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Il cripto-maschilista. Maschilista inside

Alfonso in chat si faceva chiamare “meditabondo”. Mi piacque subìto. Aveva una risposta per ognuno e io, per lui, ero quella speciale. Non passò molto tempo che mi invitò a passare una serata insieme. Mi portò al centro sociale dove faceva un sacco di cose. Era davvero affascinante guardarlo mentre teneva lontani tutti quelli che davano fastidio. Un lavoro duro, di quelli che “bisogna crederci”. Così mi diceva, mentre continuava a esercitare il suo potere in quei tre metri quadri che spremevano uomini, cani, punkabbestia – che poi sembravano l’incrocio tra i primi due.  Non capivo quel mondo, ma sentivo che grondava di una sua particolare coerenza.

Alfonso era un tipo duro, ossuto, con le labbra carnose e gli occhi scuri. Beveva poco e si drogava ancora meno, perché “in politica bisogna essere lucidi” – affermava.

Trascorsi molte serate con lui. Così ebbi modo di conoscere anche alcune ragazze di quel posto. Non so perché ma sembrava proprio che parlassero la stessa identica lingua del mio Alfonso. "Ci credevano" pure loro e a volte non le distinguevo perché pareva si scambiassero anche i vestiti. Tutte, tranne una.

Io mi sentivo così orgogliosa di far parte di quella strana tribù.

Da un giorno all’altro la mia vita cambiò. Non ero più sola. Ero sempre impegnata in qualcosa e non era un lavoro, no. Di soldi non ne vedevo neanche l’ombra. Ma tutti avevano quel tono astioso di rimprovero se pure mancavo perché mi veniva l’influenza. Però era giusto, “la lotta non è un pranzo di gala” e non bisognava stare a “pettinare le bambole” – mi dicevano.

Speravo che nessuno mi chiedesse mai il senso di quelle frasi. Io le avevo imparate a memoria. Spesso annuivo come una scema fingendo di avere capito perfettamente ogni parte di quel gergo. Facevano così anche le altre. Perciò quando chiedevo che significato avessero quelle o altre parole, tutte cambiavano discorso. Intuivo comunque dove piazzarle e il risultato mi sembrava abbastanza buono.

Poco alla volta cambiai anche look. E’ stato uno di quei cambiamenti che si fanno solo all’esterno. Avevo le cosce di fuori ma le inibizioni erano le stesse. Mi mettevo robine fantasiose che lasciavano straripare il seno ma la sensualità era allo stesso punto di prima. Ad ogni modo mi sentivo bene. Ero una di loro. In tutti i sensi.

Tra gli uomini del gruppo c’era uno strano codice d’onore. Io ero la donna di Alfonso e quindi intoccabile. Perché loro erano compari e si dovevano rispetto. Questa cosa mi faceva sentire parecchio importante. L’altra regola del codice era che nessuno doveva farsi i cazzi dell’altro.

Una volta Renato, che io chiamavo lo stronzo perché mi stava antipatico, si mise a urlare durante un concerto. Era una di quelle serate in cui tutti saltavano e si lanciavano l’uno contro l’altro. Così. Pareva fosse una cosa tanto divertente.

Renato urlava contro Marina, quella che non vestiva come le altre. Non capivo cosa stessero dicendo e soprattutto perché lei piangeva. Lui continuava a urlare e ad un certo punto cominciò anche a tirare su le mani e a dargliele di santa ragione. Provai ad avvicinarmi per dirgli di smettere ma Alfonso mi fermò. Mi disse che non erano affari miei. Renato non si sarebbe mai immischiato in una discussione tra noi. Una specie di scambio di favori tra uomini di rispetto. Un altro si precipitò sui due e tirò via lo stronzo. Non lo aiutò nessuno. Si prese un sacco di botte pure lui e nessuno consolò lei, ne’ lo potei fare io giacchè Alfonso me lo impediva. La discussione coinvolse gli altri solo ad un certo punto, per una ragione che in realtà non ho ben capito. Renato, tra un pugno e l’altro, si mise a inveire contro il tizio che voleva fermarlo e siccome quello gli urlava che era un gran pezzo di merda allora lo chiamò: infame!

Non l’avesse mai fatto. Tutti, scambiatosi un segnale convenzionale, si precipitarono sull’ingorgo. Renato finì fuori dal centro sociale e l’altro si prese i complimentoni e la solidarietà di tutti. Persino io che non avevo capito nulla dovetti abbracciare con ammirazione l’eroe della serata. D’improvviso, e solo in quel momento, la donna che era stata malmenata fu proclamata libera di ricevere consolazione e lei attraversò la stanza come in un rito d’altri tempi. Raggiunse il suo salvatore e lo ringraziò come fosse un atto dovuto alla tribù più che a lui stesso.

