccise in combattimento. Si trattò in maggioranza di operaie e contadine vicine alla resistenza comunista, le cui comunità bene organizzate e le cui fedi politiche di vecchia tradizione familiare rafforzarono le reti dell’opposizione. Ma vi furono anche donne del ceto medio cattolico, e almeno una ventina appartenenti a illustri famiglie aristocratiche tra cui Maria Josè, la nuora di Vittorio Emanuele III nata in Belgio e di tendenze socialiste.
Senza dubbio la guerra, accompagnata dopo il 1943 dalla crudele occupazione tedesca, costituì uno stimolo importante per entrare nella Resistenza. Essa dimostrò l’incapacità delle donne di realizzare la quadratura del cerchio, adempiere cioè il proprio dovere patriottico consegnando stoicamente figli e mariti a uno sforzo bellico palesemente inetto e mettendo allo stesso tempo il pane in tavola. Dopo il 1943 la “coscienza femminile” – per usare l’espressione di Temma Kaplan – vale a dire il senso degli obblighi collettivi radicato nell’accettazione femminile di una visione del lavoro sociale basata sul sesso, si legò alla “coscienza comunitaria” che unì uomini e donne nella lotta per liberare l’Italia dai nazifascismi. Più difficile è scoprire dietro questa partecipazione femminile un’ispirazione specificamente femminista. Movimento politico e sociale per la libertà e la giustizia sociale, e guidata da partiti politici intenti a guadagnare posizioni di forza nella ricostruzione italiana dopo la fine della guerra, la Resistenza non incoraggiò la critica della supremazia maschile, né si propose di affrontare il complesso problema costituito da una ridefinizione dell’identità femminile e dei sessi necessaria per opporsi agli insidiosi condizionamenti esercitati da due decenni di sviluppo nazionale sotto il dominio fascista. Quando arrivò il giorno di celebrare le vittorie della Resistenza il contributo delle donne fu in generale “taciuto”. La nuova Repubblica, pur ammettendo una parità formale sul mercato del lavoro e concedendo alle donne il voto, conservò la legislazione penale e familiare, oltre agli innumerevoli costumi sociali e comportamenti culturali residui dell’era fascista.