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Sono una prostituta e un cliente mi ha stuprata

Da Abbatto i Muri:

No, non cercate di immaginare che tipo di prostituta io sia perché l’immagine che cercate di sovrapporre alle mie parole è rassicurante, stereotipata e non mi rappresenta. Io sono istruita, intelligente, in grado di scegliere e non ho alcun bisogno che voi mi descriviate come una povera reietta, un rifiuto sfortunato della società, che altri dovrebbero salvare. E’ proprio questo il punto dal quale faccio partire la mia storia.

C’era una volta un cliente abituale, di quelli che hanno in mente quell’immagine stigmatizzata della puttana schiava del pappone e che non può fare altro che apprezzare colui il quale vorrebbe “salvarti”. Diceva frasi tipo “quanto devono averti fatto soffrire…” o “sei stata stuprata da piccola?” oppure “mi dispiace davvero per la vita che fai… vorrei fare qualcosa per te…“. Dovete sapere che parte della recita che alcune volte una puttana deve portare avanti riguarda il fatto che bisogna capire quali sono le cose che possano rendere felice un cliente. E’ necessario dare supporto alla sua immaginazione, agevolare il suo desiderio, affinché lui stia meglio.

In quel caso era chiaro che quel cliente aveva bisogno di sgravarsi dal senso di colpa la cui radice forse era da attribuire alla sua repressiva e sessuofoba educazione cattolica. Non so. Quello che so è che aveva bisogno di sentirsi nobile, un innamorato sofferente, un paternalista utile, affinché io riuscissi a eccitarlo e dunque a farlo venire. Inutile, almeno all’inizio, precisare che non avevo alcun pappone, che quella era la mia scelta e che lui era soltanto un cliente come tanti altri.

L’immagine che della puttana viene diffusa in certi film è quella della fanciulla grata per essere tirata via dalla strada. Su questa cosa la società patriarcale ha realizzato un altro dei suoi mille puntelli attraverso i quali alle donne è stata inflitta subordinazione. Patriarcato vuole che bisogna essere grate se lui ti toglie dalla strada, se ti sposa e fa di te una “donna onesta”, chè se non sei sposata diventi disonesta, se riconosce tuo figlio dopo che t’ha messa incinta, se rende legittima la tua prole, se ti conduce all’altare e se, dunque, ti dà una collocazione sociale, uno status che conforta tutti quanti all’idea che l’unico sogno certo nella vita di una donna sarebbe quella di farsi scopare da uno soltanto e poi di godere di un matrimonio.

Continued…

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Cara Dominijanni, il femminismo stesso può essere “ancella del neoliberismo”!

Da Abbatto i Muri:

A me la risposta della Dominijanni al post di Angela Azzaro sembra fumosa, collocabile in quella fascia di pensieri della medio/borghesia di sinistra che parla di anticapitalismo senza aver mai avuto le pezze al culo.

Lo dico con umiltà e rispetto per il suo percorso e i suoi grandi contributi al pensare femminista. Lo dico sentendomi più vicina a lei di quanto non mi sia mai sentita vicino alle Se Non Ora Quando.

Sull’idea di Libertà rimando al saggio di Valeria Ottonelli. Sul concetto di autodeterminazione racconto qualcosa QUI. Sull’idea di normatività bisogna ragionarne.

Mi riferisco in particolare a questo passaggio dello scritto di Dominijanni:

La vera domanda però non riguarda la normatività femminista, bensì la normatività neoliberale, di sistema come si sarebbe detto un tempo, sulle donne. Qui sta il difficile, perché il neoliberalismo non governa reprimendo bensì usando le libertà: non vuole le donne oppresse né represse, le vuole libere, liberissime. Nessuno oggi impedisce a una donna di fare tutti i gesti di libertà che vuole, anzi più questi gesti fanno scandalo meglio è, più la sparano grossa più sono bocconi prelibati da lanciare sul mercato, più esagerano più rispondono al principio prestazione-godimento. Questo non impedisce, ma a mio avviso complica molto il nostro esercizio della libertà, ivi comprese le pratiche ironiche parodiche e di risignificazione a cui tu ti riferisci e sulle quali ovviamente concordo, ma che diversamente da te io non credo possano essere pratiche solo individuali.

Allora parliamo della normatività neoliberale. Non è forse quella che usa il femminismo, le “donne”, la stessa lotta contro la violenza sulle donne, per farne un brand? Non ha a che fare con il pinkwashing? Cosa sono altrimenti le tante pagine di quotidiani, le trasmissioni televisive, le mille strumentalizzazioni, le campagne di promozione di questo o quello, l’antiviolenza declinata a partire da una pubblicità di una azienda che così vende più mutande, la legittimazione di cui gode un governo o un partito quando racconta di aver dato spazio alle donne e di aver proposto e votato leggi “in nome delle donne” anche se le donne non le ha mai ascoltate?

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Beatriz Preciado. Omosessualità, transessualità: noi siamo dappertutto

noomofobia

di Beatriz Preciado

da Libération del 14 febbraio (Tradotto e pubblicato su GuazzingtonPost)

L’omosessualità è un cecchino silenzioso che mette una pallottola nel cuore dei bambini durante la ricreazione, li prende di mira senza cercare di sapere se sono bambini di bobo (borghesi-bohémiens, Ndt), di agnostici o cattolici integralisti.
La sua mano non trema, né nei collegi del VI arrondissement, né nelle zone di educazione prioritaria. Tira con la stessa precisione sulle strade di Chicago, i paesi d’Italia o le periferie di Johannesburg.
L’omosessualità è un cecchino cieco come l’amore, splendente come una risata e anche tenera come un cane. E quando si stanca di prendere di mira i bambini, tira una raffica di pallottole vaganti che finiscono nel cuore di una contadina, di un taxista, di un cantante hip-hop, di una postina che fa il suo giro… l’ultima pallottola ha colpito una donna di ottant’anni, nel sonno.

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