Ma non era ancora finita. Il gruppo degli uomini decise di fare una spedizione punitiva contro Renato per dargli una lezione definitiva. Così non si sarebbe mai più permesso di chiamare "infame" un compagno. Io e le altre donne restammo al centro sociale ad aspettarli. Nei nostri discorsi aleggiava una certa gratitudine e un grande senso di sicurezza. Era bello sapere di avere accanto uomini così legati ai propri principi. Marina invece ci ricordava che pure avevamo già scelto di rinunciare alla protezione fasulla di padri e fratelli.

Quella serata non fu la migliore della mia vita e quando provai a parlarne con Alfonso lui mi disse che così doveva andare. La cosa mi stonava troppo. Così da quel momento in poi decisi di guardare con i miei occhi e parlare con la mia bocca.

Non fu affatto semplice. Un certo atteggiamento mi diceva che dovevo stare “dentro o fuori”. Non c’era una via di mezzo e soprattutto io potevo continuare a esistere e a guadagnarmi rispetto solo perché stavo con un uomo del gruppo. Piano piano però anche il mio rapporto con Alfonso cominciò a deteriorarsi.

Fuori dal centro sociale non gli piacevo e se ci vedevamo lì io stavo davvero a disagio. Mi resi conto che con lui non riuscivo più neanche a parlare. Per esempio: Aveva una strana avversione per i gay e questa cosa non era affatto esplicita. Quando ne incontrava uno ci parlava, scherzava, come un bravo scout. Anzi si vantava di frequentarli. Basta che non ne sentisse la puzza troppo da vicino.

Un giorno provai a parlarne. Gli chiesi perché si beasse del rapporto con i gay se poi, in solitaria, si lasciava andare in risolini e battute omofobe. Non troppo, certo, ma abbastanza per uno come lui. Scherzando gli dissi che forse aveva solo paura di ammettere che anche a lui piacevano quelli del suo stesso sesso. Andò su tutte le furie. Non mi rivolse la parola per giorni e poi mi confidò di un giochino fatto chissà come, forse con un cugino o in parrocchia, dove lo mandava la madre. Mi chiese di non dirlo a nessuno e io naturalmente giurai che non lo avrei fatto mai. Tuttavia gli chiesi di affrontare il problema perché non era bello vedere come gli si illuminava lo sguardo quando sentiva parlare di due lesbiche e come invece diventava aggressivo se si sentiva turbato da un accostamento con i gay.

Così lui mi diceva che gli piacevano le donne e io rispondevo che non poteva essere certo di niente e che comunque se era così sicuro della scelta che aveva fatto allora non capivo perché stava sempre così in tensione se si affrontava l’argomento.

Poi c’era un altro aspetto. Continuava a chiedermi conferma del nostro rapporto e della nostra vita sessuale. Il corpo era un po’ un’incognita anche per me e quindi non pensavo di fare male a nessuno se gli chiedevo di agevolare la mia curiosità. Qualche volta, poi, sapevo anche piuttosto bene se una cosa mi piaceva oppure no. Però guai a dirglielo o a chiedergli qualcosa. Mi diceva che si bloccava, non riusciva più a fare niente. Io lo rendevo insicuro – così diceva. Non potevo parlarne neppure con le altre ragazze. Lui temeva che poi lo avrebbero detto agli uomini. Gli seccava passare per coglione.

Io mi sentivo in trappola. In quel clima ovattato e nascosto. In balìa di quella strana omertà e di quel codice d’onore. In mezzo a donne con le quali non potevo parlare perché non avrebbero capito o perché erano contente così. Forse non era lo stesso per Marina, ma non volli rischiare.

Però non volevo arrendermi. Decisi di fare un altro tentativo. Alfonso sembrava un uomo intelligente. Così gli chiesi di pensare a qualcosa che potesse farmi piacere. Per il mio piacere. Mi portò un succinto abitino fatto di corda rigida che ad infilarmelo sembrava una cintura di castità un po’ più grande. Tanto era scomodo. Mi provocò un enorme prurito e dopo un po’ mi resi conto che sanguinavo su un fianco perché la corda del vestito mi aveva grattato via la pelle. Gli chiesi come mai mi avesse comprato quella orribile cosa e lui offeso mi disse che pensava di farmi piacere. Cioè: pensava che vedendomelo addosso lui potesse eccitarsi e quindi farmi piacere. Ma doveva per forza essere lui a farmi piacere? Se mi regalava qualcos’altro da usare in due senza rischiare di mutilarmi sarebbe stato poi davvero così terribile? Non poteva. Questa fu la sua risposta.

“Se non ti soddisfo allora trovati un altro!” – ringhiò.

