Dal momento che la legge sull’aborto è tarata su una sessualità volta, per dirla con Carla Lonzi, al fine procreativo, più che chiedere la conservazione di uno strumento legislativo che riconferma la funzionalità della donna alla riproduzione sociale, è necessario rivendicare il diritto alla costruzione di una soggettività che abbia le potenzialità relazionali, affettive e materiali per scegliere se, come e quando procreare e come disporre del proprio corpo, incluso quali parti mettere a valore, senza dover essere costretta a riprodurre l’ordine sociale funzionale a quello economico.
di LaPantaFika
Durante questi giorni non ho potuto non interrogarmi su ciò che stava accadendo in Spagna. “L’aborto non è più libero” continuiamo a ripeterci, eppure, anche in quella “libertà” per cui oggi lottiamo, non c’è una piena e reale autodeterminazione da parte della donna. Non voglio mi fraintendiate quindi proverò ad essere il più chiara possibile.
Nella lotta ho sempre creduto che fosse limitativo, non inutile o non necessario, agire per emergenze. Se c’è un problema è importante agire in fretta e in modo tempestivo, ma ciò non dovrebbe impedirci di vedere oltre.
La legge 194 è costantemente sotto attacco, lo sappiamo tutt@, infatti spessissimo ci ritroviamo a difenderla anche se per alcune non è perfetta e per altre il problema è proprio l’esistenza stessa della legge. Il movimento femminista, infatti, non lottò mai per avere una legge che regolamentasse l’aborto ma bensì per averne la depenalizzazione del reato dato che, mai, si sarebbe voluto legittimare lo Stato ad agire un ulteriore controllo sui nostri corpi. Ed infatti la legge che fu approvata, la 194, prevede al suo interno il meccanismo che la rende “difficilmente o per nulla attualizzatile”: l’obiezione di coscienza che è palesemente sovradeterminante per la donna.