Come si fa a correre senza sapere dove andare? Io preferisco camminare piano. A voi forse sembrerà facile ma io non riesco ad andare a zonzo rapida come una mosca impazzita. A fare così prima o poi si inciampa in una ragnatela. Non è mica colpa di nessuno, no. Succede e basta. Perciò ho deciso che voglio camminare piano. Tanto più che prima correvo:
poco più di una bambina e già ero madre. Da qualche parte sicuramente esisteva un colpevole. Mio padre lo trovò e decise di punirmi. Fui condannata a stare con lui finchè morte eccetera eccetera.
Strani uomini mio padre e il padre di mia figlia. Non sapevano chiedere senza aggredire. Persone fragili che avevano bisogno di aiuto.
Io no. Lo aveva deciso papa’ quando disse che per lui ero morta. Non per cattiveria, solo perché nessuno gli aveva scritto una nuova battuta e lui riciclò quella di suo padre e del padre di suo padre; per attaccamento alle tradizioni, ecco.
Allora barattai la mia resurrezione con una fede al dito. A tutti piaceva pensare che io ero felice. Regalavo bugie per non morire un’altra volta.
Non ero brava come la Madonna, certo. E chi avrebbe creduto mai nel ventunesimo secolo alla favola di quella specie di inseminazione artificiale con tanto di apparizione arcangiolesca? Lei si che era stata proprio brava. Se non avessero creduto alla sua storia le toccava la lapidazione.
Così anch’io volevo fare come la Madonna, inventare una storia leggendaria, essere degna del rispetto di mio padre, vivere accanto ad un uomo buono talmente innamorato da togliermi dal disonore e accettare mio figlio come fosse suo.
Quello che avevo sposato era la prolunga malconcia del cordone paterno. Perciò non mi serviva correre. Mi riarrotolavo alla stessa velocità con la quale mi srotolavo. Effetto yo’ yo’ a parte, lui non sapeva parlare. Il suo disco si era incantato in un punto che diceva: “E’ colpa tua… e’ colpa tua… ” . Poi rideva e si arrabbiava, con me soprattutto, per qualunque ragione.
Ne avevo tante di colpe io. Me lo disse anche sua madre quella notte che andai a bussare alla sua porta. Dovevo tornare da lui, lei non voleva saperne. Mio padre in cuor suo mi aveva già ucciso e allora tornai a casa e la mia faccia diventò ancora più viola.
Una notte i vicini chiamarono i carabinieri. Avevo un labbro rotto e male alla schiena. Mi aveva preso a calci. Dichiarò di aver tirato qualche schiaffetto perché “anche nelle migliori famiglie ci sono discussioni”. Sorrisi di complicità, gomitate, uno in divisa mi fa: – Signora sta bene? Vuole fare la denuncia? – una chiara intimidazione, il mio uomo minaccioso non mi perdeva di vista. No, che non stavo bene e no, che non volevo denunciare. Ma cosa glielo dicevo a fare.
Io volevo solo essere come la Madonna. Passare la nottata, sopravvivere, vedere sorgere il sole e poi cercare un posto dove andare. Se lo denunciavo lui diventava più cattivo.
Con i giorni passarono anche le diverse tonalità di viola. Guarito il labbro, guarito tutto, meno la paura. Presi i ricordi che lui non aveva distrutto e andai da una amica. Mi ritrovò e minacciò di demolirgli casa. Tornai indietro.
Mia madre mi disse che il matrimonio era così: “vedi quanti sacrifici faccio io per mantenere la pace in famiglia!” Si mamma, lo vedo. Ho capito.
La mia amica mi accompagnò a parlare con la tizia dell’associazione. Era così bella. Non aveva neppure un livido. Curata, perfetta. Mi guardava per capire con quale scusa mandarmi via. “Non riesco più a vedere il mio futuro!” – le dissi. Non fu sufficiente. “La situazione finisce se decide che finisce!“ – mi rimproverò.
Non reggevo il suo sguardo. Mi faceva vergognare di esistere. Allora era proprio vero: me lo meritavo! Altro che fare la Madonna. Lei aggiustò più volte una splendida ciocca dei suoi capelli e aggrottando le sopracciglia mi disse che mi fissava un appuntamento con una psicologa.
“Non posso tornare a casa. Ho bisogno di un lavoro…” – provai a chiedere. Quella insisteva che bisognava prima fare la denuncia e da lì iniziava la trafila per l’ammissione alla casa protetta. “Ma se lo denuncio e resto a casa con lui come faccio a non morire?” “Deve capire… che non abbiamo tanti posti, non ci danno abbastanza contributi. Lei intanto vada a dormire da un’amica…”
Certo, come no! Tornai a casa. Mia figlia si addormentò presto, povera cucciola. Presi una lama, quella più affilata. Rimasi così seduta per ore, con il coltello in mano. I suoi passi, udivo distintamente il suo respiro, poi infilò la chiave nella serratura. La porta si aprì.
[e.p.]