Ma davvero pensava di valere solo se il suo pene fuonzionava da dio? Solo se la mia immaginazione era invasa dalla sua carne e dai suoi liquidi? E se non avesse avuto durate intense e quell’atteggiamento da gorgo del triangolo delle bermude che mi spingeva in giù piuttosto che mandarmi in su?

“Ti avrei chiesto di andartene!” – concluse.

Cioè: lui mi rompeva tanto sul fatto che non si identificava con il suo pene e che non se l’era mai misurato con nessuno e soprattutto, grande o piccolo che fosse – che lui lo sapesse usare o no – diceva che non era quello che contava nel rapporto tra uomo e donna. Sotto sotto invece covava questo strano astio verso chi lo faceva sentire un po’ impreparato. Come se l’apprendimento e lo scambio di nozioni si traducesse in impotenza, diventasse uno svantaggio. Come se dirgli di spostarsi un po’ più a destra e di non inciampare sul mio corpo fosse una dichiarazione di guerra, un modo per definirlo un incapace. Come se ad usare le mani – mie o sue -, il getto di una doccia, qualunque altra cosa che non fosse il suo pene volesse dire che ce l'aveva fuori uso e quindi che lui, Alfonso, non mi serviva a niente.

Da lì in poi lo osservai con più attenzione. Mi resi conto che lui teneva ad esercitare il suo potere ovunque. Non amava essere messo in discussione. Se per caso subìva qualche critica e doveva mollare la postazione di comando a qualcun altro, qualunque fosse la ragione, bisognava che lui ammettesse di essere sconfitto e che, allo stesso tempo, ne rivendicasse una ragione che immediatamente assurgeva ad una stravagante dignità politica.

Non riusciva ad accettare che altri potessero fare meglio di lui e a presentare la sua inadeguatezza senza farla diventare ulteriore motivo di esibizione. Soprattutto: non riusciva a pensare che le cose bisognava farle insieme e che lui non poteva tenere tutto sotto il suo controllo. Così contai tutte le volte che anche mentre si parlava tra noi lui diceva “Io…Io…Io”.  

Non amava essere contraddetto e quando io avevo espresso un’opinione diversa dalla sua, in presenza d'altri, mi aveva schernito, umiliato. Poi mi prendeva in un angolo e mi diceva che non dovevo mai contestarlo in pubblico perché ne andava della sua credibilità. Lui era una specie di capo e se io lo facevo apparire debole, tutto il gruppo ne avrebbe pagato le conseguenze.

“Fuori ci sono dei nemici!” – mi rimproverava.

Io ne avevo abbastanza delle sue censure e un giorno andai al centro sociale, vestita e truccata da me stessa. Raccontai di quando piccolissima mi masturbavo in cucina, con mia madre che preparava il pranzo e che tra una cosa e l’altra ebbe il tempo per venirmi a dare uno schiaffo sulle manine. Inaugurai così la mia personale collezione di “non si fa!”. Più tardi mio zio mi scoprì a strusciarmi con mio cugino dentro lo sgabuzzino. Non mi lasciavano in pace neppure se mi trovavano con una bambola a fare cose strane dentro l’armadio a muro. Non capivo se era una questione di luoghi o di che altro. La mia bambola non si lamentava e mio cugino neppure. Mia sorella mi offrì una gamba che io intrecciai alle mie e la strinsi con tutte le mie forze. Alla fine ero sfinita e lei mi chiese se ero contenta. Sembrava più un rimprovero che una domanda. Non avevo la risposta. Poi fu lei a strofinarsi e non ne volle mai parlare, neppure quando diventammo più grandi. Era un capitolo archiviato. Magari rimosso. La mamma di una amichetta, invece, mi cacciò fuori di casa e disse a mia madre che ero una bambina perversa. Mi aveva scoperto mentre infilavo matite dentro l’ano di sua figlia. Quella mi aveva chiesto di giocare al dottore e io le stavo misurando la febbre.

Non ho mai perduto le mie vecchie abitudini. Ho sempre stretto saldamente tra le cosce quello che mi dava eccitazione. E non mi è mai piaciuto sentirmi dire di stare ferma in un angolo e di sacrificare il mio piacere.

Quello che chiedeva Alfonso, per me, aveva lo stesso preciso significato. Perciò raccontai anche di tutte le volte che mi leccava nel punto sbagliato e di come si arrabbiava se suggerivo di spostare le sue attenzioni nel posto giusto. Descrissi con deciso tono militante i momenti in cui massacrava i miei capezzoli perché mordicchiare sensualmente per lui era l’eufemismo di azzannare. Parlai di tutte le volte che me lo spingeva giù in gola e non si curava di provocarmi una semi paresi facciale con qualche rigurgito di vomito. Era maldestro. Non lo faceva apposta. Non era un uomo di quel genere. Ma non voleva neppure sentirsi dire dove sbagliava. Per me, questo, era anche peggio. Il suo ricatto era meno visibile, ma mi faceva più male.

