Laura Corradi me la sono vista spuntare al Feminist Blog Camp di Livorno con la sua splendida chioma brizzolata e la sua dimensione internazionale ed è davvero raro che le accademiche frequentino questi ambiti. Studiosa e attivista, ricercatrice e docente all’Università della Calabria, curatrice, tra le altre cose, anche del libro “Lo specchio delle sue brame” (2012), che analizza in termini socio-politici la pubblicità (secondo il genere, la classe, la razza, l’età e l’eterosessismo manifestato) e che nella nota a pagina 38 scrive:
“Il processo di arginamento della carica extra-istituzionale del femminismo si è intensificato in particolare dopo la conferenza delle Nazioni Unite sulle donne tenutasi a Pechino nel 1995, dove veniva di fatto sancita la supremazia del mainstreaming contro le tendenze più grassroots e militanti, in un processo di ulteriore istituzionalizzazione del movimento che ha depotenziato in termini di autonomia, creato dipendenze economiche sul piano della ricerca e rafforzato un establishment di api regine e piccole opportuniste – la letteratura in lingua inglese qui ci viene in aiuto con il termine femmocrats. Così vecchie trombone ed entusiaste damigelle hanno agito come filtri e gatekeeper nelle amministrazioni, nel sindacato e nelle università, spesso replicando elementi di sessismo interiorizzato, razzismo soft, omofobia latente, classismo accademico, pratiche esclusionarie verso i soggetti più critici o radical. Nei centri deputati allo studio ed alla implementazione di politiche per le donne, una serie di misure – quote rosa, azioni positive, pari opportunità – si sono dimostrate fortemente inefficaci a ridurre le disparità di genere, sia economiche che sociali, nel corso del quindicennio. E’ la storia di un fallimento. L’attività istituzionale infatti ha un senso se è collegata al movimento sociale da cui le istanze provengono. Se si tratta di misure istituzionali calate dall’alto esse tendono a spegnere l’attivismo e a rimpiazzarlo.”
Nel libro infatti, con l’aiuto di studentesse e altre compagne femministe, lei si riappropria dell’analisi sulle pubblicità e la restituisce parlando di disuguaglianze. Tutte le disuguaglianze. La sua visione, d’altronde, è appunto internazionale, i gender studies per lei non sono una azione acritica delle pratiche femministe in cui si fa ortodossia e insegnamento del dogma. E’ sperimentazione, è apertura a nuove filosofie che non trovano in effetti granché spazio tra le stesse femministe istituzionalizzate e oramai fagocitate dai meccanismi della comunicazione populista, e figuriamoci se ne trovano nella società e in una dimensione universitaria come la nostra.
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