Di colpo mi resi conto di quanto fossero inbacuccate le altre ragazze. Fuori esibivano migliaia di centimetri di corpo, dentro era come se avessero le emozioni e i desideri chiusi con una chiave che – sebbene in loro possesso – utilizzavano solo se autorizzate. Stavano lì ferme ad ascoltare, ben attente a non muovere un muscolo. Solo una sorrideva compiaciuta.

Era Marina, quella che le aveva buscate da Renato. Mi lanciava sguardi di complicità e allo stesso tempo si voltava a osservare le facce stranite degli uomini del gruppo. Mi guardavano come per dire: “ma questa qui cosa vuole?” La questione non li riguardava. Non era affar loro. Non era tema politico. Non era motivo di lotta. Allora dissi che  magari serviva che ne parlassero anche loro e che spiegassero perché si sentivano così a disagio.

“Non è disagio! Abbiamo cose più importanti da fare. Hanno arrestato due compagni nell’azione di stamattina…” – rispose Ciccio.

Si può mortificare un bisogno aggredendolo con una emergenza più virile?

“Parlatene tra voi…” – concluse.

Marina era più grande di me e non sapevo neppure perché facesse parte di quel gruppo di cui si vedeva che non aveva condiviso la storia. Fece una risata calda, armoniosa e tra il serio e il faceto lanciò la proposta. Come fosse una provocazione.

“Facciamo un gruppo femminile!” e le altre risero come sollevate da un grande imbarazzo.

Se proprio si voleva parlare di faccende di femmine allora cosa poteva esserci di meglio che una meravigliosa nicchia? Una rispose che non le piacevano le separazioni. Un’altra che non aveva gli stessi problemi e forse era bene che io andassi da uno psicologo. Una alla volta si alzarono tutte e nella gara tra la faccenda dei bisogni e quella dei carcerati vinse quella dove era più facile sentirsi eroi.

Marina fu l’ultima ad alzarsi e ridendo allargò le braccia come per dire:

“Cosa ti aspettavi? Era ovvio che sarebbe andata così!”

Mi prese per mano e mi portò fuori. Le dissi che non mi aspettavo niente. Volevo solo sentire stridere forte le contraddizioni che avevo visto. Perché finalmente mi fossero chiare.

“Ora le hai sentite!” – disse lei. “Resti o te ne vai?”

“Di sicuro non sto più con Alfonso! E’ un capitano del nulla…”

“Allora vieni con me.”

La seguì in una casa con una stanza piena di fiori di carta. La prima volta che mi baciò rimasi ad occhi aperti. Mi sembrava di guardarmi allo specchio. Era strano. Poi chiusi gli occhi. Mi faceva appena assaggiare le labbra, senza sputarmi, senza farmi una doccia ogni volta che tirava fuori la lingua – come faceva Alfonso. Il suo alito era fresco, buono. Il suo odore mischiato di caldo e di profumato. Aveva una carezza come la mia, potente e leggera. Non ebbi bisogno di chiedere, di spiegarle nulla. Sapeva ogni cosa. Mi assaggiava senza ingoiarmi. Mi entrava dentro senza trafiggermi. Mi parlava e voleva mie notizie. Ricordava quello che era interessante per me e mi incontrava senza appuntamento, come fosse per caso. Mi intuiva con attenzione e io provai il piacere di essere ascoltata.

Alla fine mi sentii un po’ confusa. Non perché fossi stata a letto con lei, no. Mi era sembrato naturale e probabilmente lo era. Ma solo perché pensavo di dover scegliere.

“Non devi!” – mi disse Marina. “Fai quello che ti piace e non cercare di farti piacere quello che non va bene…!”

Era vero. Per dare altre possibilità a tutti, avevo rinunciato a ciascuna delle mie. Aveva ragione Marina. Non sarebbe accaduto. Mai più.

 

[e.p.] 

Posted in Autoproduzioni, Corpi, Narrazioni ultimate.


2 Responses

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  1. FikaSicula says

    Grazie mazxim!
    anche tu sul tuo sito hai delle cose molto interessanti. Sto aggeggiando per scaricare e sentire la tua musica. Spero di riuscirci 🙂

  2. mazxim says

    ..scrivi bene, in modo chiaro e senza asperita’..fra le altre cose, sono rimasto colpito dalla serena disinibizione con la quale tiri fuori i dettagli del rapporto orale, e i fraintendimenti annessi. Brava!